Algeria. Capodanno berbero, tra speranze e paure

di Karim Metref. (pubblicato su “il manifesto” del 12/01/2018)

Il 12 gennaio, nei Paesi del Maghreb è Yennayer, il primo giorno dell’anno amazigh (berbero). Come in molte culture, Yennayer è per i nordafricani di cultura amazigh la principale festività dell’anno. In Algeria quest’anno, per la prima volta, la ricorrenza è dichiarata festa ufficiale.

Il calendario moderno degli Amazigh segna 2968 anni. Legata all’antichissimo calendario agrario berbero, questa festa fu riportata nel calendario «Giuliano» durante il dominio romano. Nel 1582, quando fu adottato il calendario di Papa Gregorio XIII, alcune realtà tradizionali rimasero attaccate al buon vecchio calendario di Giulio Cesare, mantenendo solo i 12 giorni di ritardo che aveva accumulato all’epoca, senza aggiungerne più altri.

È così che le Chiese ortodosse d’oriente, d’Egitto e d’Etiopia e gli amazigh continuano a festeggiare le loro ricorrenze con 12 giorni di ritardo rispetto a quelle internazionali.

Ma gli amazigh del Nordafrica vivono da secoli come minoranza culturale sulla loro terra, anche se numericamente in maggioranza. Lo stato coloniale prima e poi i giovani stati indipendenti di Libia, Tunisia, Algeria, Marocco, tutti liberati dal colonialismo occidentale sotto la bandiera di una forma o un’altra di nazionalismo arabo, marginalizzano del tutto sia la lingua, sia la cultura amazigh.

Ci sono voluti decenni di lotte e resistenza per far uscire la cultura originaria di tutti i nordafricani dal mondo del diniego dove era stata confinata per secoli. Dei risultati discreti sono stati raggiunti in Algeria e in Marocco, mentre in Libia e Tunisia la questione rimane ancora largamente irrisolta. E la proclamazione di Yennayer come giornata festiva ufficiale dello stato algerino altro non è che l’ultima di una lunga serie di vittorie di queste lotte.

Ma la strada da percorrere per la vera uscita dal ghetto è ancora lunga. Lo dimostrano le tensioni che attraversano l’Algeria prima e dopo questa proclamazione ufficiale.

L’autunno è stato molto caldo in Algeria. Lo stato, con la voce di Ahmed Ouyahia, il primo ministro, ha ufficialmente annunciato che le sue casse, fino a pochi anni fa colme di petrodollari sono ormai vuote. La nomina stessa di Ouyahia a metà agosto, in piena pausa estiva, era un segno inequivocabile di gravi difficoltà.

Il politico algerino, membro del Raduno nazionale democratico (Rnd), formato alla Scuola nazionale di amministrazione e con una lunga esperienza nelle quinte del potere in Algeria, è considerato come l’uomo dei lavori sporchi. La sua riabilitazione e nomina, dopo che era caduto in disgrazia presso le cerchie più strette del presidente Bouteflika vuol dire, secondo molti osservatori attenti, sangue e lacrime per il popolo: tagli, licenziamenti, carovita…

Così dopo la sua nomina Ouyahia ha annunciato misure drastiche. Da una parte il ricorso alla tipografia della Banca Centrale, per immettere nuova moneta in circolazione, dall’altra austerità e sacrifici. Eppure fino a poco tempo fa l’Algeria era tra i paesi non toccati dalla crisi. Aveva una riserva di denaro che si contava in centinaia di miliardi di dollari. Cos’è successo nel frattempo?

La stampa e l’opinione pubblica algerina si chiedono da anni come sia stato possibile sperperare la riserva di circa 1000 miliardi di dollari accumulata negli anni di vacche grasse. In realtà le cause le sanno tutti: crollo dei prezzi del petrolio, ma anche e soprattutto sprechi, cattiva gestione e corruzione. Soldi pubblici usati come riserva privata dalla classe politica per arricchirsi e per comprare silenzi e consensi.

Il dinaro algerino ha conosciuto un quasi dimezzamento del suo valore effettivo. Il potere d’acquisto dei cittadini, già non tanto grande, si è ridotto in modo notevole. Dagli inizi di settembre fino a questi giorni, scioperi e proteste di ogni tipo sono stati a migliaia. Ma l’Algeria è abituata al malumore dei suoi cittadini e lo stato è organizzato per gestire ogni tipo di movimento.

In qualche modo anche la protesta delle aree amazigh degli ultime settimane è legata alla crisi economica e alla legge finanziaria lacrime e sangue del signor Ouyahia. È ormai dal 2016, anno del riconoscimento della lingua amazigh come lingua ufficiale dello stato algerino, che ogni volta che viene presentato il piano finanziario annuale, il Partito dei Lavoratori (Pt) introduce una domanda di emendamento per ampliare i mezzi dedicati all’insegnamento e alla diffusione di questa lingua. E ogni anno i deputati della maggioranza hanno votato contro questo emendamento in massa.

Quest’anno è toccato alla parlamentare Nadia Chouitem, eletta del Pt per la circoscrizione di Algeri, presentare il progetto di emendamento dell’articolo 104 della legge finanziaria 2018. E come al solito i parlamentari dei due partiti al potere, il Fronte di liberazione nazionale (Fln) e l’Rnd di Ouyehia, appoggiati dai partiti islamisti, tutti tradizionalmente ostili alla causa amazigh, hanno votato contro. Ma si vede che quest’anno non è un anno come gli altri.

La notizia ripresa dai social media e dai giornali online a metà dicembre diventa virale. E come succede spesso in questi casi, si gonfia, si trasforma e prende dimensioni e forme diverse. La strada non tarda a reagire. Nelle province di Bejaia, Bouira e Tizi Ouzou, gli studenti escono nelle strade. Scioperi, barricate, scontri sono all’ordine del giorno. La Cabilia è una zona da sempre molto calda. Poco basta a metterla sul piede di guerra.

Ci sono voluti, oltre alla solita repressione, un bel po’ di concessioni per riportare la calma. Il 27 dicembre scorso, alla fine di un consiglio dei ministri, il governo ha annunciato la diffusione dell’insegnamento della lingua amazigh nella maggior parte delle province del paese, e non solo in quelle a maggioranza amazighofona com’era finora, e la proclamazione del 12 gennaio festività nazionale ufficiale dello stato algerino.

Contemporaneamente, le Poste algerine annunciavano la stampa di un francobollo con l’effige di Mouloud Mammeri, lo scrittore e antropologo, padre della lotta per il riconoscimento della lingua e cultura amazigh. Un riconoscimento che arriva per il centesimo anniversario della sua nascita e quasi 30 anni dopo la sua morte. Ma come si dice: meglio tardi che mai.

E, come se non bastasse, colmo della gioia del suo pubblico, il cantante Idir, icona della lotta degli Amazigh, rientra in patria dopo 40 anni di esilio volontario per una serie di concerti in giro per il paese.

Tutte buone notizie che daranno in questo Yennayer 2018, di nuovo festeggiato nell’incertezza politica e nella scarsità economica, un minimo di veridicità a quegli auguri di «Asegwas ameggaz», buon anno, che risuonano in tutto il paese. E quindi, «Asegwas ameggaz» a tutti.

 

Karim Metref
Sono nato sul fianco nord della catena del Giurgiura, nel nord dell’Algeria.

30 anni di vita spesi a cercare di affermare una identità culturale (quella della maggioranza minorizzata dei berberi in Nord Africa) mi ha portato a non capire più chi sono. E mi va benissimo.

A 30 anni ho mollato le mie montagne per sbarcare a Rapallo in Liguria. Passare dalla montagna al mare fu un grande spaesamento. Attraversare il mediterraneo da sud verso nord invece no.

Lavoro (quando ci riesco), passeggio tanto, leggo tanto, cerco di scrivere. Mi impiccio di tutto. Sopra tutto di ciò che non mi riguarda e/o che non capisco bene.

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