Ancora un po’ di mostri
Se non ne avete avuto abbastanza di mostri (rivisitati dal “mostruoso” db) ecco altri appunti: più o meno la scaletta del mio secondo intervento («a volte ritornano» per l’appunto) a «Monster train», la lunga rassegna di Cagliari; se qui in blog digitate su Padre mostro che sei nei cieli trovate una sorta di prima puntata.
Anni fa ho intervistato Alberto Merini, un etnopsichiatra bolognese. L’articolo era intitolato «Mostri immaginari e sofferenze tangibili». Cominciava all’incirca così: «Nello studio di Merini c’è il quadro di un artista cileno che raffigura lo stadio degli orrori, cioè dopo vennero rinchiusi i prigionieri politici dopo il golpe: accanto si trova la statuetta di un uomo-lupo regalatomi (spiega Merini) da una studentessa dopo la sua tesi sulla licantropia. Dunque quella chiacchierata interessantissima con Merini è avvenuta sotto due immagini che rimandano a mostri concretissimi (le dittature) e mostri della fantasia (gli uomini-lupo)».
Anche i secondi, i mostri immaginari, provocano sofferenze; dunque dobbiamo combattere – in modo diverso ovviamente – anche i secondi.
L’immaginario ci regala minor dolore di quanto sanno fare a esempio Banca mondiale, Fmi e Wto? Opterei per il sì ma stasera racconterò – e spero ragioneremo insieme (in effetti c’è stata poi una bella discussione) – soprattutto di quelle sofferenze che vengono dal nostro immaginario eppure fanno male lo stesso… perché questa è l’impostazione della rassegna «Monster Train».
Dunque l’immaginario. Licantropi, draghi cattivi, orchi, vampiri, diavoli ma anche lebbrosi, nani, storpi e altre deformità: il nostro immaginario è “ricco” di corpi non abbastanza simili al nostro per essere rassicuranti. (Nell’occasione precedente avevo analizzato alcune catalogazioni del passato con pretese scientifiche). Incertezza, angoscia, terrore. Ma lo spavento a volte è anche comico. Per esempio quando Gargantua, il gigante di Rabelais, fa un peto la terra trema per nove leghe e che succede? Dall’aria corrotta nascono 53 mila nani, informi, non completi.
Ho raccontato poi la storia di un paesino veneto dei giorni nostri dove «il figlio della zoppa» è una cattiva compagnia: un marchio antico. Per passare poi alle paure più profonde, variamente interpretabili, di un film come «L’invasione degli ultracorpi» che ci porta in cantina, cioè forse nell’inconscio, a mostrarci noi stessi “non formati”, insomma altri che ci somigliano e sono minacciosamente pronti a prendere il nostro posto. La metafora dei corpi incompiuti rimanda a vari mostri possibili: i primi due che vengono in mente sono i bambini che crescono (noi prima, ora i nostri figli) e il doppio che si fa largo, cerca spazio e dall’inconscio della cantina buia vuole dilagare nel conscio della casa di sopra.
Sui mostri che ci portiamo dentro, moltissimo era stato detto – un poco prima dei testi più importanti di Sigmund Freud – in forma romanzesca da «Il dottor Jekill e mr. Hyde».
L’intreccio fra immaginari e realtà ovviamente è continuo. Come le inevitabili e mutevoli strumentalizzazioni. Un esempio? Prendiamo Dracula. Il riferimento storico è a Vlad III ma può essere giocato in chiave di “eccoooo un mostro sanguinario” oppure di “eccoooo un eroico combattente calunniato dai suoi nemici”. Al tempo di Ceaucescu era celebrato come un eroe della nazione. Ovviamente appena viene buttato giù l’orrido Ceaucescu cade anche il mito di Vlad-Dracula: due mostri in meno si potrebbe dire. Ma attenzione: ora il nuovo regime è costretto a rivalutarlo: per ragioni turistiche, cioè di soldi. Il mostro attrae, vende, rassicura persino se appare slegato da noi.
Quella sera ho poi accennato ai licantropi… Sappiamo che in qualche modo il disturbo esiste e ho rimandato a codesto blog. Qualche uomo-lupo è ancora fra noi e ho raccontato una storia romana di circa 50 anni fa (che finisce, stando alle cronache, con il tipo ululante prima in carcere e poi in manicomio) e un’altra pugliese, più recente, diciamo a lieto fine perché – racconta uno psichiatria – la famiglia e l’ambiente intorno accettano la stranezza di quell’uomo che sì ogni tanto si sente lupo ma poi non fa male a una mosca, tanto meno a pecore e umani.
Ho ancora raccontato alcune piccole vicende collegate alle paure (le mie, in particolare, che credo di avere in parte superato… riconoscendole) verso i deformi cioè verso – nelle variazioni del linguaggio, inseguendo un sempre irraggiungibile “parlar corretto” – gli handicappati, i disabili, i diversamente abili… E mi sono riagganciato al film «Freaks» che giustamente era stato riproposto nella rassegna cagliaritana e da lì alle esposizioni universali, all’imperialismo, alle «olimpiadi antropologiche», alle pretese scientifiche dei razzismi. E ho invitato a leggere «Intelligenza e pregiudizio» di Stephen Jay Gould.
Ho accennato anche qualche storia di/su Cesare Lombroso ma anche sul suo “uso” ai tempi nostri.
Per passare poi ai mostri delle “cronache nere” tanto amati da Lombroso. Per una coincidenza l’11 maggio, ma di tre anni diversi, salgono alla ribalta dei media 3 mostri diversi e interessanti. Nel 1927 viene arrestato Girolimoni, «il mostro di Roma», che poi verrà riconosciuto innocente ma nell’immaginario collettivo rimarrà colpevole; nel 1931 c’è la prima di «M, il mostro di Dusseldorf», un film che fa paura al quasi trionfante nazismo e dunque sparisce dalla circolazione; infine il terzo 11 maggio rimanda al 1961 quando decolla il processo ad Adolf Eichmann sul quale Hannah Arendt scriverà «La banalità del male». Ho raccontato in dettaglio queste tre vicende che sono riassunte anche qui in blog. Mostri diversi certo, fra cronaca e storia ma anche per come li percepiamo fra memoria e immaginazione.
Ho poi letto alcune pagine di «Madri, mostri e macchine» di Rosi Braidotti, un piccolo (poi ristampato credo in una versione più ampia) ma prezioso libro del ’96 che attraverso il femminismo – o meglio il pensiero della differenza – ci porta a questa imprevista connessione appunto fra macchine, maternità e mostri.
Tic-tac, per chi vuole rifletterci e scoprirla.
Tic-tac. Tic-tac. Tic-tac. Tic-tac. Tic-tac. Tic-tac. Tic-tac. Tic-tac. Tic-tac. Tic-tac. Tic-tac. Tic-tac. Tic-tac. Tic-tac. Tic-tac.
Il nesso è nelle biotecnologie, in particolari procreative. Si spalanca il cesto, il pozzo di possibilità e paure (soprattutto maschili). Da una parte il dominio, che è maschile senza dubbio, potrebbe realizzare uno dei suoi più antichi sogni: fare figli senza le donne di mezzo. Dall’altra c’è l’incubo peggiore: che le nuove tecnologie consentano invece alle donne di fare a meno del prezioso seme maschile. Bisogna tutelarsi. Così prende vigore un’ambigua, spaventata bioetica. In Italia diventa perlopiù un organismo d’intesa fra padri terreni e un supposto padre divino (rappresentato per via dei suoi concessionari in Vaticano) con qualche scienziato complice e ogni tanto qualcuna/o che prova a rompere lo schema. Sono queste commissioni di bioetica a insinuare prima e sancire/santificare poi che il feto ha diritti, anzi ha molti più diritti della donna.
Come relatore mi sono fermato qui (con Rosi Braidotti) e ho lasciato il pubblico decidere se per il finale preferiva il piano A, B, C oppure D.
Il piano A prevedeva che io dessi chiarimenti e/o leggessi pagine dei libri citati. Il B auspicava la discussione. Il piano C – ho detto – «non me lo ricordo, forse non esiste e dunque tiratene fuori voi uno». Il piano D contemplava che io riassumessi alcuni brevi racconti di fantascienza: in particolare «Sentinella» di Fredric Brown (c’è sempre chi non lo conosce) e poi, mettendole a confronto fra loro, due storie di Philip Dick «Le prepersone» e «Umano è». Volete sapere com’è finita la serata? Grosso modo B più D.
Però-però, fateci caso, non sono le mie iniziali?