Ancora su Assange (e noi) ma anche su…

Edward Snowden, Tom Drake, Chelsea Manning, John Kiriakou e altri “whistleblower”

articoli di Vincenzo Vita e Marina Catucci con un link a Stefania Maurizi

Quale verità nell’era del capitalismo della sorveglianza

L’inchiesta. La vicenda di Julian Assange al centro de «Il potere segreto» di Stefania Maurizi, pubblicato da Chiarelettere. L’accusa contro il fondatore di WikiLeaks: rivelò i crimini di stato in Irak, Afghanistan e a Guantanamo. Negli Stati Uniti rischia 175 anni di carcere, una condanna a morte

di Vincenzo Vita (*)

Julian Assange deve morire? Sembra questo il desiderio non detto degli Stati Uniti, della Gran Bretagna, dell’Australia, dell’Ecuador e della Svezia, vale a dire i riferimenti angoscianti del calvario cui è sottoposto da anni il giornalista australiano. Uno scandalo che ci interpella sulla crisi democratica, fotografata da ultimo dai deliri afghani.

IL FONDATORE della struttura di informazione libera WikiLeaks (nata nel 2006, in pieno clima di libertà della rete, condivisione e open source), infatti, inizia già nel 2010 un incubo senza fine. Il potere segreto (Chiarelettere, pp. 388, euro 19) è il preziosissimo volume di Stefania Maurizi, che ci racconta con cura e rigore l’intera vicenda. L’autrice scrive oggi su Il Fatto Quotidiano, dopo aver lavorato per la Repubblica e per L’Espresso. Ci fornisce uno straordinario materiale – scritto con cura letteraria – su un buco nero del millennio, dove i colpevoli mettono i panni dei giudici e l’eroe moderno che disvela i crimini di stato diventa un pericoloso e mal sopportato criminale, perseguito dalla Svezia per presunti reati sessuali da cui viene prosciolto e dall’alleanza angloamericana per violazione dell’Espionage Act del 1917.

Di cosa è incolpato Assange? Ecco il punto. Le incriminazioni riguardano la divulgazione dei file inerenti alla guerra in Iraq (tra i quali il famigerato video sull’eccidio di civili Collateral Murder), quelli sull’Afghanistan oggi di un’attualità stringente, i cablo inerenti al controllo della vita di migliaia di persone messo in atto dalla National Security Agency (Nsa) ivi compresi capi di governo, le torture di Guantanamo. Insomma, coloro che operano una plateale incursione nelle vite accusano di spionaggio chi ha portato fino in fondo la deontologia professionale ed ha interpretato l’essenza della cronaca.

Non è stata riconosciuta la tutela garantita dal primo emendamento della Costituzione di Washington sull’intangibilità dell’informazione. Lo testimonia il protagonista dei Pentagon Papers Daniel Ellsberg che, per una situazione del tutto omologa creatasi per le rivelazioni sulla guerra del Vietnam – pubblicate da New York Times e Washington Post- non venne, invece, incriminato.

Attorno ad Assange si dipanano fili neri, a partire dalla tragedia di Chelsea Manning, decisiva fonte primaria sull’Iraq. Il militare, che nell’incredibile detenzione ha scelto di cambiare sesso ed era entrato nell’esercito non per la guerra, bensì come analista informatico, è un esempio alto di moralità. Ha contribuito alla controinformazione, perché assisteva a scempi inauditi del diritto e delle convenzioni internazionali. Chi è, dunque, il reo? Colui che strappa il velo dei segreti di stato coperti perché inconfessabili, o i decisori delle trame insanguinate? Tre tentativi di suicidio in carcere sono il risultato di una consapevole tortura.

DI TORTURA – clamorosamente subita da Assange – ha parlato esplicitamente nel 2020 il relatore delle Nazioni Unite Nils Melzer. Dopo la lunga segregazione nell’ambasciata ecuadoregna a Londra, subendo una vergognosa intercettazione extra legem ad opera di una connivente società di vigilanza spagnola – della sede diplomatica – pagata dalla Cia, cui è seguita la detenzione nel carcere speciale inglese di Belmarsh, le visite mediche diedero un verdetto chiaro: Assange è in condizioni psichiche precarie e non si può escludere nulla.

E ora, benché per gli evidenti problemi di salute la giudice del tribunale londinese abbia sospeso la richiesta di estradizione negli Stati Uniti, il rischio rimane ed è serissimo. 175 anni di carcere, questa è la misura della pena che viene minacciata, sono – comunque – una condanna a morte. Edward Snowden, l’analista della Central Intelligence Agency ugualmente accusato, ha trovato un rifugio di necessità in Russia, non certamente per sua scelta. Ed altri, magari osservati con fastidio perché hacker, non hanno avuto vita facile.

Il potere segreto, così ben descritto da Stefania Maurizi, non è una mera patologia, bensì la chiave della trasformazione del capitalismo nell’età della sorveglianza, via via affrancatosi dalle stesse istituzioni formali, già deboli e poi supine.

IL LIBRO, assai utile per capire il mondo attuale in tutta la sua violenza reale e simbolica, è la radiografia degli odierni rapporti di forza. E WikiLeaks, rappresentando un’insopportabile volontà eversiva rispetto all’ordine costituito, va all’inferno. Giornali e media ufficiali, peraltro, sono conniventi. Domani capiterà pure a loro?

Il volume è un lungo appassionante racconto che, con uno sguardo acuto e sensibilissimo capace di intrecciare le vicende generali con le complesse (e talvolta contraddittorie) trame personali di un potenziale premio Pulitzer, invoca coraggio e verità.

(*) pubblicato sul quotidiano “il manifesto” del 9 settembre

Il «dissenso patriottico» dei Whistleblower

La ricaduta . La loro battaglia ha cambiato le idee dei cittadini sulle scelte del governo Usa

di Marina Catucci (**)

Pochi giorni prima dell’inizio delle commemorazioni del 9/11, la deputata socialista Ilhan Omar si è rivolta pubblicamente al presidente Biden chiedendogli di graziare il whistleblower Daniel Hale, ex membro dell’aeronautica statunitense condannato a luglio a 45 mesi di carcere per aver divulgato informazioni classificate che hanno rivelato il programma statunitense dei droni e degli omicidi mirati. A marzo Hale si era dichiarato colpevole per aver violato l’Espionage Act, una legge risalente alla prima guerra mondiale, e nella sua lettera a Biden, Omar ha scritto: «La questione legale della colpevolezza del signor Hale è risolta, ma la questione morale rimane aperta. Credo fermamente che sia giustificato un perdono completo, o almeno una commutazione della sua pena».

A 20 anni dagli attentati dell’11 settembre, l’immagine pubblica dei whistleblower è cambiata. «Whistleblowers set us free» è la scritta che campeggia su una maglietta molto popolare tra gli attivisti americani, ma in Usa non è più necessario essere un attivista per condividerne il senso.

Figure come quelle di Hale, Edward Snowden, Tom Drake, Chelsea Manning, John Kiriakou e una miriade di altri whistleblower incombono su un mondo sempre meno popolato da personaggi aderenti alle regole, invece fedeli al «dissenso patriottico», come lo ha definito il veterano, scrittore ed attivista Danny Sjursen, che ha prestato servizio sia in Iraq che in Afghanistan, ed ora è autore di un’analisi critica della guerra in Iraq, nella quale ha coniato questa espressione per spiegare lo spartiacque creato da quella guerra nel concetto di patriottismo.

Per un anno dopo l’attacco alle torri qualsiasi segno di critica nei confronti del governo veniva percepita come un’imperdonabile aggressione al sacro amor patrio. La guerra in Iraq e poi le rivelazioni di Chelsea Manning sui crimini compiuti dall’esercito Usa in Iraq e Afghanistan, hanno portato a un cambio di registro. Se non fosse stato per l’atto di dissenso patriottico di Manning quei crimini sarebbero stati insabbiati, così come a Snowden si deve la presa di coscienza del programma di sorveglianza di massa del governo sui suoi stessi cittadini, sempre in nome dell’antiterrorismo.

Nonostante questo cambiamento di percezione sui whistleblower da parte dei cittadini statunitensi, Washington continua a tenerli sotto scacco come dimostrano i casi di Assange, Manning e Snowden, per citare 3 figure chiave delle battaglie per l’uso di internet, i segreti di stato e la sorveglianza di massa nell’era della lotta al terrorismo, che hanno reinventato le prassi di rivolta.

Per avere accesso alle informazioni riservate e compromettenti che rendono pubbliche, i whistleblower provengono spesso dall’ambiente militare, e la spiegazione più ricorrente su cosa li ha spinti a trasgredire alle leggi non è in contraddizione con questo: «Ho giurato sulla costituzione di proteggere gli Stati Uniti da ogni loro nemico, esterno o interno».

I programmi di intelligence interna dal 9/11 sono cresciuti, spinti dalla paura per il terrorismo e sostenuti da leggi e politiche che consentivano alle agenzie governative di accumulare dati sui cittadini. Spesso questi programmi hanno preso palesemente di mira le comunità musulmane negli Stati Uniti, trattandole come intrinsecamente sospette a causa del loro credo religioso. Oltre a fornire strumenti per sopprimere il dissenso politico e i movimenti per la giustizia razziale, visti come una minaccia per l’ordine sociopolitico esistente.

Kiriakou è diventato il primo whistleblower a confermare che il waterboarding, una forma di tortura, era prassi ufficiale degli Stati Uniti. «L’11 settembre – ha scritto – è stato lo spartiacque che ha cambiato in modo permanente il nostro modo di vivere. Non torneremo mai e poi mai nel nostro Paese del 10 settembre».

Negli ultimi 4 anni sono state presentate numerose proposte di legge per colmare le lacune e porre fine ai ritardi legali affrontati dai whistleblower, ma il Congresso deve ancora agire su qualsiasi correzione sostanziale per le leggi che si occupano dei loro casi.

(*) pubblicato sul quotidiano “il manifesto” del 10 settembre

VEDI ANCHE http://iww w.osservatoriorepressione.info/perche-processo-julian-assange-riguarda-anche-nostro-futuro/

 

 

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