AMAZZONIA

AMAZZONIA
Di Mauro Antonio Miglieruolo

La soffiata venne da un mezzo parente che avevo fuori Cupola, un poveraccio d’archivista con l’ossigeno razionato e il domicilio in prossimità in uno dei suoi posti di lavoro (assurdo!) nel pieno degli scarichi industriali e dell’inquinamento acustico.

Videofonò alle 10, in un’ora poco opportuna per noi interni, che vivevamo sotto la luce artificiale e ci regolavamo sulla base di ritmi civili, da liberi professionisti, manager, dirigenti dello stato e simili. Avevo più volte tentato di farglielo capire, ma senza esito.
– L’ora canonica per le chiamate è sei ore prima, verso le quattro, – cercavo di insegnargli. – Solo a quell’ora puoi essere sicuro di non disturbare, se chiami entrocupola. Si tratta di una tradizione consolidata: a quell’ora tutti sono a disposizione degli amici. Non si è fuori a far compere, non si lavora, non si dorme, non ci si ubriaca: si prendono contatti.
– Che? – si indignava. – Le quattro? Sei matto? Alle quattro i cristiani dormono! Se vuoi parlare con me, parlerai durante il giorno, altroché! Oh! guarda che io ho un orario di lavoro, sai, devo rendere conto! Non lo sai che non mi sveglio mai prima delle sette?
Già, lui attaccava alle undici, tutte le mattine alla stessa ora, aveva un turno fisso nel grande complesso elettronico Sycon, duecento chilometri verso Nord e non c’era verso di convincerlo che esisteva dell’altro, con altre esigenze e altri orari, oltre i confini ristretti del suo circondario. Poveretto! una vita intera da schiavo consumata prima incatenando chips e poi mettendo in ordine le scartoffie del suo secondo datore di lavoro. Cosa si poteva pretendere da uno così? nella sua situazione?
Lasciai il letto e gli feci cenno di venire al dunque.
– Ascolta, – disse. – Ci sono i carabinieri in fabbrica. E un sacco di funzionari della protezione civile.
– Un grosso sciopero?
– Macché! Non è successo niente. Però i carabinieri ci sono…
– Credi sia il caso di affacciarsi?
– Io un tentativo lo farei…
Capii che, date le circostanze, essendo le comunicazioni videofoniche alla portata di tutti i malnati curiosi di questo mondo (tipo il sottoscritto), non mi avrebbe detto niente di più, se pure ne sapeva. Lo conoscevo però, tipo serio, se ancora ne sopravvivevano, per cui se aveva rischiato la videofonata, così timoroso com’era, doveva trattarsi di qualcosa di veramente grosso e urgente.
Non indugiai oltre. Mi recai al giornale e, tramite qualche bugiola, mi feci assegnare la Vagon Turbo a disposizione degli Esteri.
Il Capo mi fu addosso prima ancora che avessi tempo di girare la chiave d’accensione.
– Dove diavolo vai, Farina? – chiese tra il sarcastico e l’irritato. Sarcasmo per la mia illusione di poterlo infinocchiare; irritazione per trovarmi immancabilmente sempre in prima fila ogni volta che c’erano rogne da affrontare.
– Ottantesimo distretto, – risposi con la faccia più ignara ed ingenua che mi riuscì.
– E che ci vai a fare?
– Ho ricevuto un’imbeccata. E tutto mi fa pensare che sia buona.
– Vuoi dire che non lo sai se è buona o meno?
Il tono era diventato improvvisamente minaccioso.
– Ci provo, Capo. È solo un tentativo il mio.
– Ci proverai, ma non con l’auto della Redazione! No di certo!
– Ah! Capo, non essere cattivo! Si respira veleno puro Laffuori!
– Me ne frego! Non ti permetterò di monopolizzare le attrezzature logistiche con i tuoi ghiribizzi. Intendo che la Vagon Turbo resti a disposizione per gli interventi certi e urgenti. Scendi da quell’auto!
Ruppi gli indugi. Misi in moto. Lui sbraitò e minacciò, mi licenziò in tronco (quasi). Non diedi retta. Neppure lo potevo udire, chiuso all’interno della Vagon Turbo, lo stesso che in un sottomarino. Né, data l’alibi implicito, aveva soverchia importanza dargli retta. Era uno stramaledetto vecchio scoopista il capo, un pirata del caso clamoroso, ne aveva combinate di cotte e di crude prima di sedersi dietro una scrivania e ostacolare il lavoro altrui; al dunque, non appena gli passavano i bollenti spiriti, si rendeva conto, e lasciava perdere. Purché, ogni tanto, gli si portasse qualcosa di veramente buono, che valesse la pena, e gli desse la possibilità di farsi bello con i componenti del Consiglio di Amministrazione. Allora, oltre a perdonare qualsiasi alzata di testa, riusciva a mostrarsi anche cortese e comprensivo, indulgente persino. Almeno indulgente con me, che oltre a essere, presumo, un buon segugio, non eccedevo mai con le pretese. E certo non poteva esserci nulla di più ragionevole che rifiutare di uscire dalla cupola senza una buona auto presurizzata e una buona scorta d’ossigeno dentro! Così si sarebbe rassegnato presto credo (dipendeva dall’umore del momento) quando mi fossi presentato forte delle mie ragioni e di un fatterello adatto ad imbrattare un notiziario.
Quelli della dogana mi diedero la baia, mentre facevo rifornimento.
– Vai a prendere una boccata di anidride solforosa, eh? – fecero sfottenti.
– Affanculo, – risposi. – Lasciatemi in pace.
Non se la presero. Anche loro avrebbero risposto così, se avessero dovuto uscire a respirare il veleno fuori cupola e dovuto sopportare, per di più, i lazzi di coloro che restavano dentro, tranquilli e al fresco, bene avvoltolati nell’ossigeno e nell’umidità standard.
– Buon divertimento! – mi augurarono, sempre sfottenti, subito dopo aver verificato la blindatura del veicolo e registrato i miei codici di identificazione.
I codici servivano per la verifica dell’avvenuto rientro. Se non fossi ritornato entro le quarantotto ore mi avrebbero dato per disperso; e dopo ulteriori centonovantadue sarebbe stata decretata la morte presunta. La Cupola non ammetteva che i suoi pulcini la lasciassero molto a lungo. Troppa era la gente che ambiva stabilirvisi per permettere che una qualche nicchia vi restasse vuota troppo tempo. Le pessime condizioni di vita fuoricupola inoltre erano tali da escludere che un qualsiasi fragile cittadino, abituato alle facilitazioni dell’entrocupola, riuscisse a sopravvivere più di qualche giorno alle tremende sollecitazioni ambientali aliene che presentava il buon vecchio pianeta Terra.
I doganieri aprirono le porte della camera di depurazione e le richiusero alle mie spalle. Poi una larga sezione della parete corazzata ferrovetrocemento spessa 60 cm che proteggeva la cupola scivolò sui cardini e fui sparato fuori.
Una pioggia di corpi contundenti si abbatté sul veicolo. Pietre, tondini d’acciaio, bilie, blocchetti di cemento e simili. Fu una vera grandinata, fitta ed improvvisa. Diedi un colpo di acceleratore ed imprecai. La polizia riusciva a tenere sgombra la strada, o meglio, riusciva a impedire si intasasse di detriti; non riusciva però a ripulirla dalle bande di giovani guastatori che pullulavano in tutte le periferie. Si riunivano in bande e si appostavano all’uscita delle cupole. Divertendosi a lanciare ogni genere di oggetto contro i veicoli in uscita, riuscendo a volte a danneggiarli seriamente. A Milano, l’anno prima, una Banda, il diavolo l’abbia in gloria, s’era costruita una catapulta e aveva semidistrutto una ventina di veicoli, prima che riuscissero a fermarli. Tre conducenti morti, nove invalidi al cento per cento, costretti a vivere in camere iperbariche. Da Napoli era appena giunta la notizia di alcune uscite minate, con pericolo per la stessa sopravvivenza dell’intera popolazione. A Bari invece si stavano effettuando ricerche intorno a sabotatori che usavano degli scivoli mobili capaci di provocare il ribaltamento dei veicoli che vi capitavano sopra. Era una specie di guerra: la guerra che gli esclusi conducevano contro coloro che avevano avuto il privilegio di poter vivere sotto una cupola, con un po’ d’aria pura e in ambienti sufficientemente puliti e vasti; e che sottraevano agli altri, quelli meno fortunati, con la loro semplice esistenza, la possibilità di poter ottenere condizioni d’esistenza migliori.
La gragnuola continuò per un centinaio di metri circa, in pratica fino al raccordo con la Circondariale Nord, là dove la disposizione delle rampe d’accesso rendeva impossibile nascondersi, ed io potei tirare un bel sospiro di sollievo. Da quel che capivo la Vagon non aveva subito danneggiamenti di rilievo. Sarebbe stata dura affrontare le ire del Capo, altrimenti, tornando con l’auto lesionata e, magari, nessun servizio adeguato.
Impiegai sei ore per arrivare a destinazione. Traffico, banchi di smog e posti di blocco quasi ad ogni passo (l’unica misura efficace per tenere lontano dalle strade principali, solo da quelle purtroppo, le bande di giovinastri). Una volta erano le lunghe code a sgretolare la media del veicolo; nel presente le necessarie misure di sicurezza che garantivano la continuità della convivenza civile.
Dopo sei ore il paesaggio architettonico cominciò a mutare e capii di essere in prossimità della meta. Al posto del nero fuligginoso e butterato dei sobborghi il grigio metallizzato delle produzioni Sycon. Il grigio si rafforzò, s’espanse, divenne il tono dominante ovunque. Mura, marciapiedi, bordi delle carreggiate, tutto un mare informe ed inquietante che rendeva l’ambiente simile a una gigantesca officina. La gente portava quel grigio persino sui capelli, sulla faccia e sulle maschere antigas, (per non parlare degli abiti) ma non sembrava preoccuparsene. La Sycon, tramite studi di fior di specialisti, aveva dimostrato che i suoi prodotti erano relativamente innocui; e aveva inoltre, cosa più importante, acquistato interi edifici negli isolati circostanti. Dopo decenni di lotte inani la popolazione, minacciata anche di sfratto, aveva fatto di necessità virtù e si era ormai rassegnata alla presenza della fabbrica. Non c’era altro da fare. Respirare e morire lentamente o essere manganellati e morire subito, gettati con le suppellettili su un marciapiedi.
Intorno alle cinque, dunque, giunsi davanti alle alte mura della fabbrica e al gigantesco spiazzo riservato ai mezzi delle maestranze e dei visitatori. Parcheggiai, indossai la maschera antigas e raggiunsi la portineria.
Mostrai le credenziali agli addetti.
– Già qui? – si meravigliò il portiere. – Camminano presto le cattive notizie!
– Ci arrangiamo, – risposi sobrio. – È il nostro mestiere quello di capitare nei posti dove succede qualcosa.
Lui digitò sulla tastiera del computer e sul video apparve il mezzobusto di un ufficiale dell’Arma. Invece di un qualsiasi funzionarietto il cipiglio severo di un Carabiniere!
– Niente visitatori! – ordinò asciutto e deciso. Mascherai la meraviglia per la sua apparizione e mostrai invece di prendermela per il diniego. Finsi perché tra la lui e il portiere avevo già avuto l’essenziale per imbastire l’articolo, e non volevo sospettassero. Già, ché la semplice presenza di un ufficiale dell’arma a fare da filtro su chi doveva o non doveva entrare in fabbrica costituiva una buona notizia e fungeva da indizio sull’esistenza di notizie ancora più importanti!
– Senta, Capitano, – dissi in tono conciliante – ormai i fatti sono di dominio pubblico…
Non si lasciò sviare.
– Niente visite, mi spiace, questi sono gli ordini!
– Ma mi son fatto sei ore di macchina! sei ore per arrivare fin qui e adesso…
– Non posso farla entrare, né lei, né nessun altro!
Tentai col gioco duro, con la provocazione, per vedere quello che succedeva e quel che gli poteva uscire di bocca sotto lo stimolo dell’irritazione.
– Guardi, sono qui per fare un servizio e lo farò. Perciò o mi permette di prendere personalmente atto di quel che sta succedendo, oppure lo saprò interrogando gli operai al cambio del turno. Io non lo voglio, ma vivaddio, se sarò costretto a stampare semplici dicerie, ebbene lo farò!
L’ufficiale diventò paonazzo.
– Se ne vada! – Sbraitò. – Prima che perda la pazienza e l’arresti!
Decisi di ritirarmi. Avevo saputo abbastanza. Non c’era bisogno di rischiare oltre. Me ne andai felice come una Pasqua. Al primo posto videofonico pubblico chiamai la redazione. Trasmisi un pezzo intitolato EMERGENZA NELL’OTTANTESIMO DISTRETTO – occupata militarmente la Sycon.
Il Capo si interpose quasi subito.
– Farina, sei sicuro? – chiese in tono vagamente minaccioso.
– Sicurissimo, – risposi. – Alla fabbrica è un Capitano dell’Arma a decidere chi entra e chi esce. Se vuoi sentire la registrazione del brillante colloquio che ho appena avuto con lui, non hai che da chiederlo!
– Assì? Allora non pubblicheremo proprio niente! Niente assaggi, niente piccolo cabotaggio. Voglio tutta la storia, capisci? TUTTA! Inutile attirare l’attenzione della concorrenza, non trovi?
Trovavo, sì. Ero d’accordo. Napoleonico il Capo. Tipo dalle decisioni rapide e drastiche.
– Ti dovrai dare da fare alla svelta, – aggiunse. – Perché se la cosa è grossa quanto fai capire, prima di domani li avrai tutti alle calcagna.
– Mi sbrigherò, ma ho bisogno di un Olografo e un Teste Giurato. Noleggia un elicottero per farli arrivare. Mi servono prima di sera.
– Li avrai. Bada però di non metterti nei guai…
Intendeva dire, bada di non metterci nei guai, ma gli sembrava brutto dirlo nella forma corretta. È proprio un tipo delicato il nostro Capo. Delicato e disponibile.
– Farò del mio meglio. Ti saluto.
Subito dopo operai la ricognizione della zona. L’area occupata dalla fabbrica era enorme, decine e decine di ettari, forse centinaia, residuo di un immenso complesso smantellato trenta anni prima, agli inizi della Crisi Informatica. Di quello che era stato l’agglomerato produttivo più grande d’Europa non restavano altro che alcune palazzine e un capannone.
Percorsi il perimetro delle mura finché arrivai a una entrata secondaria. Il guardiano lì si annoiava mortalmente e mi fu facile attaccare bottone. Iniziammo a chiacchierare del più e del meno. La conversazione scivolò inavvertitamente sulla fabbrica e sulle grandi cose che erano in ballo. Seppi che i proprietari avevano presentato al Circondario un progetto di riconversione dell’area, un progetto che prevedeva l’edificazione di un palazzetto dello sport a circuito chiuso, un grattacielo per uffici, alcuni centri ricreativi virtuali e un paio di dozzine di Condomini di 3700 miniappartamenti l’uno.
Al guardiano luccicavano gli occhi di orgoglio mentre mi forniva questi dati. Neanche fossero stati tutti progetti suoi, e suoi i quattrini che avrebbero fruttato. Avrei lasciato volentieri che luccicassero anche i miei, nel sentirgli snocciolare quelle delizie, ma allora lui si sarebbe insospettito avrebbe smesso di parlare, e io di sapere.
Pareva vi fosse già un accordo di massima col Circondario. Se le autorizzazioni fossero state concesse e concesse presto, la Sycon avrebbe messo a disposizione del Circondario, per gli sfrattati, il 20% dei miniappartamenti. Un accordo vantaggioso per entrambe le parti e nell’interesse della collettività, come recitò il guardiano, sicuramente con parole non sue.
Quando però accennai alla situazione dentro la fabbrica la sua loquacità mutò bruscamente in ostilità. Mi invitò immediatamente ad andarmene. Tentai di farlo desistere con la commedia dello stupore e della dignità offesa, ma non ci fu niente da fare. Mi buttò fuori dal gabbiotto e me lo chiuse in faccia.
Non me la presi. Mi aveva detto abbastanza per permettermi di condire il futuro articolo con accuse di speculazioni e larvate ipotesi intorno a giri di bustarelle. Avevo una nuova pista inoltre e la percorsi subito.
Il tempo che mancava alla fine del turno del mio informatore lo trascorsi all’Ufficio Mappe. Scartabellai tra le scartoffie una mezzora buona senza ricavarci nulla. E poiché non sono un tecnico il particolare decisivo mi sarebbe sicuramente sfuggito, se qualcuno prima di me, forse il responsabile, o i responsabili, dei guai della Sycon, non avesse esaminato le stesse carte e evidenziate quelle importanti con alcuni cerchietti rossi. Gli spazi cruciali addirittura sottolineati (sempre in rosso). Interpellai in merito l’addetto all’archivio.
– Cosa vogliono significare questi segni? – chiesi.
– Ah! – disse. – Indicano la presenza di terreno incolto. Una volta invece si usava il contrario. Si tratteggiavano le aree edificate o edificabili.
– Così, – mormorai pensoso. – Aree non edificabili.
– Ne abbiamo parecchie nel Circondario. Quasi il 3% della superficie complessiva non è ancora cementificata. Si tratta in genere di piccoli giardini condominiali, posti dentro isolati costruiti prima della legge sull’Uso Razionale dei Suoli, ma ve ne sono anche di grandi e importanti, come questo che è veramente notevole.
– Ma qui ci saranno perlomeno 30/40 ettari di terreno disponibile! Come può essere?
– No guardi, si sbaglia. Il terreno disponibile supera i centocinquanta ettari, di cui un centinaio solo in terra battuta.
– Di cui? – chiesi con enfasi. – Non aveva detto che si trattava di area non edificabile?
– Veramente questo l’ha detto lei, non io. Comunque in effetti i regolamenti del Circondario non ne prevedono l’edificabilità a causa del vecchissimo vincolo per la salvaguardia delle Falde Acquifere. Tuttavia non è impossibile avere una dispensa…
– E la Sycon l’ha avuta?
– Questo non lo so per certo. L’istanza sembra che comunque l’abbia inoltrata.
Cominciavo a capire. Speculazione e bustarelle sì, ma anche qualcosa di più grosso e interessante. Non stetti a rigirarmi i pollici. Andai all’Ufficio Licenze e mi procurai copia dell’istanza della Sycon. Non si sapeva mai, la storia poteva finire in tribunale.
Subito dopo feci il giro videofonico delle locali associazioni ecologiste. Tutti abbottonatissimi e indignati per le mie domande volgarmente insinuanti. Tutte rigorosamente omologhe nell’esibire ignoranza totale sugli avvenimenti alla Sycon e sulla possibilità che qualcuno dei loro membri avesse qualcosa a che vedere con essi. Vi fu persino chi si concesse il pistolotto patriottico sulla sua piena totale adesione a qualsiasi progetto tendente a aumentare le unità abitative a disposizione della comunità, che ne aveva tanto bisogno.
Alle sette, quando il mio informatore e parente lasciò la Sycon io ero lì ad attenderlo.
Gli fui subito addosso.
– Dai, sbottonati, – l’esortai appena fu dentro la Vagon. – Dimmi tutto.
– Siamo sicuri qui dentro?
– Ti pare? È un’auto della ditta, attrezzatissima, avrà decine di difese elettroniche incorporate. Puoi andare tranquillo.
Lui annuì.
– E i lettori delle labbra?
– I vetri sono oscurati. Non sono un principiante, cosa credi? Ma su, dai, inizia a raccontare, sbrigati.
– Ahaaa! Quanta fretta! Hai aspettato tanto, potrai aspettare altri cinque minuti, no?
– Senti, ogni secondo ha il suo valore. Fra poco qui pullulerà di giornalisti, oltre che segugi e allora addio esclusiva.
– Va bene, va bene, ma non so molto, ti avverto.
– Dammi quello che hai: sarà sempre più di quello che ho io.
– C’è stata un attentato ieri, a metà del mio turno. Tre forti esplosioni, una dietro l’altra. Gli edifici hanno tremato e si sono rotti tutti i vetri. Non ti dico lo spavento. Ci siamo riversati tutti fuori e dopo un quarto d’ora circa dalla Direzione è venuto l’ordine di tornare a casa! Siamo rimasti tutti quanti di sasso! Mai successo niente del genere in precedenza! Qui stanno attenti anche al minuto e invece, di colpo, mezza giornata di libertà. Una pacchia! Non ti dico la contentezza! Poi ecco che vengo a sapere che erano state fatte saltare le attrezzature del cantiere e che la fabbrica era presidiata!
– Hai detto cantiere?
– Sì: avevamo iniziato a ricoprire un’area in precedenza abbandonata alle inclemenze della natura…
– Si sa come abbiano fatto gli attentatori ad entrare?
– Probabilmente hanno scavalcato il muro di cinta.
– Non dire fregnacce. Il muro è alto circa cinque metri ed è protetto da innumerevoli dispositivi di allarme. Come potrebbero gli attentatori entrare senza dare nell’occhio? Secondo me il lavoro è stato fatto da gente dentro la fabbrica. Dimmi, hai sentito voci su un possibile basista?
– No, – disse seccamente. Il discorso aveva preso una piega poco gradita per lui. Non insistetti.
– Che è successo dopo le esplosioni?
– Te l’ho detto: hanno mandato tutti a casa. Praticamente hanno sospeso ogni attività fino a quando non hanno messo a posto alcune cose che stavano loro a cuore.
– Humh! qui gatta ci cova! Si sono mossi troppo svelti e con troppa oculatezza per non esserci sotto qualcosa di grosso e poco piacevole. Hai mai sentito di minacce, intimidazioni ricevuta dall’azienda?
Scrollò le spalle. Fiumi, ne ricevevano…
– Nessuno ci ha mai dato peso.
– E hanno fatto male, come vedi. Ascolta. Avrei bisogno di dare un’occhiata dentro.
– Non contare su di me. Ci tengo al posto di lavoro, io. Se perdo questo con il solo stipendio d’archivista arrivo appena alla metà del mese!
– Voglio solo un punto d’osservazione elevato, diciamo un trenta piani in alto. Non c’è nessuno dei tuoi colleghi che abiti in uno dei palazzi qui intorno?
– Vuoi proprio mettermi nei guai, eh?
– Guai? Perché è proibito, nell’ottantesimo distretto, far visita ai propri amici? e dare con loro un’occhiata al panorama?
– Sai quello che voglio dire, lo sai. Se solo sospetteranno che posso averti aiutato, proibito o non proibito, mi faranno a fettine.
Era quasi mio parente. Ne ebbi pietà. Lasciai perdere.
– Va bene, non ti preoccupare, mi arrangerò da solo. Ma tu promettimi che terrai occhi e orecchie aperte.
– Promesso.
– E che mi avvertirai non appena saprai qualcosa?
– Sissignore, lo farò.
Gli rivolsi un largo sorriso di compiacenza. Dopotutto era stato lui a darmi l’imbeccata. E si stava dimostrando proprio una buona imbeccata!
Lo lasciai a due passi dal suo isolato. Prima però gli porsi una manciata di pillole-respiro.
Si schernì.
– Mannò, cosa fai!
– Sono per i ragazzi. Si agitano un sacco, giocano, corrono, vogliono cambiare il mondo e ciò li consuma, per cui, vedi, ne hanno bisogno. E poi paga il giornale, cosa credi?
Arrossì.
Prese le pillole e se ne andò a testa bassa.
Poveraccio, pensai. Ridursi nelle condizioni di non poter dare prova neppure di amor proprio! di disinteresse ed amicizia! Ecco come si riduceva un padre di famiglia, privo della fortuna necessaria per sollevarsi dal livello medio di indigenza, in questo nostro mondo meraviglioso di opulenza e operosità!
Bene: meglio a lui che a me!
Girellai con l’auto una decina di minuti finché trovai l’edificio che faceva al caso mio. Mi presentai al portiere con una bombola d’ossigeno sotto il braccio. Fui fortunato. Era il tipo adatto. Prese la bombola, le chiavi e mi portò su, oltre il cinquantesimo piano, sul terrazzo. Per una bombola d’ossigeno credo mi avrebbe portato volentieri anche in Paradiso. O anche all’Inferno, se si fosse reso necessario.
La prospettiva si rivelò essere quella buona. Le parti interessate dai recenti avvenimenti si potevano ammirare tutte. Il Cantiere distrutto, gli ettari cementificati di fresco, l’andirivieni dei tecnici tra le macerie, le buche delle esplosioni ecc. Operai ottime registrazioni. Il Capo sarebbe stato contento. Con quel che avevamo in mano potevamo tenere in pugno i lettori per una settimana, almeno. E in iscacco nei Tribunali la Sycon per sempre.
Ciò che però, com’era naturale, attirò maggiormente il mio interesse fu una piccola area di 7/8 metri quadrati, decentrata rispetto al luogo dell’esplosione e occultata tramite una recinzione di fortuna. Notai terra smossa nei dintorni e tracce del passaggio di innumerevoli persone. Ora però non c’era nessuno. Per decine di metri il vuoto. Oltre ancora alcune guardie armate, le spalle rivolte ai pannelli metallici. Facevano la guardia a quel vuoto irragionevole.
Cosa poteva esserci, lì dentro, di tanto importante da doverlo tenere nascosto? nascosto possibilmente anche ai suoi guardiani? Un segreto industriale? Un cadavere? E perché occultarlo, poi?
La faccenda si faceva sempre più interessante e misteriosa.
Interpellai il portiere.
– Cosa credi possa esserci? – chiesi indicando lo spazio recintato.
– Non vedo, – borbottò lui. – Non ho gli occhiali.
Era disposto a portarmi dove volessi, ma non a farsi coinvolgere, a lasciarsdi strappare una parola in più del necessario.
– Verrà un mio amico a dare un’occhiata, – gli dissi. – Fallo salire, anche se non ci sono io.
Annuì. Per una bombola di ossigeno avrebbe fatto salire lassù non solo uno, ma un’intera legione di amici, anche se si fosse trattato di una legione di diavoli. In certe giornate afose d’estate, o nel corso di una qualche malattia, avere a disposizione un po’ d’ossigeno (la mia bombola) poteva costituire lo spartiacque tra la vita e la morte, tra la speranza e la disperazione. Lui, senza grandi patemi, optava naturalmente per la vita e la speranza. Nulla da eccepire, da parte mia. Al suo posto avrei sentito e agito nel medesimo modo. Tanto più che non stava facendo nulla di illegale o veramente immorale (salvo che danneggiare i suoi capetti della Sycon, i proprietari dell’immobile; ma loro, i capetti, non avrebbero esitato un secondo a danneggiarlo, se fosse stato nel loro interesse). Si stava solo arrangiando, come si arrangiavano tutti. Come quelli stessi della Sycon sperava e suggeriva facessero, nella speranza che non si rivolgessero a loro, onde risolvere i piccoli problemi familiari.
Scesi per videofonare al Capo.
– Hai provveduto per l’Olografo? – chiesi.
– Dovrebbero essere lì da un momento all’altro.
– Attrezzatura standard?
Ghignò.
– Mi hai preso per deficiente? Attrezzatura speciale, specialissima
– Allora credo proprio che, a breve, riceverai qualcosa di forte, accompagnata da una documentazione di prim’ordine. Sempre che prima non ci arrestino.
– Ci arresteranno dopo, credimi. Ah! Ah! Ah! O almeno ci proveranno.
– Non scherzare, Capo. Sono io quello che sta in prima linea. Prendi invece nota del luogo in cui voglio l’Olografo. Contattalo e provvedi a che sia qui al più presto. Se viene anche a loro l’idea che ho avuto io, siamo buggerati.
Fornii l’indirizzo e tornai alla mia postazione. Trovai il portiere in pieno orgasmo.
– Stanno facendo il giro degli edifici, – mi informò, – e diffidano tutti i Custodi dal permetterne l’accesso a qualunque estraneo, fosse pure un parente.
Gli rivolsi un ampio, solenne sorriso rassicurante.
– È un abuso, il loro, non ti preoccupare. Comunque non c’è bisogno di dirglielo: lo sanno. Ma se ne infischiano. Infischiatene pure tu. Chiama l’amministratore e chiedigli un permesso di un’ora. Di’, accertamenti sanitari. Così quando loro arrivano tu non ci sarai e nessuno ti potrà accusare di qualcosa. Fra un’ora, credimi, sarà tutto finito.
Non esitò, perché era sveglio e bene intenzionato. Mentre videofonava all’amministratore giunsero l’olografo e il teste giurato.
L’Olografo era un tipo vivace e gioviale, mi salutò con un sonoro “chi dobbiamo inguaiare?”; il teste il solito spiritato, rimbambito a furia di inibitori pavloviani, ma con un residuo di intelligenza nello sguardo che fece bene al cuore. Salimmo all’ultimo piano, mentre il portiere se la svignava al gran galoppo. Giunti sulla terrazza indicai loro l’area circondata dal bandone.
Il tecnico si eccitò. Aveva capito tutto al volo.
– So cosa può esserci lì in mezzo, – annunciò preparando febbrilmente i suoi strumenti.
Anche io lo sapevo. O meglio lo sospettavo. E ne volevo la prova. Lì sotto c’era quello che poteva compromettere tutti i piani speculativi della Sycon. Qualcosa che, una volta registratane la presenza sul prato, avrebbe richiesto oceani di inghippi burocratici per rendere possibile il riempimento degli spazi vuoti con i Km cubici di cemento programmati.
Il tecnico, sotto gli occhi freddi del teste, sistemò sul pavimento il cubo di immissione dell’immagine e sul parapetto le attrezzature di ripresa.
– Puoi farcela anche se c’è qualche difesa elettronica? – chiesi, un po’ ansioso.
Mi fece cenno di tacere. Domanda sciocca, serviva solo a distrarlo. Poteva superare quasi tutto con quell’attrezzatura. Mi rivolse un imperioso cenno di silenzio. Bisognava sbrigarsi. Se qualcuno si accorgeva di quel che stavamo facendo e dava l’allarme, sarebbero stati capaci di prenderci a cannonate per impedircelo.
Impiegò cinque minuti buoni. Cinque minuti e l’immagine tridimensionale iniziò a formarsi dentro al cubo. Prima fu un qualcosa di indistinto, di confuso e parziale. Poi di colpo si condensò, divenne viva e completa, per lasciarci immantinente senza fiato.
Anche il teste, che certo doveva aver visto di tutto nella sua vita, ed era emozionalmente depotenziato, sgranò gli occhi.
Quel che vedevamo era bello e raro a un tempo. Ma anche sorprendente, inquietante. Poiché ci appariva alieno, totalmente estraneo alla nostra esperienza diretta. Perché era vero, autentico, in un mondo artificioso e calcolato(re). Perché poteva essere ammirato nei suoi colori propri, brillanti, di un bel verde autentico. Un verde non, una tantum, avvolto occultato sfregiato dalla patina grigioscuro che nascondeva la scarna vegetazione, i pochi fili d’erba che sopravvivevano qua e là.
Restammo in religioso silenzio una decina di secondi, concentrati nell’ammirare e nel stupire.
– Hai identificato? – chiesi infine al teste.
Il teste, ammutolito, fece di sì con il capo.
– Voglio che registri ogni particolare. Il suo colore pulito sopratutto, questo bel verde sincero. La gente farà follie per sentirtelo raccontare. Follie per visionarne lo spezzone. Che ne dici, non farà follie? Per essere così verde deve avere appena lasciato la serra! Gli attentatori che lo hanno inserito sapevano il fatto loro!
Il teste annuì.
– Puoi spegnere, – informai il tecnico. – Metti in salvo il materiale e squagliamocela. Possono avere captato i flussi energetici della macchina ed esserci addosso in pochi minuti.
Il tecnico non si fece pregare. Spense il suo apparecchio. Vi fu uno sbuffo, un rapido balenare di frammenti luminosi in decomposizione e l’immagine solenne dell’albero disparve dal cubo, si dissolse. Morì. Così, di colpo, rapido, come era probabile sarebbe successo, se non provvedevamo a documentare sui media, all’originale lì in basso. Sparire sotto i colpi di scure e di vanga di quelli della Sycon. Crudele, perseverante persecuzione contro i nostri ancestrali fratelli, nostra residua piccola Amazzonia
Un albero. Un gentile, delicato, silenzioso amico.
Forse l’ultimo esistente sulla faccia della terra.

Miglieruolo
Mauro Antonio Miglieruolo (o anche Migliaruolo), nato a Grotteria (Reggio Calabria) il 10 aprile 1942 (in verità il 6), in un paese morente del tutto simile a un reperto abitativo extraterrestre abbandonato dai suoi abitanti. Scrivo fantascienza anche per ritornarvi. Nostalgia di un mondo che non è più? Forse. Forse tutta la fantascienza nasce dalla sofferenza per tale nostalgia. A meno che non si tratti di timore. Timore di perdere aderenza con un mondo che sembra svanire e che a breve potrebbe non essere più.

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