Antonio Cieri nella Parma del 1922

di Massimo Ortalli

Sono figlio, nipote e pronipote di parmigiani, e dunque la storia di Parma mi appartiene come se vi fossi sempre vissuto. Fin da piccolo, quando capitava di evocare il carattere della nostra città, una delle frasi ricorrenti del lessico familiare di mia nonna, classe 1880, era: «Parma Rossa non si tocca» e per quanto la frase mi sembrasse, da bambino, piuttosto oscura, tuttavia capivo che doveva esserci un qualche cosa di grandioso dietro a quelle parole. Ed effettivamente c’era qualcosa di grandioso, c’era che Balbo e le sue feroci milizie dovettero tornare nella ben più ospitale Ferrara con le pive nel sacco; e c’era che un popolo intero, non solo quello dell’Oltretorrente ma di tutta la città, festeggiava una vittoria sullo squadrismo fascista, quale nessuno, in un’Italia percorsa dalle bande di Mussolini, avrebbe potuto pensare possibile.

Fu una storia corale quella, come tutte le più belle storie di libertà, la vicenda di una città intera che sente di dover difendere non solo la propria libertà, ma anche il suo carattere più intimo e irrinunciabile, quello spirito ribelle, caustico e così alieno dal conformismo, che costituiva un vero e proprio antidoto a qualsiasi forma di assoggettamento. Ma come tutte le storie corali, la resistenza dell’Oltretorrente fu anche una storia di individui, di singoli soggetti, che seppero unire e coordinare capacità e desiderio di indipendenza per dare vita, collettivamente, a una vicenda indimenticabile. Alcuni di loro sono noti, altri sono conosciuti solo da pochi, mentre della grande maggioranza, come è nell’ordine delle cose, si è ormai persa la memoria. Non certo di Picelli, naturalmente, perché tutti lo conosciamo, e perché Parma ha saputo ricordarlo in più di un’occasione, con l’affetto e la stima che ha ampiamente meritato. Picelli fu l’anima della rivolta al fascismo, fu l’organizzatore e lo spirito vitale che seppe raccogliere, nella sua figura, l’entusiasmo e la volontà dei popolani di tutti i borghi della città. E fu il catalizzatore che permise di esprimersi a energie che chiedevano solo di trovare un centro in grado di organizzarle.

Ma anche Picelli, senza nulla togliere alla sua figura, difficilmente avrebbe potuto ottenere quei risultati, se al suo fianco non ci fossero stati altri militanti determinati e capaci come lui. Certo meno carismatici di quanto lo fu, tra la sua gente, il deputato parmense, ma sicuramente con capacità e volontà non inferiori. E a Picelli va dato, del resto, anche il merito di averli saputi riconoscere e utilizzare al meglio. Personaggi “minori”, come si sarebbe detto un tempo, ma per noi anarchici, convinti che la libertà può essere solo la conquista collettiva risultante dalla somma di volontà individuali, personaggi altrettanto importanti per i processi di emancipazione sociale, di quanto lo potrebbero essere i cosiddetti leader. E Antonio Cieri, a cui così volentieri dedichiamo questa giornata e questo ricordo, fu indubbiamente uno di loro.

Dell’anarchico Antonio Cieri, fino a pochi anni orsono, si sapeva poco, e la sua figura, pur così importante per la storia di questa città, rischiava «di rimanere sepolta per opera della storiografia antifascista locale, egemonizzata dai comunisti». Fu uno studioso locale, Paolo Tomasi, che ne disseppellì la memoria ricostruendone, per primo, le sconosciute vicende, ma fu poi per opera di un grande amante della sua città e del suo spirito libertario, il compianto Gianni Furlotti, che la sua figura ha potuto uscire dagli ambiti cittadini, per essere conosciuta a livello nazionale. Poi, un altro forte spirito libertario, lo scrittore Pino Cacucci, ne ha ulteriormente diffuso la conoscenza, rievocandolo nel suo bellissimo romanzo storico «Oltretorrente».

La vita di Antonio Cieri, come quella di tanti compagni della sua generazione, fu una vita tormentata e segnata dalla tragicità dei tempi. Ma fu anche avventurosa, ricca di momenti esaltanti, vissuti nella consapevolezza di contribuire, con le proprie azioni, a marcare l’impronta della prima metà del Novecento. Nato nel 1898 a Vasto, nella forte terra d’Abruzzo, milite nella prima guerra mondiale dove fu decorato al valore mostrando già doti organizzative, nel 1920, lasciata la città natale, è ad Ancona, al primo impiego come disegnatore delle Ferrovie. In quegli anni le tensioni sociali generate dal conflitto sono forti e il popolo non vuole più sentire parlare di avventure guerresche. Quando il governo sta per imbarcarsi in una operazione imperialistica, e organizza dal porto di Ancona l’invio delle truppe destinate all’Albania, scoppiano in città forti moti popolari, con l’occupazione di caserme e altri edifici pubblici. Riportata la “calma” con un bombardamento navale, l’anno successivo Cieri, che era stato fra i più attivi organizzatori della protesta popolare, fondando anche una sezione degli Arditi del Popolo, viene trasferito per punizione…. a Parma. Quale città migliore, quale ambiente più idoneo per mettere a frutto e sviluppare le proprie capacità utili a contrastare il nascente fascismo? Entrato in contatto non solo con il numeroso gruppo anarchico locale, ma anche con Picelli e con il suo entourage, lo troviamo fra i protagonisti delle Barricate del 1922. Cieri diventa, in pratica, l’uomo di fiducia, e non solo sul piano “militare”, di Picelli, rivestendo un ruolo determinante nella organizzazione della resistenza alle squadre di Balbo. Sarà lui, infatti, a comandare il settore facente capo a Borgo del Naviglio, considerato il più delicato e il più esposto all’attacco fascista. Ormai parmigiano d’adozione, e non più il “forestiero” abruzzese dei primi tempi, partecipa attivamente alla vita sociale della città, fino al 1925, quando, per sfuggire alle continue minacce dei fascisti giunti al potere, emigra in Francia con la moglie e il figlioletto. Con gli anarchici e gli antifascisti costretti alla medesima scelta, mantiene l’impegno sociale ed organizzativo, e nonostante i numerosi arresti e le continue minacce di espulsione, dà vita, assieme a Camillo Berneri, al quindicinale «Umanità Nova» e ad altre testate libertarie. È anche fra i protagonisti del Convegno di Saurtrouville, un momento decisivo nel processo riorganizzativo del movimento anarchico di lingua italiana in esilio. Allo scoppio della rivoluzione spagnola, nel luglio del 1936, è fra i primi ad accorrere al fianco degli anarchici spagnoli, impegnati sul fronte della lotta al franchismo e nella realizzazione del comunismo libertario. Aggregato alla “mitica” sezione italiana della Colonna Ascaso, ne prende il comando succedendo al conterraneo Giuseppe Bifolchi, abruzzese di Balsorano, fino al tragico 7 aprile 1937, quando, uscito in perlustrazione, viene colpito a morte da un “proiettile vagante”. Numerose saranno le testimonianze, e non solo di parte anarchica, tendenti ad attribuire la sua morte a una spietata esecuzione stalinista, nella scia del “regolamento di conti” che le truppe di Stalin stavano attuando con chiunque non intendesse sottostare alle loro inaccettabili direttive. I suoi imponenti funerali, ricordati in un commosso articolo di «Guerra di Classe», dimostrarono quanto il suo nome fosse ormai diventato familiare al popolo spagnolo. Che volle tributare un immenso omaggio a quel “cittadino del mondo” venuto dalla terra d’Abruzzo a combattere per la sua libertà.

Come si vede da questo breve profilo biografico, la vita di Cieri, come quella degli anarchici della sua generazione, non fu facile. Colpiti dalla reazione fascista e dalla violenza statale, senza poter contare in patria e in esilio su sponde istituzionali, dovettero affrontare, come nemici altrettanto determinati, anche coloro che, per la comune origine socialista, avrebbero potuto essere, almeno, compagni di strada. Ma l’autoritarismo bolscevico, che aveva già dato prova di sé in Russia con la repressione di ogni opposizione, temeva troppo lo spirito libertario e i successi rivoluzionari degli anarchici in Spagna, per non combatterli come il nemico più insidioso per il suo mostruoso sistema di potere. E Antonio Cieri, come tanti altri nostri compagni, fu ucciso due volte. La prima, a tradimento, sui campi di battaglia spagnoli, la seconda, altrettanto a tradimento, nelle pagine di una storiografia di regime, che ne ha cancellato sapientemente e sistematicamente la memoria. Evidentemente agli stalinisti gli anarchici fanno paura anche da morti!

Non sorprende, quindi, se oggi pare aver trovato credito il revisionismo storico che vuole riscrivere, con una lente altrettanto deformante, la storia della lotta del popolo italiano contro il fascismo. Tanti, troppi anni di una vulgata antifascista di regime, superficiale, lacunosa e reticente, potrebbero infatti rendere credibili le fantasiose reinterpretazioni della storia di quegli anni, e accreditare identica dignità sia a chi combatté il nazifascismo, sia a chi, al contrario, alla belva nazifascista diede fino alla fine tutto il suo appoggio. E che vorrebbe equiparare i cosiddetti “ragazzi di Salò”, spesso feroci esecutori degli ordini dell’alleato tedesco, a coloro che si rifiutarono di erogare l’ossigeno a una dittatura finalmente in fase terminale. Antonio Cieri, sicuramente lo avremmo ritrovato fra loro, in montagna, se non avesse concluso prima, in terra di Spagna, la sua lotta contro il fascismo e il sogno di un mondo nuovo. Fu a lungo dimenticato, eppure oggi, a tanti anni di distanza, c’è ancora chi vuole ricordarne la splendida vita. E ci sono ancora dei giovani, e molti sono qui presenti, che si richiamano ai suoi ideali. Sono certo che sia questo il riconoscimento che più lo onora e più gli farebbe piacere!

UNA BREVE NOTA

Questa è la trascrizione del discorso tenuto (nell’ottobre 2006) da Massimo Ortalli per la deposizione di una lapide nell’oltretorrente parmigiano. (db)

Redazione
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  • Un solo appunto :
    “Ma l’autoritarismo bolscevico, che aveva già dato prova di sé in Russia con la repressione di ogni opposizione, temeva troppo lo spirito libertario e i successi rivoluzionari degli anarchici in Spagna, per non combatterli come il nemico più insidioso per il suo mostruoso sistema di potere.”

    Per la verità, ai tempi della guerra di Spagna i bolscevici erano già stati fatti quasi tutti fuori da Stalin (ce lo racconta molto bene Victor Serge in “Memorie di un rivoluzionario”).

  • Alessandra ha ragione. Stalin sterminò l’intero gruppo dirigente bolscevico. Se si prende il comitato centrale del 1917 solo due (la Kollontaj e Zamjatin che scappò in Francia) o forse tre dei molti che erano ancora in vita quandò Stalin porese il potere si salvarono dalle sue purghe. Gli altri e le altre erano spie al servizio del nemico e dunque pagarono. Se la memoria non mi inganna anche Paolo Spriano riporta questo tragico, inoppugnabile elenco. (db).

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