Andrew chiede: cosa vuol dire umano?

Considerazioni su «L’uomo bicentenario» di Fabrizio (Astrofilosofo) Melodia

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«Anche da giovane non riuscivo a condividere l’opinione che, se la conoscenza è pericolosa, la soluzione ideale risiede nell’ignoranza. Mi è sempre parso, invece, che la risposta autentica a questo problema stia nella saggezza. Non è saggio rifiutarsi di affrontare il pericolo, anche se bisogna farlo con la dovuta cautela. Dopotutto, è questo il senso della sfida posta all’uomo fin da quando un gruppo di primati si evolse nella nostra specie. Qualsiasi innovazione tecnologica può essere pericolosa: il fuoco lo è stato fin dal principio, e il linguaggio ancor di più; si può dire che entrambi siano ancora pericolosi al giorno d’oggi, ma nessun uomo potrebbe dirsi tale senza il fuoco e senza la parola»: così Isaac Asimov (riportato fra l’altro nell’introduzione al romanzo «I robot dell’alba», edizione Oscar Mondadori).
Secondo molti studiosi, Asimov ha offerto sviluppi decisivi per il concetto stesso dell’uomo artificiale anche se il termine da lui usato cioè «robot» non è stato frutto di un suo parto. Lo si deve al commediografo cecoslovacco Karel Capek: nella sua commedia «R.U.R.» (del 1921) in cui denomina “Robot” (termine cecoslovacco che indicava il servitore e per estensione chiunque faccia un lavoro pesante) gli automi schiavi.
I robot di Asimov spesso sono timidi, non hanno un creatore specifico ma sono un prodotto industriale di nuova concezione, concepito come un normale elettrodomestico e venduto su vasta scala. Il tipico robot è umanoide, antropomorfo dal corpo di metallo traslucido. Può aiutare in casa come in tutte quelle attività pericolose per gli esseri umani, a esempio i lavori nello spazio e nelle miniere.
Come qualsiasi elettrodomestico che si rispetti, il robot asimoviano è dotato di un sistema di sicurezza impiantato nel cervello positronico, tre norme comportamentali alle quali non può venire meno: la loro violazione comporterebbe inevitabilmente il cortocircuito irreversibile del sistema, con la definitiva morte dell’automa. Denominate «tre leggi della robotica» esse sono espresse in questo modo:
«Un robot non può recare danno ad un essere umano, né può permettere che, a causa del suo mancato intervento, un essere umano riceva danno.
Un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani, purché tali ordini non contravvengano alla Prima Legge.
Un robot deve proteggere la propria esistenza, purché quest’autodifesa non contrasti con la Prima e Seconda Legge
».
Ma le compilicazioni sono sempre in agguato.

Eccoci dentro una delle più amate storie asimoviane.

Uno di questi robot, prodotti dalla ditta U.S. Robots and Mechanical Men Corporation, è Andrew: viene venduto a una tranquilla famiglia. Inizia a lavorare come aiutante personale del padrone di casa e fa da balia per la figlia piccola.
A poco a poco, il robot assume sempre più autonomia grazie anche al rapporto che si instaura con la bambina. Ma inizia anche a dimostrare doti di creatività artistiche fuori dal comune, scolpendo per gioco alcuni piccoli oggetti di legno per la bimba, scoprendo così la propria vocazione. Poi studia (cioè si documenta da solo) e diventa un valente scultore. Le sue opere vengono vendute.
Il suo padrone, che egli chiama il Signore, assiste non senza preoccupazione ai progressi di Andrew Martin (il cognome della famiglia che lo ospita) consapevole delle ostilità a cui l’androide sarebbe potuto andare incontro. Tuttavia propone ad Andrew la possibilità di guadagnare del denaro con la sua attività, dividendo in modo paritario tutti gli utili delle vendite.
Dopo alcuni anni Andrew, espone al Signore una richiesta sconcertante: in cambio di tutto il suo denaro, vuol comprarsi la libertà.
Ovviamente qui non si può raccontare tutta la vicenda (un romanzo breve) ma uno dei nodi cruciali è che la giurisprudenza risulta impotente nei confronti di tale problema: mai prima di allora un oggetto aveva rivendicato il diritto legale alla libertà. Dopo un accorato dibattito il giudice sentenzierà che chiunque comprenda, come l’androide, l’intima essenza della libertà ha tutti i diritti di chiederla.
Per Andrew e per tutti i suoi simili è una grande vittoria ma allo stesso tempo risulta la peggiore sconfitta. La U.S. Robots, per evitare il ripetersi di “stranezze” simili ad Andrew Martin, cesserà la produzione di robot cosiddetti euristici, cioè in grado di sviluppare una propria coscienza in base alle esperienze, e quindi con un’autonomia di pensiero. Costruirà solo automi ultra specializzati, i quali non possono sgarrare dai binari della loro programmazione.
Il provvedimento spinge Andrew verso una radicale umanizzazione. Da robot ad androide dunque. La sua battaglia è focalizzata sul riconoscimento legale del suo status di essere umano, pur essendo stato concepito come entità meccanica.
In primo luogo chiede alla fabbrica di poter sostituire, dopo settantacinque anni di onorato servizio, il proprio corpo con uno più nuovo, in particolare con un prototipo dalle sembianze praticamente identiche a quelle di un essere umano.
In secondo luogo Andrew apporta un grande servizio all’umanità iniziando a sviluppare una scienza denominata robobiologia, disciplina che studia le applicazioni della meccanica su un corpo organico. Elabora in questo modo un ingegnoso sistema di alimentazione che gli permette di nutrirsi con prodotti organici: in questo modo riesce a sostituire la pila atomica che gli fornisce energia.
Con l’applicazione delle protesi a livello umano, Andrew Martin ascende in breve tempo a stella di prima grandezza nel firmamento della medicina.
Alla soglia dei 150 anni chiede di poter ottenere il riconoscimento della propria umanità. L’ostacolo maggiore è nel proprio cervello positronico costruito in metallo, rispetto a quello umano costituito da cellule organiche dunque in grado di evolversi, invecchiare e morire, cosa assolutamente impossibile per una mente elettronica. Andrew comprende che questa “immortalità” suscita timore e odio nei confronti delle creature meccaniche. L’accettazione della mortalità è sopportabile per gli esseri organici a patto che sia universale. Se Andrew venisse considerato legalmente un umano, ciò causerebbe violenti scontri e nuovi rancori. C’è una sola, drastica soluzione: sottoponendosi a un delicatissimo intervento chirurgico, Andrew modifica le proprie connessioni sinaptiche in modo tale che lentamente il suo cervello si deteriori, in pratica dandosi la morte.
Il giudice che presiede la sua causa di umanizzazione gli chiede come abbia superato l’ostacolo della Terza Legge della robotica e Andrew risponde di aver trovato un principio di autoconservazione più alto della semplice sopravvivenza: il suo gesto non solo gli permetterà di morire con dignità, perseguendo il traguardo di tutti gli umani, ma farà cessare la sofferenza… per la sua diversità.
Andrew Martin, che si è reso mortale, ha vinto e viene riconosciuto come «uomo bicentenario» avendo compiuto 200 anni dal giorno della sua attivazione. Muore da vincitore.
Il racconto «L’uomo bicentenario» è stato scritto non a caso nel 1976, secondo centenario della “rivoluzione americana”. Costituisce, nel panorama della ricca produzione asimoviana, una pietra miliare di sintesi: è evidente la tematica antirazzista ma c’è molto di più. In quest’opera sono in luce i temi fondamentali del pensiero di Asimov: la volontà degli esseri artificiali di essere qualcosa di più che semplici servitori; l’ottusità di molto umani nel negare loro giustizia.
Ma i diritti appartengono incontestabilmente ai soli esseri umani? E’ la carne che differenzia dalla macchina? La risposta sembra ovvia e prende l’avvio da una banale constatazione e da un improrogabile giudizio: tutte le forme di vita conosciute sono costituite da una base organica fondata sul carbonio. Il metallo è semplicemente un minerale, non cresce, non si evolve, non sviluppa una coscienza propria. La vita ebbe origine dall’acqua e rimanda al liquido amniotico che avvolge amorevolmente il feto fin dai primi istanti di vita.
Il metallo dev’essere estratto, forgiato, lavorato da mani estranee per ottenere una propria forma. L’essere umano invece nasce dalla natura viva, cresce, evolve: la sua stessa intelligenza (o presunzione?) lo porta a considerarsi superiore alle creature che lo circondano, persino più forte degli elementi naturali che sconvolgono questo mondo. L’unica cosa che limita gli umani – ciò che segretamente e inconsciamente li inquieta – è la sua caducità, la transitorietà della propria esistenza, il lento e inesorabile cammino del disfacimento del proprio corpo perfetto. Non è così per il metallo…
Il robot Andrew Martin è inorganico, vecchiaia e malattia non possono scalfirlo, i pezzi “difettosi” possono essere sostituiti all’infinito. Tuttavia Andrew decide di morire.
La democrazia “reale” ha valore purtroppo solo quando non lede i diritti dei più potenti pur se proclama che tutti gli esseri sono uguali e a loro appartengono dignità, il diritto alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità.
Asimov ci ha suggerito che il punto di partenza è la democrazia delle idee, che ci occorre elasticità mentale per andare oltre le categorie metodologiche in cui la nostra mente pigra molto spesso tenta – invano – d’inscrivere il mondo, similmente a quanto faceva il mitologico locandiere Procuste, il quale adattava i clienti della sua locanda ai letti, tagliando i piedi quando questi sforavano o pestando le persone per allungarle. La verità è una coperta troppo corta che alla fine lascia scoperti i piedi, come diceva Tod Anderson nel film «L’attimo fuggente»: si cerca sempre di adattarla ma alla fine si rompe rivelando la propria intrinseca inutilità.
Nella narrativa asimoviana la diversità s’incarna nel dolente metallo che vuole entrare nella comunità della carne ma ne viene espulso, quasi a significare che nel pensiero dominante i rapporti umani si costruiscono solo attraverso la negazione del diverso. Del resto è questa la filosofia alla base delle guerre e dello sfruttamento. Se si ferisce un androide non si vede sangue, la coscienza è tranquilla, non stiamo ammazzando un nostro simile. Per questo i razzisti hanno teorizzato (senza ovviamente poterlo provare) che alcuni popoli non sono umani.

Ecco la grande vittoria ottenuta da Andrew Martin. Grazie alla sua battaglia si evidenzia la terribile limitatezza dell’intelletto umano quando è governato dal suo atavico padrone cioè la pura volontà di sopravvivere. E’ un circolo vizioso, simile alle formiche che camminano incessantemente sull’infinito nastro di Moebius o a Sisifo che vede vanificati i suoi tentativi di portare il macigno sopra il monte in quanto ogni volta ricade a valle.
Assumendo su di sé la durissima condizione umana – la mortalità che tanto vanifica l’orgoglio e la tracotanza degli uomini – non ha reso solamente se stesso «umano» e degno di libertà ma ci ha costretti a capire chi siamo davvero, su quale strada possiamo evolverci.

 

 

L'astrofilosofo
Fabrizio Melodia,
Laureato in filosofia a Cà Foscari con una tesi di laurea su Star Trek, si dice che abbia perso qualche rotella nel teletrasporto ma non si ricorda in quale. Scrive poesie, racconti, articoli e chi più ne ha più ne metta. Ha il cervello bacato del Dottor Who e la saggezza filosofica di Spock. E' il solo, unico, brevettato, Astrofilosofo di quartiere periferico extragalattico, per gli amici... Fabry.

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