Amiri Baraka: Griot/Djali…

poesia, musica, storia, messaggio (*)

Da «Amiri Baraka, ritratto dell’artista in nero»[Bacchilega editore, 304 pagine, 20 euri, a cura di Franco Minganti e Giorgio Rimondi] pubblichiamo «Griot/Djali. Poesia, musica, storia, messaggio», con brevi tagli redazionali e senza le note. La traduzione è di Alice Casarini. Il testo è inserito nella raccolta «Diggin’» [uscito da Agincourt Press, New York].

La figura del griot sta acquisendo un’importanza sempre maggiore negli Stati Uniti, essenzialmente perché la sua percezione si fa sempre più forte e più vibrante, ora che non solo il mondo afroamericano è indissolubilmente legato all’Africa, ma che lo sono anche gli Usa, la Pan-America [l’emisfero occidentale, il vero «mondo occidentale»] e, attraverso la sua diaspora pan-africana [pre- & post- e, sempre e comunque, moderna], anche la cultura internazionale.

Così laparola griot il poeta, il musicista, lo storico, il cantastorie si sta facendo conoscere in tutto il mondo. Anche se, in quanto simbolo trasmesso, appare francese, è il termine più appropriato per tradurre il djali delle lingue dell’Africa occidentale [], l’imbongi dell’Africa centrale e meridionale, lo mshairi o ngombe [rapper] dell’Africa orientale, lo yoruba ijala, tutti termini che hanno lo stesso significato generale, anche se ciascuno differisce lievemente dagli altri per via del particolare dettaglio storico della specifica cultura che l’ha prodotto. L’Africa è un continente, dimoradi numerose culture, da ovest al centro fino a est, così come da sud al centro e verso nord. Dire che qualcosa è africano è come dire che qualcosa è europeo … a che luogo ti riferisci? … ecco la vera domanda.

Griot, con la sua vibrazione francese, deriva dal “dono” coloniale che il Nord del mondo ha imposto alla sua fetta di torta dell’Africa occidentale, ma porta con sé l’insistenza di «cry», il grido. Come in «cry out» [gridare-piangere] magari? Per via delle lacrime, o del significato di una rimostranza essenzialmente laica implicito nel «town crier», il banditore, così com’era inteso nel nord Europa. A questo bisogna aggiungere l’inferenza, in questa parola, di «gris», grigio, che lascia intendere che il grigio venga lavato via dal pianto oppure che dal grigio salti fuori una qualche presenza. Ovvero il fatto che «gris-gris» sia un feticcio, ovvero «veicolo di», «celebrazione di» o «omaggio a» qualsiasi potere che ci abbia trattato bene, che abbia tenuto il grigio lontano [si potrebbe intendere «i grigi», così come si usava dire «i bianchi» per indicare le persone di razza bianca? Se Lucy l’africana è l’essere umano numero 1, che ci azzecca il «bianco», a meno che non si provenga da fuori dalle Fasce di Van Allen?].

Ciò che è importante qui è che se si guarda alle maschere del teatro si intravedono la geografia e l’estetica filosofica del mondo. Il sorriso al fondo del mondo, unito a un’espressione accigliata alla sua sommità. Significa che il punto più alto di rivelazione degli uomini del sud, degli africani, era la gioia sfrenata che ancora troviamo nelle chiese nere degli Stati Uniti oppure, ora che il grado di integrazione è maggiore, nei concerti rock che si tengono dovunque. Quelle donne anziane che gridano in chiesa la domenica e «raggiungono la felicità», il Vangelo [Gospel, God Spell, Miracolo di Dio]. Che si alzano e vengono qua per ricevere la rivelazione dell’anima! Un altro nome per djali è gleeman, l’uomo che riluce di gioia! Capito? E’ forse per questo motivo che ci chiamano shine[da risplendere], perché brilliamo di gioia? [Un filosofo greco ci odiava, diceva, perché sorridiamo sempre. Davvero? Be’, ora non più!] Allora potrebbe essere «cry»come negli shouts e negli hollers del sud, perché in effetti in quelle chiese si gridava molto.

Al nord, ci hanno insegnato a scuola, la tragedia è la massima rivelazione dell’umanità, è per questo che sono sempre accigliati. Nell’Enciclopedia Britannica si dice che ancora adesso non si riesce a capire per quale motivo si rida! e vi si descrive la risata come una concatenazione di reazioni fisiche! [Sì, certo!] E quindi il tipo che ha freddato il suo vecchio, dormito con sua madre e si è strappato gli occhi per poter riparare a Colono per non doverne gioire, risulta un paradigma della rivelazione nordista, come ha detto Nietzsche, secondo cui l’Emozione interferisce col pensiero.

Djali è più preciso, anche se griot è il suo quantum traducibile. Allo stesso modo in cui rock & roll implica rhythm & blues. Ma griot è sufficientemente specifico, finché non si scava al di sotto della parola, e si capisce che il djali doveva elevarci, con la poesia, la musica, la storia, il messaggio, sollevarci e spingerci fuori, senza tuttavia trascinarci. [Ecco perché si dice tuttora di una cosa stupida che è una stronzata – «a drag» – come per esempio «il Ku Klux Klan è una stronzata». Ecco perché chiamiamo «squares» – normali, convenzionali, quadrati [secondo gli egizi il quadrato era l’aspetto del fallimento, mentre la piramide era la prospettiva del successo – quelli che sono stupidi, come il primo Eddie il Pazzo, Eddie Pus (Ndt: il riferimento è a Crazy Eddie, figura ben nota dell’universo popolare della pubblicità tra gli anni ‘70 e ’80)].

Il djali non è un «town crier» è un «town laugher», uno che, in città, ama ridere e non piangere. Non urlavamo quando Trane soffiava nel suo sassofono perché eravamo tristi, ci sentivamo a terra, urlavamo perché Trane era arrivato a toccare il fondo, ne uscì fuori e risalì portandoci con sé! Via, più veloci della luce, oltrepassando quelli «normali». Se l’era cavata, «he had got ON»[come la città africana chiamata On perché fu costruita esattamente sotto il sole per poter adorare il più grande Sol mai esistito]. Il significato originario di «commedia» è «insieme, oppure radunarsi con gioia», non «slap stick»[oh oh!](Ndt:lo slapstick è la tipica commedia farsesca basata sul linguaggio del corpo).

 

[] Il fraintendimento di molti di noi, anche quelli che si fanno chiamare “afrocentrici”, è che non capiamo che l’Africa colora ogni cosa che esiste! Nell’emisfero occidentale siamo una combinazione di africani, europei, nativi [asiatici]. Questo sono la cultura e la gente; ciò che non è così non è qui, se non su carta, o come carta. La recitazione della poesia con accompagnamento musicale, riciclata negli anni cinquanta da Langston Hughes e compagnia bella, che ha ricevuto risposte così ignoranti [sia pro che contro] non era nuova, era l’essenza di ciò che la poesia [linguaggio musicale] è sempre stata. Proprio come i mezzibusti del teatro europeo che, dopo l’età vittoriana e il moderno demone del colonialismo, si integrarono sempre meno con la musica e la danza, man mano che la supremazia dell’ignoranza, l’intruglio del demonio, si impossessavano dell’anima del mondo, convincendo la gente che non esisteva e che non esisteva nessun altro, non era mai esistito! Altrimenti, voi tutti non ve ne stareste a ridere mentre siete ancora in catene.

La poesia è musica! Leggetevi Black Reconstruction[Ricostruzione nera]di Du Bois, un libro di storia in grado di commuovervi come una poesia. Gli africani, la cui società originaria era comunitaria e matriarcale, crearono sin dall’inizio art», arte, può anche voler dire «esistere», come nell’espressione «and thou art with me», tu sei con me] un’espressione sociale che replicava la struttura e la natura di quella società. Madre Africa, la madre terra. Non «padre terra». «Lo spirito non discenderà senza canti?!» ci dice Equiano. Quando «il blu era il nostro colore preferito», prima che andassimo fuori di testa e ci svendessimo al robivecchi, prima che ci facessimo un gran brutto viaggio, per poi ritrovarci al di là del mare con il blues, un’altra storia.

Il rap, per esempio, è vecchio quanto l’albero africano che percuotevamo mentre raccontavamo la nostra storia, e che poi divenne Ngoma, il tamburo. I pigmei erano qui prima di Dio, ovvero il tamburo. Un tronco, il seme ci dice [come si scrive?] di registrare, il rap. Il battito del nostro cuore, perché noi eravamo sotto ON per capire l’ESSERE [BE] e il DOVE [AT]. (Ndt: beat sta per battito, battuta, ritmo). Lo spirito è letteralmente respiro, inspira espira. Lo spazio, specifico come è per noi, si fa parola esattamente come l’«io»[nel senso di nero]. Che aria è quella? [Vuoi dire canzone, figliolo? O sangre, sangue? O piuttosto il calore che ti dava il blues, ti faceva suonare, ti faceva cantare – non è vero?].

La parola è il veicolo più antico della vita umana. Canzone [song], da Sole [sun] – là dove il Sol [sol] ci dà l’Anima [soul] – capito? Datti da fare. Trovalo! Il corpo della felicità [funk]. Tutto quanto abbiamo portato, dai cocomeri a quelle danze in area di meta dopo aver segnato un touch-down. Che ne sarebbe? La cultura degli Stati Uniti è una piramide di africani, europei, asiatici [nativi]. Dunque i «calchi africani» non c’entrano. Essere americani, del nord, del sud o del centro, è anche essere quella cosa lì.

Il griot è sempre stato con noi, persino negli Stati Uniti, basta ascoltare Lightnin Hopkins, Bessie Smith, Louis Armstrong What Did I Do, to Be So Black & Blue?»] o Al Hibbler che vola nel suo Dukeplane, o Billie Holiday, Dio lo sa bene, o Larry Darnell, che negli anni cinquanta cantava «Why you fool, you poor sad worthless, foolish, fool!» O Stevie Wonder, Aretha Franklin, Abbey Lincoln, Sun Ra. Vuoi qualche djali, e il djeli ya, quel qualcosa che ti smuove, come diciamo noi? Bene, allora incomincia con djeli Roll Morton, che ha inventato il Jazz – “Chi, IO? La musica dell’orgasmo? JAZZ []. Avrà proprio detto così? O Dinah Washington e Ella Fitzgerald che cantano [alle temperature del sole], «Deve essere djeli, perché jam non tremola a quel modo!». (Ndt: gioco di parole con jell jam, gelatina).

Jam? Vuoi dire jamaa, la famiglia? Come una jam session? O ujamaa, la società comunitaria. Siete tutti in tutti quei colori [molte storie, molti colori], perché siete comunitari, perché, come ha detto Max Roach, la nostra musica lo è sempre. Il mio amico la chiama poliritmica, polifonica. Quando il sacerdote [al cospetto dell’essere, immergendovisi e indagandolo] chiama e noi rispondiamo, [ritorniamo], tutti insieme, in gran numero, questa connessione apre noi stessi come porte. Dici sul serio, porte? O l’imbongi (Ndt: porte tradizionale dei popoli zulu e xhosa) vuoi dire che puoi aprirti la strada dentro di noi col tamburo [ngombe]? A forza di rulli di tamburo comprendiamo dove ci troviamo e possiamo andare avanti, no?

Ecco perché è un mshairi, (Ndt: poeta in lingua swahili) fai di nuovo parte della comunità con noi. Negli Stati Uniti, «noi» è un ammasso di tanti «io» senza connessione logica. []

Ovvero, lasciate che la storia del griot, che il djali, vi facciano comprendere che siamo vecchi tanto quanto siamo nuovi. E che ciò che non sapete fare è suonare. Ecco perché – «It’s why we Blue, because we blew» – siamo tristi perché abbiamo suonato. Ma allora lasciamo spazio al djali, dice Mr. B., (Ndt: presumibilmente lo stesso Baraka),«Djeli Djeli Djeli», ciò di cui abbiamo bisogno è ciò che il griot/djali ci ha dato, informazioni, ispirazione, rinnovamento e autodeterminazione! Madre cielo, abbiamo gridato, connettici all’elettricità. Accendici. Accendi la città del nostro desiderio profondo.

(*) care e cari

la piccola redazione del blog si riposa un pochino: dal 23 dicembre al 6 gennaio (date forse un po’ banali) non sono previsti i soliti tre “pezzi” al giorno. Ma ovviamente chi di noi vorrà potrà postare qualcosa che appare urgente. Forse lo farò anche io. Ma intanto, per non lasciare troppo bianco in blog, ho recuperato dal mio archivio una quindicina di miei articoli (del 2006-7-8) che non mi sembrano troppo invecchiati e li posto, uno al giorno senza un particolare ordine di data o di argomento. Questo evidentemente non è mio anche se tutta mia fu la fatica (con relativo piacere) per avere la possibilità di postarlo – mi pare nel marzo 2008, però non ci giuerei – sul sito di «Carta».

Dal 7 gennaio in blog si torna allo schema abituale. Restano gli appuntamenti fissi: il lunedì Mark Adin (ore 12); martedì fantascienza (io e Fabrizio Melodia); il mercoledì appaltato a Miglieruolo; il giovedì le finestre di David; venerdì Rom Vunner, in possibile alternanza con Maia Cosmica; sabato «narrativa e dintorni» con un racconto o una poesia, le vigne(-tte) di Energu e altro; domenica la neuro-poesia di Pabuda ma anche Alexik. Tutti i giorni molto altro, a partire dalla (da noi amatissima) Maria G. Di Rienzo e dalle urgenze.

C’è una novità nella quale vorremmo coinvolgere… chi se la sente. L’idea è di partire dall’11 gennaio con una «scor-data» al giorno; speriamo di farcela. Se siete da poco nel blog e non sapete cosa sono le «scor-date» … fate prima a leggerne qualcuna che io a spiegarlo. Oppure prendete un libro meraviglioso come pochi: «I figli dei giorni» di Eduardo Galeano, tradotto da Sperling & Kuperf pochi mesi fa (e recensito in blog). Ovviamente una «scor-data» al giorno (e ben fatta) è davvero un impegno gravoso. Perciò cercheremo di dividerci i post fra la redazione e un po’ di esterne/esterni. Se qualcuna/o si candida ad aiutarci e/o ha proposte GRAZIE in anticipo e si faccia sentire (su pkdick@fastmail.it) così ne parliamo.

Mi fermo qui.

Abrazos y rebeldia per un 2013 di intelligenza, dignità e sovversione. (db)

 

Redazione
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