Ancora su «Radicalized» di Doctorow

Le recensioni di Francesco Masala e Michele Zizzari. A seguire una discussione fra db e Beppe sulla “violenza che paga”

Breve introduzione (di db)

Dopo la mia recensione a «Radicalized» (*) in “bottega” e quella, assai breve, apparsa sull’edizione italiana di «Le Monde diplomatique» – la incollo sotto – ho ricevuto 9 messaggi: 7 erano strettamente personali ma 2 recensioni e/o riflessioni erano per la “bottega” e li troverete di seguito. Il tema che più mi coinvolgeva era la violenza politica nel terzo racconto dell’antologia: su questo ho avuto uno scambio di idee con Beppe Pavan (vecchio amico nonchè anima del gruppo «Uomini in cammino») e mi sembra utile renderlo pubblico. Tutto questo non certo per chiudere la discussione, semmai per tenerla aperta.

(*) Cory Doctorow: «Radicalized»

 

Recensione (a firma Daniele Barbieri) sull’edizione italiana del Diplò

Futuro prossimo: negli ascensori le porte per i poveri funzionano solo dopo che i ricchi hanno finito di usarli oppure elettrodomestici che decidono (algoritmi and Company) cosa non dovete mangiare. E presente: negli Usa l’assistenza sanitaria è un diritto solo se puoi pagarlo. In questo intreccio Cory Doctorow scrive 4 storie molto belle e politiche.

«Per i miei genitori, Roz e Gord Doctorow che mi hanno insegnato perchè lottiamo e a non arrendermi. Questa non è una di quelle battaglie che si vincono, è una di quelle che si combattono». Dedica impegnativa per aprire un libro ma corrisponde proprio a quel che si va a leggere. Nel primo racconto Salima e i giovani ribelli di un palazzo popolare vogliono controllare i computer invece di farsi controllare da loro. Nel secondo, in apparenza più leggero, faremo i conti con l’American Eagle (cioè Superman) convertitosi al politically correct e con problemi di coscienza. Ironia graffiante. Il terzo racconto è un viaggio nell’incubo statunitense della salute colletiva in mano ad avvoltoi privati: lotta di classe che forse sfocerà in una guerra sociale. Più tradizionale l’ultimo racconto, «La maschera della morte rossa» che riprende il titolo e (in parte) la trama del famoso racconto di Edgar Allan Poe: i geni e presunti dominatori finiranno male mentre la plebaglia (come Graciela) forse si salverà perchè sa che “il lavoro di cura” conta più di armi e fortezze. Il libro si chiude con i «ringraziamenti» che pure non sono tradizionali visto che il canadese Cory Doctorow ci tiene molto a confrontarsi con il suo pericoloso vicino di casa, schierandosi con «#blacklivematter, Alexandria Ocasio-Cortez, Erica Garner, Bernie Sanders e i milioni di persone nelle strade».

Personaggi vivissimi, «maschere di compassione», totem e regole non dette, «impotenza nauseante» e ribellione altamente tecnologica, «le parti indicibili del tuo passato» (di profuga, in questo caso) e si sa che «è facile per una vecchia normalità lasciare spazio a una nuova» ma bisogna senpre chiedersi chi ci sta guadagnando. Comunque «avere un obiettivo è un ottimo rimedio contro l’ansia» (personale e collettiva). Ci muoviamo nella realtà degli Usa con poliziotti che praticano «lo stupro sociale» contro i “non abbastanza bianchi”, con le regole della «sorveglianza predittiva», con le assicurazioni mediche che lasciano morire chi non ha soldi ma con la resistenza che cresce e si organizza.

Doctorow è attivista per i diritti digitali e per il Creative Commons, condirettore del blog «Boing Boing». Da un ventennio scrive buona fantascienza ma dà il meglio di sé quando incrocia l’oggi e il dopodomani dentro lo scontro politico: fra i suoi romanzi tradotti in italiano «Homeland» e «Lilltle Brother» sono i più belli.

Cory Doctorow

«Radicalized: quattro storie del futuro»

traduzione di Dafne Calgaro

Mondadori (Oscar Fantastica)

324 pagine, 15 euri

AVVISO PER CHI DETESTA LO SPOILER: inevitabilmente troverete che le trame soni state sviscerate e i finali svelati. Perciò se preferite leggere i racconti di Doctorow al buio… fermatevi qui.

La recensione di Francesco Masala

Cory Doctorow passa per essere uno scrittore di fantascienza, per la pigrizia delle classificazioni.

Lui scrive storie che hanno elementi scientifici al loro interno e parlano dell’oggi e del domani, ci mette in guardia dai pericoli che arriveranno, ma anche delle occasioni che ci troveremo davanti, dipende da noi.

Sono storie di Resistenza, contro la prepotenza, l’inferno economico, l’oppressione, e a volte scatta quella cosa meravigliosa che si chiama Solidarietà, o Fraternità, se uno si ricorda cosa significa.

A volte si vince, a volte no, dice Cory Doctorow: “Questa non è una di quelle battaglie che si vincono, è una di quelle che si combattono”, un po’ come Paco Ignacio Taibo IIche scrive: “Tanto qui non si gioca più a vincere. Si gioca a sopravvivere e a continuare a dare fastidio”.

Buona, imperdibile lettura.

 

La recensione di Michele Zizzari

Pane è tra le parole, le cose, i cibi e in generale fra i prodotti più simbolici che esistano. Dacci il nostro pane quotidiano recita il «Padre Nostro».

E Cristo lo spezzò, lo moltiplicò e lo distribuì. Per Gandhi Dio non può apparire agli uomini che in forma di Pane.

Non equivocate, non sono credente, voglio solo evidenziare la potenza (e insieme l’ampiezza) allegorica, metaforica ed emblematica del termine Pane, che per alcuni poeti andrebbe sempre scritto con la maiuscola, come il proprio nome. Pane e lavoro era lo slogan del Movimento dei disoccupati di Napoli fra gli anni ’60, ’70 e oltre.

Pane per i miei / tuoi / suoi / nostri denti è un motto molto diffuso. Ursula Le Guin, per citare una grande scrittrice di fantascienza, afferma che L’Amore, come il Pane, va rifatto fresco ogni giorno. E allargando il campo per contrasto con altri termini, Elizabeth Gurley Flynn dell’American Communist Party – sindacalista radicale, attivista dei diritti civili e dell’emancipazione femminile – scelse come slogan Vogliamo il pane, e anche le rose per la campagna di scioperi che ottenne il diritto di voto per le donne.

Quelli che ci vedono chiaro sanno che senza Pane non c’è amore, né dignità, né diritti, né libertà. Come per dire che il Pane rappresenta – come l’acqua, e non solo nella sua forma più concreta e materiale – l’essenza e la sostanza della vita e di una dignitosa esistenza, e per molti della stessa sopravvivenza; oltre ad essere (nelle sue infinite versioni, dalla pita alla pizza, dalla tortilla alla piadina eccetera) l’elemento base della dieta della maggior parte delle popolazioni del mondo. Il cibo per eccellenza! Fra l’altro costituito da due semplici ma fondamentali ingredienti: l’acqua per l’appunto e la farina, di qualunque tipo essa sia.

Quando dunque (grazie al blog) ho letto il titolo e il racconto Pane non autorizzato di Cory Doctorow ho realizzato che si trattava di una potente metafora e non solo di Pane, ma di Vite non autorizzate, esistenze cui son negate dignità, diritti e libertà. Una gigantesca ingiustizia globale – finalizzata al profitto, al controllo sociale e alla fidelizzazione ricattatoria e coercitiva dei consumatori – impunemente consumata attraverso e per mezzo di prodotti d’uso quotidiano fra loro combinati e interconnessi (dal pane agli elettrodomestici, dalle telecamere ai software) che produttori, aziende multinazionali ed eserciti di progettisti, programmatori ed esperti di marketing son capaci a rifilarci, compreso l’insieme di logiche, tecnologie e modalità d’uso asservitrici ed esclusive in essi contenuti. Un problema che non riguarda soltanto un futuro di là da venire, ma purtroppo il nostro presente – e già da un bel po’, dalla rivoluzione industriale in avanti – e che l’utilizzo condizionante, discriminante e speculativo di prodotti, servizi, macchine, nuove tecnologie e loro interconnessioni può solo aggravare.

Prodotti ad alta tecnologia “nemici invisibili e remoti…” che inducono, plasmano e controllano i desideri, i bisogni e i comportamenti di cittadini consumatori e utilizzatori. Prodotti “che contengono vite, corpi”. Basta “un guasto”, un errore e diventano disgrazie, disastri, ingiustizie, tombe…

L’ottimismo critico di Doctorow offre però una soluzione: “diventare molto, molto bravi… farsi furbi… topolini più astuti del gatto” attraverso l’apprendimento e l’approfondimento delle proprie conoscenze ed esperienze, uniti alla loro condivisione sociale, alla solidarietà e al sostegno di coloro che ci circondano, per essere sempre in grado “d’infrangere e sovvertire le regole” e trasformare prodotti, strumenti e tecnologie “che danno ordini” (e che producono dipendenza e sottomissione) in prodotti, strumenti e tecnologie “che li ricevono”, quindi a servizio delle persone e delle comunità.

Salima infatti (protagonista del racconto, orfana, rifugiata e proveniente da un campo profughi) legge, studia, segue i forum in rete, si confronta con i più giovani, condivide e scambia con loro e con altri che vivono le sue stesse condizioni di vita tutte le conoscenze che di volta in volta acquisisce.

Nella realtà, fuori dal racconto, non tutti ce la fanno, soprattutto i più poveri. Ampie fasce sociali sono senza istruzione e senza strumenti. Il Covid e la didattica a distanza stanno aggravando le disuguaglianze fra chi ha e chi non ha, a seconda che si viva in un luogo o in un altro del pianeta. Come la ricerca medica e i vaccini sono proprietà, strumento di lucro e arma di ricatto nelle mani delle case farmaceutiche, anziché essere semplicemente disponibili a tutti.

Certo – come testimonia l’abilità, la scaltrezza e la radicalità del giovanissimo Abdirahim, altro protagonista del racconto – i più giovani costituiscono la speranza cui affidarsi perché imparano – per la loro spiccata dimestichezza con le nuove tecnologie – e si fanno furbi prima, sono meno disposti al compromesso.

L’amarezza è che – seppur riusciamo a utilizzare le tecnologie nella maniera che preferiamo – resta il fatto di perdere (e per sempre) comunque qualcosa e di dover lasciare indietro comunque qualcuno (di sicuro più d’uno). Perché le macchine, le tecnologie e (più di loro) le logiche intrinseche a queste (che poi diventano dominanti) cancellano inesorabilmente occupazioni, mestieri, competenze, saperi, esperienze, stili di vita, modi di fare, di sentire e di essere, linguaggi, forme espressive, parti di umano importanti, mondi, paesaggi e perfino intere popolazioni. Nella storia il futuro si comporta così.

In questo racconto per un futuro già presente, Doctorow però ci manda un messaggio positivo, perché i suoi protagonisti sono e restano umani, coerenti ai loro sentimenti d’amore, d’amicizia e di solidarietà: sinceri e fedeli alla parola data, soprattutto sono consapevoli, decisi e preparati a sovvertire le regole, sabotando e ribaltando proprio la logica assoggettante e alienatrice delle macchine, secondo il principio del detournement, ossia del ribaltamento di senso, in questo caso del senso stesso della vita.

Doctorow ci mostra come in una società dominata da grandi aziende produttrici e di marketing il potere e il controllo agiscano in maniera profonda e capillare proprio attraverso l’uso coercitivo e condizionato di prodotti di largo consumo e servizi, elettrodomestici ad alta tecnologia muniti di sofisticati software e telecamere tra loro integrati e interconnessi. Una società davvero poco distante dalla nostra in fondo. Si pensi a tutte le informazioni che i social network, le banche dati, gli smartphone, i satelliti e la sterminata rete di telecamere già sono in grado di offrire ad aziende e organi di controllo d’ogni tipo e livello. Per non parlare di tutte le card e le procedure tele-burocratiche (codici fiscali, tessere sanitarie, carte di credito, di consumo e di accesso varie) in cui sono in-cartella-te e in-chip-pate le nostre vite, i nostri corpi e i nostri bisogni. In questa prima delle quattro storie per il futuro di Doctorow i protagonisti riescono a eludere il controllo imparando a sabotare e a utilizzare quelle stesse tecnologie.

Nella seconda storia – Minoranza modelloil tema è la recrudescenza del razzismo e del suprematismo bianco, con particolare riferimento agli Stati Uniti e all’impunità di cui gode la brutale violenza esercitata dalle forze dette dell’ordine nei confronti dei neri e di tutti quelli che – per motivi di opinione, di provenienza geografica o di qualunque altro genere – appaiono diversi o da considerare pericolosi per lo status quo vigente, che è la cosa che il potere tollera meno di ogni altra. Il razzismo è una bestia dura a morire: neppure un super eroe – dal nome quanto mai emblematico di American Eagle e dotato di poteri quasi illimitati – riesce a far fronte. Qui il super eroe (proprio come il famoso Superman di fumetti e film) torna a essere uno straniero, un alieno, dopo essere stato alleato degli umani in tante guerre e battaglie contro il crimine e il terrorismo globale. Dopo aver assistito per anni a innumerevoli ingiustizie American Eagle decide di intervenire per evitare che un giovane nero di nome Wilbur Robinson venga massacrato impunemente di botte da poliziotti bianchi. Riesce a evitargli il peggio ma allo stesso tempo scopre tutta la frustrante impotenza dei suoi stessi poteri e della società nel suo insieme contro il razzismo imperante. Un nemico subdolo e diffuso che non si può vincere prendendolo semplicemente a pugni. Il suo intervento mina il potere costituito e i suoi privilegi, come quello dell’uso esclusivo della violenza e della supremazia bianca, così il super eroe da utile alleato si trasforma in pericoloso sovversivo. Il potere – tutto può tollerare tranne che essere messo in discussione – si difende minacciando le persone a lui care; così American Eagle è costretto a farsi da parte. L’impotenza del super eroe certifica (caso mai ve ne fosse bisogno) la menzogna del sogno americano, del mito del superuomo, del giustiziere difensore dei diritti e della libertà e del vendicatore dalla forza sovrumana, tanto celebrata dalla produzione cinematograficausa-centrica. E soprattutto la menzogna che gli USA rappresentino la democrazia più avanzata del mondo. Una super potenza che invece è nata, cresciuta e pasciuta sulla violenza, sull’annessione militare di territori e popoli, sulla schiavitù e sull’apartheid. Un marchio di fabbrica che purtroppo continua a riaffiorare sotto le verniciature simil-democratiche della propaganda o del governo di turno. Pur se una parte (non piccola) del popolo statunitense si oppone a questo sistema.

Doctorow vuole anche dirci che nessuno verrà dalle stelle per salvarci, come nessuno (da solo) può cambiare le cose. Inutile aspettare l’anima buona di un presidente o l’angelo caduto dal cielo. Per combattere l’ingiustizia è necessario auto organizzarsi, a partire da sé, dai diretti interessanti e dai mezzi disponibili. Lo aveva capito, lo sapeva bene (fin dall’inizio e sulla propria pelle nera) Wilbur Robinson, che – ristabilitosi in parte e seppur gravemente segnato dalle percosse e dalle angherie subite – decide di organizzare manifestazioni antirazziste di massa, filmando e denunciando coi telefonini ogni sopruso e violenza contro i neri, proprio come è accaduto nei continui (e spesso mortali) pestaggi degli ultimi anni. In questo racconto la speranza è tutta nell’immagine di Wilbur claudicante che – sostenuto da sorelle, fratelli, da un esile bastone e dai telefonini – affronta senza paura il poliziotto bianco, costretto infine a ritirarsi di fronte al coraggio e alla determinazione dei tanti, oltre che alla forza delle immagini e delle testimonianze.

Nel terzo racconto Doctorow affronta il tema del diritto alla salute. Una questione sociale e politica oggi ancor più strategica per l’emergenza causata dal Covid. Un “diritto” che negli USA (come si sa) dipende da costosissime assicurazioni private, per le quali gli statunitensi giungono a indebitarsi, ma che poi al momento del bisogno e nella maggior parte dei casi si scoprono inefficaci, grazie a un’infinità di clausole vessatorie che nella sostanza escludono quasi tutte le malattie gravi. Una truffa generalizzata e legittimata; o meglio imposta per legge dalla potenza delle lobby assicurative, che così hanno il veto di vita o di morte su quasi tutti i cittadini. Una piccola postilla, un asterisco o un minuscolo codicillo nel contratto stabilisce se puoi curarti o no, se vivrai o morirai. Una vergogna senza pari per una società che si autodefinisce democratica. L’interesse privato di un’azienda sopra il diritto alla salute. Questa la denuncia di Docotorow.

Ce ne scandalizziamo ma, a ben pensarci, non è una novità, perché nelle società capitalistiche l’interesse economico è sempre più importante della salute, della vita e perfino del pianeta. Un racconto bello e crudo come questo ce lo ricorda. Doctorow non racconta di migranti, minoranze o bianchi poveri ma di famiglie bianche della middle class statunitense colpite dal cancro alle quali le assicurazioni non coprono tutte le cure necessarie. Mariti, padri e congiunti assistono impotenti all’aggravarsi e infine alla morte dei loro cari senza poter far nulla, dopo aver lottato invano con schiere di consulenti, dirigenti, medici e politici senza scrupoli. Niente cure, il diritto al profitto è sancito dalla legge e quello a vivere no.

Nel racconto – ovviamente sintetizzo – si creano gruppi social di auto aiuto, ma non basta. L’odio nei confronti dei responsabili di quell’inaccettabile ingiustizia divora cuori e menti. Cresce la sete di vendetta. La discussione su se sia lecito usare la violenza per ottenere diritti altrimenti ostinatamente negati infiamma e viaggia sui social. Soprattutto nel dark web, per eludere i controlli della rete e della polizia postale, fino a che alcuni bianchi traditi dal sistema decidono di passare ai fatti, di “farla pagare”: è l’estremo tentativo di spingere la politica e le case assicurative a cambiare atteggiamento. Vengono fondati gruppi ashtag Dovete.Avere.Paura”. I loro follower sono considerati pericolosi estremisti delle coperture sanitarie. Fra loro c’è chi prova a dissuadere gli altri dall’usare la violenza terrorista, come Joe Gorman (protagonista del racconto). Iniziano gli attentati. Questa volta a farsi esplodere non sono terroristi islamici o nemici di Stati canaglia (da combattere in territori ostili e lontani) ma bianchi americani della middle class. La classe politica, spiazzata dai fatti, dovrà incamminarsi verso Americare, un programma di estensione del diritto alla salute, sulla scorta della riforma proposta da Obama?

Anche Joe viene arrestato. Mentre è piantonato in ospedale giunge la notizia che il programma Americare è stato approvato dal Senato. La moglie che ha avuto il permesso di assisterlo commenta la notizia con una domanda sibillina: Chi dice che con la violenza non si risolve mai niente?

Doctorow ha il coraggio di affrontare senza ipocrisie la questione della violenza estrema. La ribellione all’ingiustiozia attraversa tutta la storia dell’umanità: da Prometeo al Comandante Marcos, dai nativi nordamericani alle dure lotte del movimento operaio e alle mille rivolte popolari. L’uso della forza è legittimo se si lotta per una giusta causa … quando ogni altra forma di confronto e di protesta non ha esiti.

Cito, anch’io senza ipocrisie, alcuni passaggi del racconto. “Joe non aveva mai istigato alla violenza. Anzi, aveva fatto di tutto per fermarla. Ma era per una giusta causa. La più giusta. Lasciare che la gente morisse perché salvarla avrebbe intaccato il profitto di qualcuno era un atto malvagio. Ed era malvagio chiunque lo avallasse…” Certo che “Ammazzare… non era giusto, ma un mondo dove i malvagi hanno paura di una rappresaglia è un mondo un pochino più giusto di quello in cui se ne vanno in giro a testa alta.”

Maddy, la figlia di Joe, frequenta le scuole elementari ma si è posto mille domande sulla malattia della madre, sulle cure che le sono state negate (prima della sua spontanea e quasi miracolosa guarigione) e sugli episodi di violenza. E commenta così, con l’innocente forza dei bambini: “Secondo me i cattivi sono peggio dei tizi con le bombe… che stanno solo punendo i cattivi perché hanno ucciso i loro figli”.

Dialogo fra db e Beppe

caro Beppe, mi fa molto piacere che tu abbia apprezzato questi racconti di Doctorow perchè mi aiuta a parlare con te di un nodo spinoso: la violenza estrema. Ne ragiono con te perchè ti stimo, ti so un vero nonviolento – con tutte le contraddizioni di ogni essere umano – ma anche una persona che non si trincera dietro le belle parole per nascondere le terribili asperità del mondo concreto.

Qual è il punto? Chi ha letto il primo racconto saprà che siamo dalle parti dell’illegalità diffusa. Però la protagonista – con ragazze/i che la seguono (e la scavalcano) – sta lottando contro regole ingiuste e classiste. Difficile non essere dalla parte di Selma contro chi usa persino i tostapane e  gli ascensori per opprimere. Nel terzo racconto la faccenda è molto diversa. Come racconta Michele Zizzari qui sopra, Joe è stato arrestato perchè era in contatto con #DoveteAverePaura ma chi legge il racconto sa che lui non era favorevole agli attentati contro le assicurazioni mediche, anzi: Joe ha fatto il poco che ha potuto per far cambiare idea alle persone che stavano per colpire i boss  delle assicurazioni mediche (le quali negli Usa hanno potere di vita e di morte su chiunque non sia della classe superiore) con l’inevitabile corollario di morti che ogni attentato comporta. Nelle ultime due pagine del lungo – intenso e bellissimo, sarà bene ridirlo – racconto, la moglie di Joe va a trovarlo e gli dice che hanno approvato “Americare” cioè la sanità pubblica porrà rimedio a una parte delle grandi, tragiche infamie delle assicurazioni mediche. Joe e Lacey  si toccano le mani simbolicamente attraverso il vetro divisorio. Poi Lacey piangendo dice al marito: «Chi ha detto che con la violenza non si risolve mai niente?». E Joe che pure sta piangendo scoppia inaspettatamente a ridere. E pensa che se tiene “una buona condotta” dovrà stare in carcere SOLO per «nove mesi ancora».

Ecco il mio rovello, Beppe. mi chiedo e ti chiedo: Cory Doctorow ci sta dicendo – con le parole di Joe e Lacey, due belle persone – che la violenza estrema (il terrorismo) paga? Che non c’è altra via? Oppure ci sta solo raccontando uno dei mondi (dei futuri) possibili e suggerendo di costruirne in fretta un altro?

Caro Daniele, mi piace stare in relazione di scambio con te, perché da quando ti conosco sei uno che ama approfondire.

Venendo a Doctorow: una vera sorpresa per me, non lo conoscevo affatto… La mia riflessione al termine dei primi due racconti è stata – e contina ad essere – che i supereroi sono controproducenti: chi impone, anche con la persuasione, la propria linea strategica per la soluzione può rischiare di ritrovarsi in un vicolo cieco. Certo, Selma non vedeva altra soluzione, all’inizio, ed è stata brava sia a coinvolgere altri/e – i/le ragazzi/e si buttano più facilmente con entusiasmo e radicalità nelle imprese che capiscono – sia soprattutto a cambiare quando si è resa conto. Doctorow mi dice che non possiamo più essere ingenui come loro: noi, che abbiamo letto, adesso sappiamo che la violenza del potere si può contrastare solo con iniziative di massa di lungo respiro, con pazienza e tutta la lentezza necessaria, cominciando dalla condivisione della consapevolezza.

Pensa alla cultura patriarcale dominante e violenta: non l’hanno sconfitta i “profeti” alla Gesù, non la sconfiggono le donne del femminismo da sole… Occorre che ogni singolo uomo cambi le proprie modalità di stare al mondo, abbandonando ogni forma di prepotenza. Solo così cambieranno, a poco a poco, anche le Istituzioni e le Leggi… Questa è la strada del cambiamento efficace, ma durerà tutta la vita, quella di ciascuno di noi e quella dell’umanità. Non credo ci siano alternative per l’efficacia: dobbiamo solo camminare in quella direzione, ogni uomo e ogni donna.

Il terzo racconto mi ha messo di fronte alla complessità della società che popola il mondo. C’è sempre qualcuno/a che si sacrifica e “paga” per ottenere benefici sociali: è l’effetto collaterale per il “buono” che vi si dedica. Nello stesso tempo mi ha fatto conoscere meglio la spietatezza del sistema poliziesco e di quello sanitario USA. Quanto alla domanda retorica di Lacey sulla «violenza utile»… beh, Trump sta lì a smentirla, mi sembra: Americare/Obamacare può essere semplicemente smantellata dal successore che ha eguale potere di chi l’ha costruita. Poi arriva Biden e la ripristina… poi il prossimo la ri-cancellerà… La violenza non risolve nulla, secondo me. Anche se capisco che le circostanze e i desideri personali possono fartela sembrare inevitabile: in questo ho consapevolezza della complessità.

Anche l’ultimo racconto è interessante, in negativo. Io sto partecipando a un gruppo che si chiama «Prove di comunità»… ma cerchiamo consapevolmente di comportarci da comunità fin dall’inizio e in ogni passo che facciamo. Niente fughe in avanti: il super-guru non crea comunità. L’abbiamo vissuto sulla nostra pelle anche nella comunità di base di Pinerolo…

Sono temi di grande quotidianità che Doctorow affronta con grande abilità introspettiva e narrativa. Ti ringrazio di avermelo proposto.

CONCLUSIONE?

Ovviamente non ci sono conclusioni. A me stesso e a Beppe, a Michele e Francesco, a chi sta leggendo avrei così tanto da dire (poche certezze e molti dubbi) che non basterebbe un libro.

Aggiungo solo due ultimi tasselli personali al puzzle. Ieri scrivendo con Marco, un vecchio amico, a proposito di Sante Notarnicola lui ricordava che «senza la presa della Bastiglia saremmo ancora tutti servi della gleba… come dice Machiavelli è dai “tumulti” che nascono le buone leggi». E io gli rispondevo: «non ho dubbi, però questo non risponde alla mia domanda su come la violenza estrema (non mi riferisco a quella per difendersi) trasforma in peggio chi la usa pur se è partito con uno scopo nobile o per una necessità». Siccome mi è difficile essere del tutto d’accordo con me stesso poco dopo mi sono contraddetto (in un soliloquio). Per caso mi è capitato sotto gli occhi la storia di Ljudmilla Pavlicenko, l’eroina della battaglia di Sebastopoli contro i nazisti. A guerra finita in un incontro pubblico lei incontrò Eleanor Roosevelt che le chiese: «Voi chi siete?». Rispose: «sono un cecchino». La moglie del presidente allora le domandò: «Quanti uomini ha ucciso?». E la sua risposta fu: «Nessun uomo. Solo 309 fascisti». Così mi sono detto – e vi dico – che mi sento per intero dalla parte di Ljudmila: mi capite? Però subito dopo ho pensato che persino in guerra bisogna essere capaci di riconoscere l’umanità ai peggiori nemici… Ma allora sono scemo io oppure… cosa?

So che la discussione continuerà; e come scrive Beppe durerà «tutta la vita». I miei dubbi ve li ho detti. Mi fa paura quel che accade nel terzo racconto di Doctorow ma temo che lui possa avere ragione, che la direzione sia quella. Così domando a me stesso, a Beppe e ai nonviolenti veri (non mi riferisco ai barzellettieri alla Veltroni che confondono Gandhi con il “bon ton”): fino a che punto possiamo sopportare l’ingiustizia e cosa fare se la sola strada che resta aperta per liberarsi è la violenza estrema?

 

Redazione
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3 commenti

  • Sulla violenza:
    Il tema proposto da db, se non ho compreso male, ci pone di fronte ad un problema di carattere antropologico, cioè quanto è lecito usare la violenza quando la si subisce.
    Premesso che la violenza non ha mai portato bene a chi la usa;
    Premesso che “porgere l’altra guancia” non è spesso (quasi mai) conveniente, a meno di una strategia ben studiata;
    Premesso che la violenza incarna in sé il male fine a se stesso.
    Penso sarebbe opportuno rifarsi alla filosofia ghandiana per intuire/trovare la corretta chiave di lettura.
    PS: se il dibattito dovesse prender piede, si potrebbe meglio approfondire.

  • forse penserete che semplifico troppo e che magari sono superficiale … a me pare che la questione vada posta in termini di RESISTENZA al dominio e alle sue ignominie ! Per sopravvivere è spontaneo e inevitabile mobilitarsi per RESISTERE e ogni resistenza può avere momenti e modalità che possono essere violente …
    ovvio che in certi casi la pratica della violenza rischia di condurre verso derive inaccettabili MA ATTENZIONE questi sono casi rari e dovuto a persone che non hanno solida consapevolezza di quello che fanno (basta guardare i casi di derive inaccettabili nella Resistenza antifascista … ma non è certo il caso di questi resistenti che hanno rischiato decine e decine di volte al vita per le azioni gappiste che erano più che utili (ricordo il caso di compagni vecchi emigrati italiani in Francai che furono fra quelli che liberarono Parigi)
    allora, mi pare esagerato e forse inutile dilungarsi in DILEMMI che non hanno ragione di esistere … i NOTAV resistono per sopravvivere !!! e così in NOTA, NOMUOS, i compagni antifascisti portuali di Genova ecc. ecc.
    rilanciamo le pratiche resistenti !

  • A proposito della presa della Bastiglia… E’ vero che qui da noi non c’è più la servitù della gleba, ma in giro per il mondo, e anche qui da noi, di servitù e schiavitù ce n’è ancora a tonnellate. I potenti non si lasciano sbattere giù a spallate: hanno più vite dei gatti. Guardate le conquiste sindacali degli anni ’70: i padroni se le sono rimangiate quasi tutte, compresa la riforma sanitaria, che era un nostro fiore all’occhiello…
    Resistere, in libertà e nel tempo, cercando di seminare desiderio di libertà in chi ci sta accanto, e facendo gruppo su qualunque questione.

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