Algeria, gennaio 1992: la guerra civile…

è nell’aria

di Karim Metref (*)

L’11 gennaio 1992 il presidente Chadli Bedjedid presentava le dimissioni: l’esercito assumeva il potere e dichiarava l’interruzione del processo elettorale in corso. Fu l’inizio di una crisi politica e portò alla guerra civile che durò più di 10 anni.

Il sorriso della neve

Le elezioni del 1991 erano state le seconde elezioni libere e trasparenti dall’indipendenza del Paese nel 1962.

Dopo l’insurrezione del 5 ottobre 1988, lo Stato algerino decise di cambiare la Costituzione e di uscire dal socialismo (innanzitutto) e poi anche dal sistema del partito unico. Si aprì il campo dell’attività politica a diverse formazioni di tutte le tendenze.

Nelle montagne della Cabilia dove sono cresciuto si dice che le peggiori bufere di neve sono sempre precedute da una breve schiarita. Il cielo si apre e la pesante coltre di nuvole grigie lascia passare il sole, per qualche ora. Quelle ore di sole che precedono la tempesta sono chiamati «Il sorriso della neve».

I due anni che hanno seguito la rivolta del 5 ottobre furono una straordinaria stagione di libertà e creatività in Algeria. Una speranza folle era nata. Il Paese si credeva ormai fuori dal tunnel della dittatura e del sottosviluppo. Sognavamo una vita di libertà e di prosperità.… Invece era solo una breve schiarita: il sorriso della guerra.

Gli islamisti furono i primi a cogliere la palla al balzo. Il 18 febbraio 1989, settimane prima dell’adozione della legge sul multipartitismo, proclamarono la fondazione della nuova formazione, il Fronte Islamico della Salvezza (Fis), «il Fronte di Dio ». A 26 anni di dittatura in nome della legittimità storica, della guerra di liberazione nazionale, proponevano in alternativa una nuova dittatura basata sulla legittimità religiosa. « Il popolo algerino è musulmano, noi siamo il partito dell’Islam, quindi il popolo algerino deve fare come diciamo noi». Queste schematicamente erano le basi del loro discorso.

Dopo di loro furono proclamati una settantina di partiti diversi, di tutte le tendenze possibili e immaginabili: altri islamisti, nazionalisti, comunisti, liberali, partiti senza ideologie o obiettivi conosciuti. C’era di tutto. I primi a uscire all’aperto erano i movimenti e i partiti dell’opposizione storica che erano nella clandestinità. Ma poi arrivò una sfilza di nuove sigle, molte delle quali nascondevano piccoli gruppi di affaristi, imbroglioni o agenti dei servizi.

I mezzi di informazione di massa si moltiplicarono ma i cartacei soltanto, perché radio e tv rimanevano monopolio dello Stato. Anche il servizio pubblico si aprì alla pluralità e non era più unicamente la voce del governo. I partiti dell’opposizione erano ammessi sui set. E il popolo scopriva il dibattito contraddittorio. Qualche volta fino alla nausea.

In mezzo a tutto questo circo però c’era una sola formazione che faceva passi da giganti, ed era il Fis. I soldi arrivavano a palate dalle petrol-monarchie del Golfo arabo e gli attivisti si davano da fare per diffondere le loro idee semplici ma efficaci, come quelle di tutti gli estremisti, fra la gente rimasta senza riferimenti culturali: «Il mondo musulmano era grande quando era sotto la legge di Dio. Da quando ha cominciato ad abbandonarla è iniziata la decadenza. Se noi ritorniamo alla legge di Dio tornerà la potenza, torneranno la grandezza e la ricchezza». Da qui il loro slogan principale: L’Islam è la soluzione.

L’Islam è la soluzione

Poco più di un anno dopo la sua creazione, il Fis era il primo partito quasi ovunque (tranne la Cabilia, dove la tradizione di lotta per i diritti culturali ha tenuto in primo piano i partiti vicini a quella causa).

Il 12 giugno Fis vince le elezioni comunali con un risultato schiacciante. L’affluenza è notevole: su circa 13 milioni di iscritti alle liste votano più di 8 milioni e mezzo (il 66 per cento). Con il 53% dei voti vince in 853 comuni su 1539 ( 55%) e in 32 wilayat (province) su 48 (66%).

Il controllo delle amministrazioni comunali rafforza ulteriormente il partito. La visibilità, l’accesso ai dati sensibili, la disponibilità delle strutture e della logistica pubblica, permettono la costruzione di una vera e proprie ragnatela intorno ai cittadini. Il partito si sente forte e la base spinge per la presa del potere.

Lo spettro della guerra

Il 17 gennaio 1991 le cose cambiano. Dopo le minacce, gli Stati Uniti di George Bush padre passano all’azione. Appoggiati da una coalizione di 40 Paesi cominciano i bombardamenti a tappeto sull’Iraq di Saddam Hussein. Un vero choc per tutto il mondo arabo-musulmano. Lo spettro della guerra che si era allontanato per un po’ era tornato a volare sopra le teste della gente sbalordita. Molte persone escono ovunque in sostegno al Paese « fratello ». « Non dobbiamo lasciarlo solo ». « Saddam è tutti noi ».

Per il Fis la questione è particolarmente complicata. Il maggiore partito islamista del Paese è figlio anche dei petrodollari generosamente distribuiti dall’Arabia Saudita e da quel Koweit attaccato dall’Iraq. Saddam era un miscredente, un nazionalista arabo, i peggiori nemici dell’Islam Politico all’epoca, ed era alla testa di un regime socialista, altro grande nemico dell’Islam politico. Il Koweit era uno Stato teocratico e per di più molto generoso con i movimenti islamisti attraverso il mondo. Per la direzione del partito, la partita era chiusa. Sostegno incondizionato al Koweit. Convocano una assemblea generale per il 24 gennaio, in una sala polisportiva di Algeri, la sala Harcha.

L’affluenza è numerosissima sin dal primo mattino. Arrivando a metà mattinata i Sheikh della direzione nazionale trovano una sala incandescente. La base canta a squarciagola canti alla gloria di Saddam. I militanti del Fis come tutti gli algerini sono cresciuti a pane e anti-imperialismo. Sostenere le potenze occidentali contro un Paese « fratello » non era assolutamente ammissibile. I Sheikh si guardano fra di loro e il più conosciuto, tutto esitante, si alza e improvvisa una dichiarazione a favore dello Stato Iracheno e contro l’aggressione statunitense. Così facendo perderanno per un po’ di anni i finanziamenti delle monarchie arabe ma salvano il partito.

Verso la presa di potere

Ormai il partito vola con ali proprie e continua a crescere nonostante la perdita della fonte esterna di finanziamenti. Mentre la posizione di neutralità scelta dal governo rispetto al conflitto del Golfo porta molti arrabbiati nelle fila del Fis, i cui militanti in tenuta da combattimento fanno dimostrazioni in piazza per dire « Noi siamo pronti, mandateci a combattere per i nostri fratelli ».

Nello stesso tempo i militanti Fiìis chiedono l’organizzazione delle elezioni politiche subito. Di fronte ai tentennamenti del governo in carica, organizzano uno sciopero generale che comincia il 25 maggio 1991: il successo non è eclatante. Poche attività economiche si fermano. Ma per avere più effetto, fanno confluire decine di migliaia di militanti da tutto il Paese che si accampano nelle piazze principali della capitale e organizzano cortei continui bloccando le strade della città.

L’occupazione della città dura una settimana: nella notte del 3 al 4 giugno, l’esercito interviene e sgombera la città con la forza pura e dura. I morti sono decine, i feriti centinaia. Il 4 giugno viene instaurato lo stato di emergenza e alcuni dirigenti del Fis sono arrestati insieme a centinaia di attivisti di base. Ma gli scontri di piazza non cessano. Il 30 giugno l’esercito procede all’arresto dei Sheikh della direzione nazionale. I leader Abbassi Madani e Ali Benhadj in primis. Alcuni riescono a fuggire e rifugiarsi all’estero.

Un serpente senza testa

In qualche modo il sistema democratico riprende il suo corso e le elezioni politiche sono annunciate per la fine del 1991. Il Fis decapitato della sua direzione nazionale continua a funzionare e organizza una campagna capillare ed efficientissima.

Il primo turno delle elezioni si svolge il 26 dicembre 1991. La mattina del 27 è uno choc terribile per tutte le forze democratiche del Paese. La partecipazione è leggermente più bassa delle municipali. Dei 13 milioni di iscritti votano meno di 8 milioni (59%). Il FIS prende da solo 48% dei suffragi espressi. Ciò si traduce in 231 poltrone sulle 430 disponibile nel Parlamento algerino.

Rimangono 199 posti non attribuiti. Anche lì il Fis è in corsa nei ballottaggi del secondo turno nella maggior parte delle circoscrizioni non vinte al primo turno.

Era chiaro che a quel ritmo il partito avrebbe preso da solo, dopo il secondo turno, più del 50% del Parlamento, potendo nominare governi e cambiare la Costituzione e le leggi.

Il golpe

Il Paese è sotto choc. Le forze democratiche escono a manifestare per mostrare che, nonostante la vittoria elettorale, l’islamismo non rappresentava tutta l’Algeria. Le manifestazioni sono impressionanti ma non bastano. La tensione è alle stelle e nessuno sa veramente cosa fare. I leader islamisti cominciano ad avvertire il popolo: «preparatevi a cambiare modo di vivere».

L’11 gennaio 1992, il presidente della Repubblica, Chadli Bendjedid, si presenta davanti alle telecamere della Tv nazionale e annuncia le sue dimissioni. In realtà il suo ritiro non è stato volontario. I generali dell’esercito l’hanno spinto fuori e hanno occupato il potere. Era un golpe che non disse mai il suo nome.

L’esercito prese il potere, nominò un governo provvisorio ai suoi ordini e comincio ad arrestare i militanti islamisti a migliaia. Arrivò a creare veri campi di concentramento in mezzo al deserto, nel profondo Sud del Paese.

I primi attentati cominciano e i primi gruppi armati si formano nelle montagne boscose del Nord.

In pochi mesi il Paese entrò in una spirale di violenza e contro-violenza che si trasformò in un vero e proprio inferno.

Una guerra senza forma né nome

«La guerra civile» fu molto difficile da capire e quindi anche da descrivere. E’ stato uno dei conflitti meno documentati della storia moderna. I guerrieri islamisti avevano dichiarato i giornalisti nemici allo stesso livello dei soldati. Nessuno li incontra, nessuno li intervista. Non ci sono foto. niente filmati.

I pochi reporter che lavorano sulla guerra vanno a seguito dell’esercito regolare e sono spesso chiamati semplicemente per constatare l’entità di un massacro o per fotografare i combattenti catturati.

C’erano vari gruppi armati indipendenti, quelli che si chiamavano i GIA (Gruppi Islamisti Armati). Era una nebulosa instabile, nascevano e scomparivano. Cambiavano nome e regione in continuazione. Erano volatili e litigiosi. Facevano la guerra ai civili non alleati e allo Stato. alle sue forze di sicurezza, all’esercito e ai gruppi paramilitari e di auto-difesa. Ma si facevano guerra anche fra di loro. Solo uno fa ufficialmente riferimento al Fronte Islamico di Salvezza e ad alcuni dei suoi capi in esilio: è L’Esercito Islamico della Salvezza (Ais). Fra i gruppi ci sono tanti infiltrati dei servizi di sicurezza e alcune formazioni non sono altro che agenti e collaboratori dei servizi.

Una guerra senza colpi esclusi. Bombe, autobombe, agguati, rastrellamenti, bombardamenti, arresti, sequestri, torture, mutilazioni, massacri veri e propri.

La popolazione civile è presa in un sandwich tra due forze spietate. Molti parlano non di guerra civile ma di guerra ai civili.

Il bilancio è pesantissimo: fra 200 e 300 mila morti. Circa un milione di sfollati. centinaia di migliaia di persone lasciano il Paese. Il solo settore universitario algerino perde in pochi anni, quasi 2000 docenti e ricercatori. Una vera e propria emorragia.

Un finale senza «fine»

A un certo momento il conflitto esaurisce la sua energia. Per fortuna erano altri tempi. Se alcuni gruppi ricevono finanziamenti dall’estero, non arrivano armamenti pesanti o combattenti internazionali. Il conflitto rimase interno e non prese una dimensione internazionale come successerà altrove.

A un certo momento era chiaro che il rapporto di forza era disuguale. L’esercito era troppo potente. Ma nello stesso tempo il Paese era allo stremo. Un negoziato segreto cominciò a svolgersi nelle foreste dell’Est algerino, zona controllata dall’Ais, cioè il gruppo più importante.

Alla fine degli anni 90 il conflitto era praticamente esaurito ma strascichi tragici durarono fino alla prima metà degli anni 2000.

Arrivato nel 1999, il candidato Abdelaziz Bouteflika «vince» elezioni tagliate su misura. Fa passare una legge che istituisce una larga amnistia sia per i combattenti islamisti, che accettano di depositare le armi, sia per l’esercito algerino che si è macchiato di vari crimini di guerra.

Nessuna inchiesta, nessuna giustizia. Si torna tutti a casa e si fa finta di niente. Non è successo nulla. Nemici come prima.

(*) Ripreso – parola più, parola meno – da «Algeria tra autunni e primavere» che è il nuovo libro di Karim Metref pubblicato questa estate da Multimage. Un testo importante per capire la storia e l’attualità dell’Oriente a noi Vicino (che chiamiamo erroneamente Medio Oriente). Anche perchè in Algeria c’è una protesta pacifica che va avanti da un anno: vedi Algeria. La protesta, il regime e… (sempre di Karim Metref) uscito il 21 dicembre in “bottega”.

Il popolo algerino nel 2019 è sceso per le strade – a milioni – per chiedere la fine del regime e per un percorso di transizione verso un sistema più democratico. Mesi di lotta solitaria. Quasi nessuno ne ha parlato. I media internazionali ignorano in modo vergognoso questa situazione. Il regime algerino fa mangiare tutti in Occidente. Tutti fanno buoni affari (spesso sporchi) in Algeria e quindi nessuno vuole cambiare la situazione… tranne il popolo algerino.

Karim Metref ha iniziato a presentare il suo libro in giro per l’Italia e la “bottega” lo appoggia non solo per amicizia e stima ma perchè serve anche a noi conoscere tattiche e strategie, delusioni e speranze, spontaneità e organizzazione di una lotta popolarecontro. Scrive Karim: «Per l’incontro non ho condizioni particolari, non importa il tipo di luogo, il contesto o il numero di partecipanti. L’importante è parlare e far parlare. Non chiedo pagamenti tranne un rimborso delle spese di viaggio e l’ospitalità per i luoghi lontani da Torino».

SCHEDA DEL LIBRO

«Algeria tra autunni e primavere: capire quello che succede oggi con le storie di 10 eventi e 10 personaggi»
Multimage
140 pagine per 12 euro

PER CONTATTI:

Twitter: @Karimetref

Facebook: Karim Metref

Skype: kametref

MA COSA SONO LE «SCOR-DATE»? NOTA PER CHI CAPITASSE QUI SOLTANTO ADESSO.

Per «scor-data» qui in “bottega” si intende il rimando a una persona o a un evento che il pensiero dominante e l’ignoranza che l’accompagna deformano, rammentano “a rovescio” o cancellano; a volte i temi possono essere più leggeri ché ogni tanto sorridere non fa male, anzi. Ovviamente assai diversi gli stili e le scelte per raccontare; a volte post brevi e magari solo un titolo, una citazione, una foto, un disegno. Comunque un gran lavoro. E si può fare meglio, specie se il nostro “collettivo di lavoro” si allargherà. Vi sentite chiamate/i “in causa”? Proprio così, questo è un bando di arruolamento nel nostro disarmato esercituccio. Grazie in anticipo a chi collaborerà, commenterà, linkerà, correggerà i nostri errori sempre possibili, segnalerà qualcun/qualcosa … o anche solo ci leggerà.

La redazione – abbastanza ballerina – della bottega

 

Karim Metref
Sono nato sul fianco nord della catena del Giurgiura, nel nord dell’Algeria.

30 anni di vita spesi a cercare di affermare una identità culturale (quella della maggioranza minorizzata dei berberi in Nord Africa) mi ha portato a non capire più chi sono. E mi va benissimo.

A 30 anni ho mollato le mie montagne per sbarcare a Rapallo in Liguria. Passare dalla montagna al mare fu un grande spaesamento. Attraversare il mediterraneo da sud verso nord invece no.

Lavoro (quando ci riesco), passeggio tanto, leggo tanto, cerco di scrivere. Mi impiccio di tutto. Sopra tutto di ciò che non mi riguarda e/o che non capisco bene.

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