Anatomia dell’esclusione

di Alberto Chicayban (*)
La parola ghetto utilizzata in tutto il mondo per indicare un luogo di segregazione è una parola veneta utilizzata per

indicare il quartiere istituito nel 1516 per gli Ebrei di Venezia. Secondo questa teoria la parola potrebbe derivare dal nome di una fonderia accanto alla zona del rione ebraico. Un’altra spiegazione (sviluppata da Wertheimer, gran rabbino e professore di linguistica a Ginevra) propone l’origine di ghetto nell’idioma ebraico-caldeo: guddah (separazione) o ghet (luogo di gente che vive ripudiata e segregata dal consorzio degli altri, nonché posto sorvegliato).
Le due radici dell’ebraico-caldeo sono perfettamente coerenti con l’immagine storica che conosciamo del ghetto veneziano. Al tramonto i portoni del quartiere ebreo venivano chiusi e sorvegliati da guardie cristiane fino l’alba, quando erano riaperti. Era vietato agli Ebrei abitare o tenere uffici al di fuori del perimetro del ghetto ma ai Cristiani era permesso entrare per fare affari o portare pegni in cambio di prestiti. Altri popoli europei hanno adottato la stessa idea come i portoghesi con la judiaria, il ghetto degli Ebrei o la mouraria o ghetto dei Mori a Lisbona. La parola judiaria in portoghese ha acquisito il significato di “cattiveria” o “pratica crudele” proprio per questi motivi.
I processi di segregazione ed esclusione, dei quali il ghetto è stato solo una piccola realtà, hanno aiutato a creare una cultura ebraica intrisa di resistenza, di sviluppo delle proprie capacità, di voglia di superamento e di ostinazione che l’hanno resa preparata ad affrontare qualunque ostacolo. Non credo di esagerare se affermo che la loro sfiducia verso i non ebrei – detti in ebraico goin, stranieri – rasenta quasi la paranoia dopo gli accanimenti criminali storici dell’Europa nei loro confronti. Avranno sviluppato sentimenti diversi armeni, curdi, rom e sinti?
Quali sentimenti potranno sviluppare i cittadini immigrati in Italia trattati da delinquenti da governi di destra e sinistra che hanno sistematicamente evitato la creazione di una politica di integrazione in tutti questi anni? Che sentimenti potranno provare questi cittadini immigrati se i numeri pubblicati dalle questure indicano costante diminuzione dei delitti in contrasto con la situazione di allarme creata dalla furberia di un ceto politico razzista e da una stampa che manca di princìpi etici e di coscienza? Infatti l’accostamento semantico fra la parola immigrato e le parole irregolare o clandestino è spesso praticato anche dalla stampa buonista che in maniera inconsapevole (?) contribuisce alle campagne neofasciste delle diverse sfumature neoliberali presenti in tutti gli schieramenti politici italiani. Per esempio, se devono scegliersi il titolo adatto a una tragedia che ha coinvolto diversi disperati morti (o uccisi) in mare per scappare alla miseria o alla violenza preferiscono Strage di immigrati sul Canale di Otranto! Allora, la parola immigrato diventa sinonimo di irregolare, dunque di qualcuno che cercava di violare le leggi italiane, un potenziale delinquente. Non è raro che una notizia positiva sulla vita o atti di un cittadino immigrato venga casualmente (?) sistemata a livello di impaginazione accanto a un’altra che riguarda delitti o efferatezze in maniera da “contaminare” il contenuto del testo accanto.
La stampa vi ha abituato ai termini favela, barriada, slums, banlieu o periferie degradate come indicativi di realtà abitative precarie oppure come sinonimi di luoghi nei quali la gente cerca di arrangiarsi per sopravvivere. Ma quello che spesso la stampa nasconde o non informa a sufficienza su questi nuovi ghetti sono i seguenti punti: a) la situazione d’abbandono delle comunità; b) la non integrazione degli individui alla vita nazionale e alle istituzioni dello Stato; c) lo sviluppo di gerghi o linguaggi particolari che distinguono l’interno dall’esterno; d) le violenze quotidiane subite dall’esterno e dall’interno; e) la crescente organizzazione amministrativa e militare alternativa in assenza dello Stato; f) i rischi di conseguenze nefaste per le zone privilegiate vicine e poi lo spostamento delle stesse conseguenze verso le zone privilegiate lontane dalla zona del nuovo ghetto. Le notizie che escono sui nuovi ghetti riguardano generalmente casi di delitti, atrocità oppure catastrofi naturali. Se non ci sono morti o fatti scabrosi qualunque evento importante che riguarda la vita di una di queste comunità sarà ignorato dalla stampa. Questi sono luoghi comuni per la mentalità della stampa italiana e di diversi altri Paesi che supponiamo democratici e sviluppati.
L’esclusione crea all’interno dei nuovi ghetti un ambiente particolare adatto allo sviluppo di sistemi efficaci di sopravvivenza e di educazione precoce per affrontare i problemi fondamentali della dura esistenza. Un realismo spietato e la sfiducia in qualunque istituzione o persona provenga dell’esterno convivono con usi linguistici adatti a nascondere agli altri i disegni e le emozioni degli esclusi.
Siccome manca la presenza delle autorità costituite e l’attenzione generale ai bisogni primari della comunità circoscritta al ghetto è più che comprensibile la creazione di strutture governative locali gestite dai membri più attivi, riconosciuti come leader. È molto comune la scelta degli elementi più violenti come capi naturali più adatti al compito di imporre una parvenza di ordine o sistema. Questi poi guadagnano visibilità mentre cercano, tramite delitti e prepotenze, di ampliare il loro potere o accumulare beni di lusso in mezzo alla estrema povertà e sofferenza. Sicuramente il fenomeno, molto anteriore alla presenza degli immigrati in Italia, vi è familiare con il nome di Mafia, Camorra o Ndrangheta.
La creazione di forze armate è una conseguenza naturale dello sviluppo delle proprie strutture para-governative appena menzionate. Poche regole, molta flessibilità e un’organizzazione gerarchica basata sulle capacità dimostrate sul campo convivono con punizioni estreme per gli errori commessi dai soldati. Il capo diventa dentro la comunità un uomo di successo, invidiato e paradossalmente amato anche se molte volte esercita la crudeltà contro la povera gente del suo stesso gruppo sociale.
Voglio raccontarvi una mia personale esperienza rispetto a uno di questi nuovi ghetti. Una volta – era il 1982 o 1983 – un mio caro collega musicista mi ha invitato a un pranzo di compleanno in una favela di Rio de Janeiro. Il giorno dell’invito mi ha dato appuntamento in un bar nella strada vicina alla favela per guidarmi nel labirinto. Premetto che tutte le favelas sono veramente labirinti. Chi non appartiene al luogo non riesce a orientarsi in quei formicai di casette ammucchiate nei quali l’unica logica urbanistica appartiene al campo della lotta per l’esistenza.
Appena cominciati a salire i gradini di una scala improvvisata scavata nella terra abbiamo trovato una sorta di ridotto piazzale nel quale ragazzi giocavano a carte e un ragazzino teneva in aria un aquilone. Accanto a ognuno dei ragazzi si vedeva una pistola. Il mio amico ha salutato il gruppo e mi ha presentato come il maestro di musica che lavorava con lui in città. I ragazzi hanno dimostrato simpatia nei miei confronti nonostante fossi vestito in maniera molto diversa da loro. Nel corto scambio di parole si sono sforzati di parlare un portoghese quasi chiaro. A mio avviso la gentilezza era dovuta a due cose: a) mi trovavo accompagnato da una persona del rione; b) lavoravo con quella persona in città e non avevo preconcetti nel venirla a trovare nella favela. Sono stato giudicato come uno diverso da non odiare.
Lungo la salita abbiamo trovato altri due piazzali e sempre ragazzi armati ascoltando musica o parlando fra di loro. La scena della presentazione si è ripetuta altre due volte. Alla sommità avevano allestito una tavolata con la polenta alla moda di Bahia. Nei dintorni alcuni ragazzi facevano la sorveglianza armata con fucili militari moderni e mitragliatrici israeliane del tipo Uzi. Ho domandato al mio collega il perché dell’artiglieria e ho imparato che alla sommità custodivano la cocaina da smerciare.
I gruppi di ragazzi trovati procedendo verso la sommità rappresentavano gli anelli di sicurezza attorno alla favela e il ragazzino del primo piazzale era l’incaricato di segnalare al commando, tramite movimenti codificati dell’aquilone, le persone che arrivavano alla favela. Sapevano in anteprima se un estraneo in compagnia di un abitante del luogo fosse diretto alla sommità. Di sera utilizzavano fuochi d’artificio di colori e tipi diversi per trasmettere precise informazioni. L’organizzazione militare rendeva un eventuale arrivo a sorpresa della polizia o di gruppi rivali pressoché impossibile.
Una ricerca ha dimostrato però che più di novantacinque percento degli abitanti delle favelas è costituito da lavoratori e lavoratrici. Soltanto il cinque per cento è coinvolto con il crimine. La polizia, però, è temuta da tutti come il peggiore dei nemici e quasi tutti gli abitanti delle favelas possono raccontare di soprusi praticati dai poliziotti contro persone indifese. Una signora residente in una favela vicina a Rio mi ha raccontato che suo figlio, deficiente fisico, è stato derubato dallo stipendio da un gruppo di poliziotti. Non contenti lo hanno spinto dentro una fogna all’aperto con la raccomandazione di portar più denaro la prossima volta per non subire qualcosa di peggiore.
Durante le incursioni nelle favelas le così dette forze dell’ordine non si fanno problemi a buttare giù le porte delle case o a pestare gratuitamente gli abitanti anche se sono vecchi o donne incinte. Innocenti morti in incidenti durante i blitz della polizia sono comuni e le eventuali inchieste si concludono quasi sempre con la non colpevolezza dei poliziotti. Preciso come spesso accade in Italia.
Le guerre fra bande per il possesso dei punti di vendita della cocaina sono un comune fattore di mortalità della popolazione nelle favelas. Durante le sparatorie l’utilizzo d’armi da guerra è normale e i proiettili ad alta velocità sono in grado di trafiggere le normali pareti di mattoni e colpire gli abitanti inermi. I soldati della polvere bianca sono aggiornati sulle ultime produzioni dell’industria internazionale della morte. Il governo del traffico di droga paga in contanti e a prezzi superiori a quelli del mercato internazionale per la consegna di materiale militare alla favela. A volte la polizia non riesce neanche a identificare il micidiale, modernissimo equipaggiamento utilizzato dalla delinquenza come è accaduto durante un normale controllo stradale qualche anno fa a Rio: dentro il portabagagli di una macchina c’erano quindici fucili nord americani Colt-AR15 fuori serie con visori infrarossi. Diverse volte durante perquisizioni sono state ritrovate granate, esplosivo plastico, mortai e addirittura missili Stinger appartenenti all’esercito della cocaina, un rischio per gli elicotteri della Polizia. Da poco uno è stato abbattuto da uno di questi razzi militari.
Alcuni anni fa sono accaduti episodi di guerriglia urbana a Rio e poi a São Paolo ordinati dai trafficanti Fernando Beira-Mar e Marcola. Hanno provocato decine di morti e l’incendio di un centinaio di autobus di linea per opera dei soldati della droga. Rinchiusi dentro i penitenziari i due signori della guerra hanno scatenato l’inferno nelle due importanti città brasiliane soltanto perché non desideravano essere spostati in altri penitenziari di massima sicurezza. Hanno deciso, come si dice, di dare una dimostrazione di forza.
Una parte degli uomini che potrebbero, tramite azioni di governo, cambiare la situazione d’esclusione di cinquanta milioni di cittadini brasiliani che vivono al di sotto della soglia di povertà è direttamente interessata all’esistenza delle favelas come centro d’affari nel traffico di droghe ed è anche proprietaria del latifondo che genera le favelas. Le così dette soluzioni democratiche non sono credibili perché le elezioni sono ormai una farsa ripetuta ogni quattro anni. Le migliori intenzioni vengono annientate quando si tratta di decidere in Parlamento perché la priorità è difendere l’interesse privato dei parlamentari, delle loro famiglie e degli amici, nonché il capitale internazionale oltre l’immediato interesse elettorale. Chi esula da queste categorie non può aspettarsi niente altro che il dimenticatoio. Vi è familiare lo schema?

(*) Questo testo – spiega Alberto Chicayban – «è stato scritto come lettera di accompagnamento (inutile) per un dialogo teatrale, concepitoda me per “L’Arlecchino Errante” di Pordenone e basato sull’intervista (rivelatasi falsa) rilasciata dal trafficante Marcola a un giornale brasiliano. Poi Julio Monteiro Martins ha pubblicato il dialogo e la lettera di accompagnamento sul numero 26 di «Sagarana» (http://www.sagarana.it/rivista/numero26/saggio5.htm). Tu hai totale libertà di pubblicarla sul tuo blog».

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