Vittoria Oliva – Scuola Elementare Luigi Settembrini

Quando ci trasferimmo a Roma da Napoli, nel 1946, era venuto il tempo di non fare più la Sciuscià. A papà non andava proprio di lasciare Napoli e a me neppure, ma mamma era disperata, ripeteva sempre che se restavamo a Napoli sarei venuta su “una delinquente”.
Papà le diceva che esagerava, che mi faceva bene, anzi! Ma niente da fare, quando mamma prendeva una decisione non si discuteva.
Napoli mi piaceva, avevo la mia banda e i legami nelle bande sono profondi, radicati: i più grandi, ipiù forti, si sa , comandano sempre in una banda, ma noi  piccoli trovavamo il modo di fottere pure loro;  ci giravamo tutta la città .
Quando c’è la guerra si cresce in fretta, e fai esperienze di sei, un anno o due che ti formano a vita e che magari valgono  più della vita di tanti che certe esperienze non fanno.
Invece della mondezza allora ci stavano le macerie, ma Napoli era bella e viva: la città dove non si dormiva mai!
Si abitava,da sfollati, nei bellissimi palazzi nobiliari, con le grandi scalinate e le ringhiere enormi fra un piano e l’altro.
Si stava in tre quattro e più famiglie nei saloni, ognuno aveva il suo reparto, separato dalla tenda o altro, i grandi cortili a giardino, persino.
Ma il giardino vero era la città col suo odore che è solo l’odore di Napoli come era : un misto di caffè e di salsedine.
Quando io, mamma e papà venimmo a Roma trovammo una camera in affitto al Tufello e tutte le mattine ci si alzava presto che mamma e papà, al lavoro ed io alla scuola. La scuola era la Luigi Settembrini perché mamma lavorava al Ministero del Tesoro che stava proprio di lato alla fontana di Trevi.
Non avevo più la banda e in più la scuola!
Non ho nessuna foto della scuola elementare, ma la ricordo bene, come molti dei compagni di scuola.
Allora tutto era strano, niente aveva preso ancora forma e anche le scuole erano strane come il resto.
In prima elementare, per esempio, non avevamo tutti sei anni come me ci stava chi ne aveva otto, dieci e una ragazza che ne aveva quattordici: era quella che stava più a disagio di tutti, sempre da sola e scontrosa che aveva i problemi suoi, poi non venne più perché qualcuno, maestra o non so chi scoprì che batteva.
La scuola Luigi Settembrini era una scuola mista, non solo perché di maschi e femmine, ma perché ci venivano anche parecchi bambini ebrei, quelli che erano ebrei laici oppure che non avevano i soldi per andare alla scuola rabbinica, forse.
Io, infatti, avevo imparato alcune parole nel dialetto giudaicoromanesco mi ricordo solo: faraschid e mattecabbion, le ripetevamo spesso, non mi ricordo più che cosa volevano dire.
Il migliore amico mio era un bambino ebreo, i suoi genitori  mandavano avanti una pasticceria proprio a via del lavatore, una pasticceria che faceva delle paste formidabili, una piccola bottega artigianale.
Appena arrivavi a scuola la prima cosa che ti davano era un pezzo di pane con l’olio di fegato di merluzzo, perché eravamo tutti rachitici, a me doppia razione di pane e olio di fegato di merluzzo perché ancora mi
trascinavo la TBC;   per me diventava più che doppia dato che  faceva schifo a tutti tranne che a me, insomma la mattina mi facevo sta comunione di pane olio di fegato di merluzzo e pastarella: non male!
Quando suonava la campanella di fine scuola:che bellezza!!! qualcuno andava a casa, pochi,  quelli che l’avevano, i più restavamo per strada ad aspettare i genitori che uscivano dal lavoro fino a sera.
Ma allora si viveva per strada.
Infatti nelle pensioni in cui per lo più si abitava si entrava ad  orario di sera, e quindi tutto il giorno per strada, non era male perché a parte la fontana e chi ci girava intorno, ci stava il mercato che sempre fottevi
qualcosa, e poi ci stava il cinema varietà!
Passavi la giornata al cinema varietà due film e nell’intervallo tra un film e l’altro il varietà.
La scuola vera nostra era quella: la strada, il mercato, il cinema varietà.
I compiti di scuola?  dirà qualcuno:  i compiti li facevamo seduti per le scale nei portoni ,collettivamente, quando ti andava, oppure la sera quando tornavi alla camera di pensione.
Di pensioni ne giravi tante, che per un motivo o l’altro sempre eri cacciato via e tra una pensione e l’altra conoscevi pure Roma e i suoi quartieri: dal Tufello dove il padrone era un invalido senza una gamba, a via Sicilia dove ci stavano due signorine distintissime, e così via.
Forse questo fa capire il motivo reale perché la casa è stata ed è sempre quello che viene detto “investimento rifugio” in Italia, perché prima: servi contadini nella casa del padrone terriero e poi senza un tetto sulla testa Tuo: sempre ti dicono “beh ora vattene!”
In pensione non  si poteva cucinare, o stavi a pensione completa o mangiavi fuori.
Niente pensione completa per noi, e io aspettavo la mamma che staccava prima dello straordinario che andavamo a mangiare alla tavola calda di via del lavatore.
Si mangiava in piedi su una lastra di marmo grigio, a volte veniva pure il papà.
Non solo non potevi mangiare, ma non potevi nemmeno lavare i panni, e io ricordo i tempi più duri, quelli più di fame con la mamma che lavava alla fontanella mentre io facevo la spia per il vigile, poi per fortuna, col tempo, si poterono portare i panni in lavanderia.
A me il mangiare della tavola calda di via del lavatore faceva proprio schifo e trovai il modo di risolvere il problema.
Proprio vicino alla scuola, accanto, c’era una coppia di portieri i che avevano una gattina, io e la gattina diventammo amici perché avevo quell’odore di olio di fegato di merluzzo addosso dato che mi conservavo
i pezzetti di pane  anche per  lei che aveva partorito e ne aveva bisogno;  amici io e la gatta: diventai amica dei portieri e parte del tempo lo passavo con loro che mi divertivo più che con i compagni di scuola;  mi piaceva fare i compiti nella portineria con la gatta che faceva le fusa, perché c’era la gatta, i gattini e i vecchietti che imparavano le cose insieme a me;  insomma io mi facevo i compiti per far contenti loro che scoprivano cose che non sapevano e fu così che presi l’abitudine di studiare a modo mio, cioè di voler sapere di più di quello che diceva il libro perché ai nonni bis piacevano le storie, i racconti le poesie, poi loro mi aiutavano a fare le somme, i compiti di matematica.
Si stava caldi nella portineria, era piccola, si stava caldi quasi come alla casa dei nonni tanto che io li chiamavo nonna bis e nonno bis! Infatti non mi ricordo i nomi, solo “nonno bis e nonna bis”
La mamma disse: se stai a pensione dai portieri bisogna dargli qualcosa per il disturbo e andò a parlare con i portieri, i quali non vollero una lira e la mamma che insisteva e loro no! Non ci fu verso.
La mamma trovava sempre il modo di “essere di riguardo” come diceva lei, che la nonna aveva a insegnato ai figli che bisognava sempre “avere riguardo”.
Riguardo, che curioso una parola che non sento più, che non dico più nemmeno io.
Eppure se ci pensate bene è una parola bella.
E’ un modo bello di dire rispetto, perché significa che tu guardi con attenzione una persona.
Ora si vede senza capire, si guarda senza riguardo.
Durò tutto il tempo della scuola elementare questa amicizia a quattro fra me i due portieri e la gatta.
Poi venne il tempo delle medie e ci salutammo. Ma ci vedevamo spesso che sempre capitava che passavo all’ufficio di mia mamma. Poi tanti avvenimenti e non ci vedemmo più.
Passarono gli anni, ero una donna giovane con una figlia anche e un giorno  bussarono alla porta, senza nemmeno una telefonata prima, c’era una signora gentilissima con un vecchietto che disse  era il
suo papà,  piangevano tutti e due, e il vecchietto mi abbracciò e mi disse che lei la moglie prima di morire aveva chiamato me e aveva detto al marito passa a
trovare la Vittorina.
Non è una favola anche se ora pare, è così, sono le storie dei tempi del riguardo.

Vittoria Oliva

 

 

per informazioni e invio testi:
clelia pierangela pieri – xdonnaselva@yahoo.it
luigi di costanzo       – onig1@libero.it

Clelia

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