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La Bottega del Barbieri

Apocalyptic pie

racconto di Diego Rossi (*)

Fu quando Travis uccise il bambino che la lunga notte iniziò. Dimenticammo la luce del giorno. Le nuvole divennero nere e cominciarono a divorare la nostra coscienza nello stesso modo in cui avevano fatto col cielo.

Da sessant’anni sfruttiamo le correnti radioattive con le pale elettro-eoliche che ruotano all’orizzonte. Eppure, la mia mente non si è ancora staccata dalla scena di quando tutto è iniziato.

Dio mio, Travis, come hai potuto?

Dio mio, perché non ti abbiamo fermato?

La lunga notte calò sul mondo e da allora il Sole si è sempre rifiutato di sorgere. Prima di prendere sonno il piccolo Charlie mi sorride, è rimasto sempre con me, anche se è solo un fantasma della mia immaginazione.

Travis si era separato da poco dalla moglie, non aveva figli. Era magrissimo, basso. Il viso assomigliava a quello di un vecchio Presidente che twittava ogni sera proclami contro la Cina quando io avevo solo cinque anni. Dodici anni dopo, quando entrai in ospedale, nessuno ricordava più il viso abbronzato e la scarmigliatura di Donald Trump, forse avevano anche rimosso il suo ritratto dalla Casa Bianca. Eppure, la vaga pettinatura e la pelle marrone di Travis me lo aveva riportato davanti agli occhi. Consideravo Travis un bravo medico, ma quel giorno il mondo cambiò per sempre e noi cambiammo con lui. Travis aveva salvato molte vite in sala operatoria, aveva il carisma del grande chirurgo, capace di far calare un velo di ghiaccio sulle sue emozioni con il bisturi in mano. Quando incontrò Charlie non esitò a sacrificarlo, nella sua mente logica era l’unico modo che avesse per ricucire la cicatrice che di colpo si era aperta nel cielo. Da allora non contò più nulla di quello che sapevo di Travis, non potevo più separarmi dalla scena a cui assistetti. Provo vergogna di me stesso perché rimasi a guardarlo senza muovere un muscolo. Travis si accucciò, fuori i rumori dei crolli e delle esplosioni, fissò il bambino e gli disse:

– Charlie, entra nel buco, va’, scendi fino a dove porta la scala.

– Ho paura del buio.

– Segui il condotto fino alla camera uno-uno-sette, ci sono tua madre e tuo padre lì, vai…

Travis aveva scandito i numeri, pensando che Charlie non sapesse ancora leggere bene, ma leggesse abbastanza per riconoscerli. Charlie aveva un’età indefinibile, era gracile, scuro di carnagione, con i lineamenti orientali. Il viso era ovale e il naso era un po’ schiacciato. I capelli bruni gli cadevano davanti. I genitori cercavano di nascondere i suoi occhi a mandorla. I cinesi erano i cattivi in America. Lui assomigliava al nemico.

– Charlie, ricorda di sigillare il boccaporto, una volta uscito devi girare le maniglie due volte, come faccio io.

Glielo mostrò con calma su quello d’entrata, che aveva davanti, badando a non agitarlo; noi pensavamo che fosse un buco troppo piccolo, che non avremmo potuto passare, che là sotto c’erano le macchine e i viveri, poi, oltre il portello 117 c’erano solo le radiazioni e la morte; io ero troppo grosso, ma forse Travis o Pam, una delle due infermiere, avrebbero potuto entrarci.

– Non preoccuparti se farà caldo, se sentirai bruciare la gola, passerà presto. Pensa a chiudere bene le maniglie.

Dietro ogni gesto rassicurante di Travis c’era il male che ci aveva portato fino a quel punto. Ad ogni suo sorriso seducente il bambino cedeva di un passo. Travis lo stava convincendo, gli sfiorò quasi la nuca, ma si ricordò che in Thailandia era un’offesa molto grave. Nella testa risiede l’anima ed è sacra. Gli dette una torcia, unì le mani, provando a ringraziarlo con il wai, il saluto rispettoso della sua gente. Vidi per l’ultima volta gli occhi di Charlie, sbirciavano impauriti da sotto il ciuffo di capelli lisci, abbassati sulla fronte; si infilò nel buco stretto del condotto sotterraneo del bunker e non riemerse mai più.

– Sei un eroe Charlie, stai salvando tutti, corri da mamma e papà, saranno fieri di te – lo incoraggiò.

Fu quel modo lucido di ingannarlo che mi si è appiccicato addosso da allora. Travis credeva di sapere tutto perché era un rinomato chirurgo. Non aveva mostrato emozione quando era suonato l’allarme; vedere New York che si sgretolava non gli aveva fatto perdere la lucidità, né aveva battuto ciglio quando aveva visto i genitori di Charlie schiacciati dal crollo delle arcate di cemento della sala di attesa. Pam e Maelen, le due infermiere avevano salvato il bambino portandoselo dietro, insieme ai ventiquattro neonati del reparto; prima del crollo erano stati possibili tre viaggi, ed eravamo fuggiti tutti nel bunker, sotto l’ospedale. Eravamo stati i soli ad avere il tempo di raggiungerlo. Mi era stato ordinato da Travis di scegliere i neonati più forti, condannando i più deboli. Li portavo due alla volta tirando le culle, prima quelli di quattro chili, poi eravamo scesi a tre chili e duecento grammi. Alla fine, le pareti smosse dall’onda d’urto della seconda bomba ci avevano tagliato la strada. Il monitor di sicurezza aveva rivelato che nel condotto di manutenzione un operaio aveva lasciato aperto il boccaporto di piombo. Si poteva chiudere solo dall’esterno, passando per la sala delle macchine di filtraggio aria, aprendo due botole di appena trentacinque centimetri di diametro.

Durante la crisi cinese, il governo federale raccomandava agli americani di creare dei luoghi antiatomici e dei bunker sotto le case. Ci era stato consigliato di utilizzare più cemento possibile per solidificare le strutture. Anche i nuovi ospedali erano sorti su una fitta rete di bunker sigillati. Noi eravamo lì quando caddero le due bombe, lavoravamo tutti nel reparto ostetrico, tutti tranne Charlie. Con un preavviso di sette minuti lasciammo i casi più gravi e ci rinchiudemmo con i nostri neonati nel bunker. Io portavo solo le medicine, avevo diciannove anni, poi c’erano le due levatrici, Pam e Maelen, infine il primario chirurgo, Travis. Gli altri, l’America, il mondo, forse perduti per sempre.

Il cielo era liquido come l’inchiostro. Senza un domani, il buio aveva accolto la nascita dei nostri figli e continuava ancora per i figli dei nostri figli. Il rimorso per gli errori compiuti risaliva nei fumi di polvere oltre i crepacci e tra gli scheletri di cemento e acciaio dei grattacieli, sbranati dalle esplosioni a fusione. La mente continuava a tormentarmi, pensavo continuamente a Charlie, anche dopo la morte di Travis, di Pam e di Maelen, tornavo sempre a quel giorno maledetto e rimuginavo su come lui ci avesse salvati tutti, uccidendo un bambino.

Sotto la mia guida costruimmo una ciminiera, da lì ogni mattina qualcuno aspettava che il sole tornasse. Non era mai tornato, ed erano trascorsi 30.255 giorni. Alle 6:00 a.m. avviavamo i generatori e la giornata aveva inizio sotto le lampade.

Sulla parete scorticata della piccola cabina da letto, al piano -23 del bunker di New York Er116, c’era il poster rabberciato di quella che un tempo era stata la Terra. Una copertina a colori, sottratta da una rivista e incorniciata, in cui un pianeta blu era visto dallo spazio. Un ritaglio era tutto ciò che Lory, mia nipote, sapeva di come fosse stato una volta vivere qui. Le bombe a fusione avevano cancellato la storia che conoscevamo. I funghi di fumo avevano avvelenato la vita in superficie, la cenere atomica aveva strappato dalla notte le stelle. Soli nel bunker, per noi l’umanità intera era ristretta a sessantotto superstiti, ignorando se esistessero ancora Boston, Washington o Parigi, e per me, Jack Brown, la mia famiglia si era ridotta alla sola Lory, mia nipote. La mia unica aspirazione era quella di farle scoprire un piccolo frammento della bellezza che non aveva mai conosciuto, prima che fosse tutto dimenticato per sempre.

– Il Sole non è sorto nemmeno oggi… – disse rientrando nella cabina Lory. I pochi ragazzi della sua età, undici, ogni mattina salivano all’alba per scoprire se un raggio di luce avesse bucato il cielo. Non ne avevano mai visto uno dal vivo.

– Non è molto diverso dalle lampade – provai a rassicurarla.

Lory si levò la maschera e il casco. Frugava con la forchetta nel barattolo di latta, contemplando la colazione. Un liquido marrone lasciava galleggiare pezzi di pane duro. Il grano, più piccolo di quello che avrebbe dovuto essere, assumeva un colore di fango sporco quando diventava farina. Era cresciuto nei tunnel della metropolitana, alla luce di lampade termiche, in gallerie sigillate e diventate serre.

– Mi porti nel tunnel con te oggi? – chiese Lory, alzando appena il naso dal barattolo.

– E la scuola?

Fece spallucce e restò in silenzio, voleva rispondere “A che serve la scuola” ma si trattenne.

La sirena ci interruppe, suonò e fischiò: era l’allarme. Il colore era “verde” ci guardiamo perplessi.

– Una buona notizia!

– Quale?

Di solito il rosso annunciava un problema molto serio, l’arancione una rogna o una complicazione, ma il verde, lo splendido verde, che non brillava mai sopra la porta della nostra cabina, portava notizie grandiose. I passi nel corridoio si moltiplicavano, battendo sulle ghiere di ferro, molti stavano già correndo.

– Cosa è successo? – chiese Lory, aprendo la porta.

– Abbiamo trovato altri sopravvissuti!

– Il tunnel che stiamo scavando?

– Sì grande Jack, sì! – la giovane ragazza che si era fermata sulla soglia mi aveva abbracciato stretto. Notai che aveva la stessa forma della bocca di una piccola neonata che avevo trasportato nella culla, salvandola. Sua madre era cresciuta sana e forte. Era bello riscoprire la stessa fossetta di sua madre sotto il suo mento. Definiva un viso sorridente che non vedevo da tanto tempo.

– Il tuo tunnel nonno, andiamo? – Lory mi tirava per la manica.

Erano stati aperti nuovi settori, anno dopo anno, rendendo una struttura di media grandezza in continua evoluzione. I grattacieli si protendevano verso l’alto prima del bombardamento. Dopo Travis, sotto la mia guida, scavammo tunnel come talpe, se esistevano ancora le talpe. Il motivo era fondamentale e aveva a che fare con la speranza. La speranza di trovare qualcun altro, la speranza di non essere soli, la speranza di riavere la Terra che avevamo perduto. La speranza di trovare Charlie.

Le facce galleggiavano sui monitor, ricordavano le statue dei corpi pietrificati dall’eruzione di Pompei tremila anni prima. Epoche diverse, lo stesso scenario apocalittico. I social network erano diventati le città dei morti. I libri di storia erano le immagini congelate nei server che ancora tenevamo in funzione. Ora si comunicava a voce, personalmente, pensammo che una certa tecnologia fosse stata la causa della caduta dei nostri ideali. L’unica ingegneria che avevamo mantenuto era quella necessaria a sopravvivere e aveva a che fare con la coltivazione idroponica. L’unico Dio che ci era rimasto era la terra, che ci nutriva e ci avrebbe abbracciato quando sarebbe arrivato il momento. Seminavamo le piante modificate geneticamente. Volevamo affondare le mani nelle viscere di fango e scavare; ma scavavamo anche voragini, come si scava nei sentimenti per scoprire fin dove possono arrivare. Le perforazioni esplorative raggiungevano la profondità di sicurezza di cento metri e poi proseguivano per chilometri e chilometri in orizzontale. Ne avevamo percorsi mille e novantaquattro quando li incontrammo. C’erano altri sopravvissuti al di là del tunnel. Forse anche in Cina c’era qualcuno rimasto vivo. Sarebbe stato un bene o un male?

Le trivelle bucarono il muro proprio nella loro piazza. Avevano realizzato un atrio arcologico per riunirsi. Era però solo un piccolo nucleo di bunker fattoria di dieci famiglie, ed erano sopravvissuti in dodici. – Avranno animali? – mi chiese Lory mentre gli altri ci facevano largo. Sarebbe spettato a me entrare per primo. Ero il loro capo, ero l’ultimo dei vecchi. – Una mucca? Com’è grande una mucca? – mi chiese Lory con le guance arrossate dall’emozione. La fissai, entrando dalla breccia e ripensai a sua nonna.

– Cosa ti manca di più dell’altra vita? mi aveva chiesto una volta Maelen; era diventata la mia compagna e se n’era andata da più di vent’anni.

– L’odore dell’erba tagliata di quando tosavo il prato. Prima di sera, era intenso, fresco. E a te?

– La grande mela.

– New York? – e lei si era messa a ridere in un modo solo suo. Aveva diversi anni più di me, era stata una donna forte, riservata. Aveva perso due figli e un marito nel bombardamento e aveva provato a ricostruirsi una famiglia con me. Ho sempre saputo che mi aveva concesso di arrivare solo fino a un certo punto della strada che conduceva al suo cuore. In certi momenti il suo viso tornava a illuminarsi ricordando il passato. La sua grande mela era proprio un’altra cosa, non aveva proprio nulla a che vedere con New York e mi era tornata in mente mentre entravamo nella piazza dei nostri vicini.

– Grande Jack – mi chiamarono.

Trovammo una forte agitazione dall’altra parte, perché nel loro bunker fattoria stava per venire al mondo un neonato. Ne avevano seppelliti molti di figli perché non sapevano nulla del parto, e quasi tutti i parti erano prematuri. Dentro di me era sopraggiunta una calma irreale, sentivo lo stesso profumo dell’erba tagliata la sera, falciando il prato del giardino in New Jersey. Far nascere i bambini era il nostro talento, era la gioia delle loro grida la ragione che ci aveva fatto andare avanti, la luce dei nostri giorni, che le bombe non avevano ancora cancellato. Ne avevamo tirati su cinque a testa quando rimanemmo soli, io, Travis, Pam e Maelen, la mia Maelen. Non mi fu difficile gestire l’emergenza con naturalezza e allo stesso tempo distrarmi, fissando gli alberi morenti della loro piazza. – Occupatene tu, Lory. – L’incredulità prese presto il posto dell’ansia quando videro una ragazzina chiedere acqua calda, e, aiutata da altre due ragazze più grandi, assistere una donna stremata. Il cordone del neonato era annodato e senza la giusta manovra di rivolgimento un altro figlio sarebbe morto. Le grida scoppiarono come un petardo di carnevale, l’aria stantia dei depuratori entrò nei suoi polmoni. Dopo venti minuti lui respirava avidamente cercando il seno di sua madre.

– Come lo chiameremo, è un maschietto? – chiesero smarriti.

Ci regalarono del burro, due galline e un gallo. Parte dei loro tesori più grandi. Il neonato piangeva, libero e sano. Lo sistemammo in una incubatrice che avevamo rimediato, ma non era emaciato e ce l’avrebbe fatta comunque. Charlie era tornato.

– La grande mela, Maelen – sussurrai al fantasma che custodivo nei miei ricordi.

Nella loro piazza, illuminato dai fari, c’era uno spoglio frutteto. Al centro, appassito, con una sola foglia verde stava un melo malridotto, sotto un groviglio di tubi telescopici; avevano pensato di portare lì la luce del Sole con un ingegnoso sistema di specchi: pulivano le lenti ellittiche per amplificare i bagliori che non erano mai arrivati. Usavano la luce artificiale, ma non avevano perso la speranza. Appena un bagliore di speranza avesse bucato le tenebre lì si sarebbe illuminato tutto. Come noi salivamo ogni mattina sulla ciminiera, loro avevano pensato ai tubi per catturare la luce. Il legno del tronco era rossastro, scorticato. Alla base del melo si aprivano segni di depressioni, dove le radici erano rigonfie. La dissecazione della corteccia aveva alterato il ciclo vitale delle foglie e, quindi, dei frutti. La malattia era causata da un fungo, io sapevo come curarlo. Ci sarebbe voluto un anno, ma “Charlie” era tornato! Tutto era possibile, e io volevo regalargli la grande mela.

Non avevo considerato l’avvizzimento. I primi frutti crebbero piccoli dopo la cura, insipidi e non commestibili. Sulla buccia erano presenti macchie minuscole, che avevano provocato la necrosi delle mele. Passarono altri due anni. Poi il rimedio funzionò. Lory era entusiasta, eravamo vicini al terzo anniversario del nostro primo incontro con gli altri sopravvissuti. La guidavo nei passaggi, e a ogni indicazione ripensavo a Maelen. Prima di addormentarci, nella piccola cabina sigillata che era stata la nostra casa, ci abbracciavamo stretti e lei mi diceva che un giorno l’avremmo preparata insieme – la grande mela. – Useremo il nostro tesoro, al posto dello zucchero. Finiva sempre con questa frase, prima di spegnere la lampada e di lanciare un ultimo sguardo sulla mensola, dove un vaso di miele brillava. Era il miele la nostra ricchezza più grande, il miele capace di durare anche mille anni e sostituire lo zucchero.

Lory aveva preparato il barattolo che avrebbe avuto la funzione di una ciotola. Mise la farina, un pizzico di sale e mi fissò per capire quanto miele dovesse aggiungere. Rise quando mi guardò stringermi nelle spalle. Ridemmo insieme a lungo. Lory sbucciò e tagliò il torsolo a tutte le mele e le ridusse in cubetti. Alla fine la “grande mela” era pronta.

Charlie stava seduto proprio al centro della tavola di metallo. Le lampade erano spente, nella semioscurità vide avanzare tre candele. Sulla Apple Pie le tre fiamme brillavano fioche, silenziose e stupefatte, come eravamo noi tutti, cogliendo il profumo di… – Un dolce, questo è un dolce vero – disse una voce dal fondo. Tutto il dolore era spinto lontano, in profondità, grazie alle tre piccole candele accese sulla sua grande mela, Maelen me l’aveva descritta così nei suoi sogni. Non c’era glassa, ma andava bene come torta di compleanno, nessuno aveva mai avuto una torta di compleanno da quando il mondo era finito. Lory disse quella frase, porgendo sotto una bolla di luce la prima fetta a Charlie, con il viso ramato scolpito dalla fiamma.

– Non c’è abbastanza oscurità in tutto l’universo da spegnere la luce di una sola candela.

I tre piccoli fuochi sfidarono e definirono le tenebre nello stesso modo in cui aveva sfidato il tempo una frase tratta da un vecchio libro. Charlie giocava, Lory si occupava di lui come se fosse stato un fratello. Per me era giunto il momento, lei avrebbe preso il mio posto, l’ultimo assassino rimasto sarebbe andato via.

– Dov’è grande Jack? – chiese con un filo di voce Lory, ma i tre ragazzi nel corridoio si limitarono ad abbassare lo sguardo. Aveva letto la lettera che le avevo lasciato e sapeva benissimo che ero partito. Anche se non voleva crederlo, anche se non poteva accettarlo, sapeva benissimo che per me era giunto il momento. Da quando avevo sentito acuirsi i dolori alla schiena, da quando avevo cominciato a zoppicare avevo programmato tutto. A un certo punto gli anziani o i malati decidevano di uscire dal bunker per non gravare sulla comunità. Andavano via smaltendo rifiuti pericolosi, o compiendo dall’esterno lavori di manutenzione troppo lunghi, che gli altri non avrebbero mai potuto compiere con le tute. Lory si arrampicò sulla ciminiera, aveva la maschera e il casco, gridò con tutte le forze – Nonno! – Sentii la sua voce spandersi nella notte, liquida e silenziosa. Le sue parole si infransero su un muro, nero e impenetrabile. Poi qualcosa avvenne. Una striscia rossa tagliò la coltre di nubi. Un disco arancione, abbagliante, saliva e i polmoni di Lory si erano svuotati dalla commozione, non riusciva a credere ai suoi occhi. Il filo rosso del risveglio del mondo si annodava all’orizzonte, arrampicandosi sulla breccia che bucava le nuvole. I raggi forarono il cielo, tremendi, ridavano consistenza alle cose; ombre di macerie e di scheletri della civiltà dimenticata emergevano dall’oscurità. Le rovine riacquistarono poco a poco i colori. Lory mi vide dall’alto, stavo riparando uno dei condotti di purificazione dell’acqua. Ero a quattrocento metri, sotto di lei. Mise a fuoco le lenti del visore.

Il dolore della pelle fusa dalle radiazioni mi mordeva i polpacci, la carne bolliva. Alzai lo sguardo e salutai mia nipote, trattenendo il respiro e facendo finta di niente. Lory sarebbe stata una buona guida. Continuai a riparare la crepa del condotto, tra le mani il saldatore scintillava. Lo vedevo con chiarezza, senza il bisogno della torcia del casco. Mi sentii felice, perché avevo rivisto il Sole; il Sole o qualcun altro, ancora più su, mi stava perdonando. Non potevo deconcentrarmi, ero già molto stanco.

Nello stesso momento Charlie correva nella piazza; dai lunghi tubi intrecciati compariva una pioggia di colori, fioriva sugli zampilli dei getti d’irrigazione. – Il Sole è tornato! – gridava la gente in festa nei tunnel mentre la prima alba risvegliava il mondo, dopo sessantatré anni. La madre di Charlie si affrettò a fare un disegno. Tracciò un arco con gli unici tre colori di cui disponeva nell’album del bambino. Nessuno le aveva ancora insegnato a riconoscere un arcobaleno.

Tutti i diritti riservati ©2021 Diego Rossi e Associazione Delos Books


(*) ripreso da www.fantascienza.com

DIEGO ROSSI Sono un fisico, classe ‘75. Sono un appassionato di fantascienza, mi piace leggerla, immaginarla e, dal 2020, provare a raccontarla. Ho pubblicato sulla “Bottega del Barbieri” il racconto “Anja 44i”, per Watson “Il cane verde”. Su “Nuove-Vie” ho proposto “Radio GA GA” e il racconto lungo “La sonata di Wolf”. Su “Altre Dimensioni” ho condiviso il racconto “No time for love like now”, ispirato alla canzone di Stipe. Sono molto felice che “Apocalyptic Pie”, il primo racconto di fantascienza che ho scritto per mio figlio piccolo, compaia per la prima volta proprio su Delos.

danieleB
Un piede nel mondo cosiddetto reale (dove ha fatto il giornalista, vive a Imola con Tiziana, ha un figlio di nome Jan) e un altro piede in quella che di solito si chiama fantascienza (ne ha scritto con Riccardo Mancini e Raffaele Mantegazza). Con il terzo e il quarto piede salta dal reale al fantastico: laboratori, giochi, letture sceniche. Potete trovarlo su pkdick@fastmail.it oppure a casa, allo 0542 29945; non usa il cellulare perché il suo guru, il suo psicologo, il suo estetista (e l’ornitorinco che sonnecchia in lui) hanno deciso che poteva nuocergli. Ha un simpatico omonimo che vive a Bologna. Spesso i due vengono confusi, è divertente per entrambi. Per entrambi funziona l’anagramma “ride bene a librai” (ma anche “erba, nidi e alberi” non è malaccio).

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