Per la libertà di cinque prigionieri politici per il massacro di Curuguaty, Paraguay, in sciopero della fame da oltre cinquanta giorni

tratto da Rinascita del 16 marzo 2014

In calce all’articolo una lettera di Fabricio Arnelia da Barcellona che esprime solidarietà ai campesinos.

Il silenzio su chi protesta per i propri diritti è, di questi tempi, proporzionale alla vicinanza dei protagonisti ai cosiddetti “paesi democratici”, quelli del nostro emisfero e schierati con “l’Occidente”.

images

Il silenzio su chi protesta per i propri diritti è, di questi tempi, proporzionale alla vicinanza dei protagonisti ai cosiddetti “paesi democratici”, quelli del nostro emisfero e schierati con “l’Occidente”. Così, se fino alla sua arbitraria liberazione una oligarca come Yulia Timoshenko – responsabile di aver sottratto grosse quantità di denaro all’Ucraina – veniva dipinta come una povera perseguitata politica, i palestinesi, anche bambini, rinchiusi nelle carceri israeliane, molti dei quali hanno fatto e fanno scioperi della fame, non vengono degnati del minimo interesse da parte dei media mainstream. Figuriamoci se a scioperare sono persone che vivono nell’emisfero “sbagliato”, in un paese il cui governo contro cui si protesta è legato proprio all’“occidente democratico”. Silenzio. Per questa ragione ben poco, anzi nulla, si sa dalle nostre parti dei cinque hungerstrikers del Paraguay, uomini che hanno scelto lo sciopero della fame come strumento di protesta. Néstor Castro, Rubén Villalba, Adalberto Castro, Felipe Benítez Balmori e Arnaldo Quintana vennero arrestati nel luglio 2012 in seguito al massacro di Curuguaty, tragedia avvenuta all’interno della riserva forestale Marina Kue, a circa 320 chilometri al nordest di Asunción. I cinque, oggi rinchiusi nel carcere di Tacumbú, sono arrivati a un mese di sciopero e intendono arrivare alle estreme conseguenze se non verrà fatta giustizia sul loro caso. Ma dobbiamo fare un passo indietro per spiegare le ragioni di questa vicenda. Torniamo nelle terre di Marina Kue la mattina del 15 luglio del 2012. Parliamo di aree coltivabili che erano state destinate a famiglie e comunità campesine, ma poi per ragioni che in America latina appartengono alla consolidata “tradizione” della prepotenza latifondista erano state rivendicate da un grosso imprenditore, guarda caso legato al partito da sempre al governo del Paese. Ma torniamo ancora più indietro nel tempo: nel 1969 l’impresa Industrial Paraguaya donò questi 2.000 ettari di terra allo Stato, che decise di insediarvi un corpo dell’esercito, fino a che nel 2004 il governo in carica decise di destinarli all’organismo statale Indert (Istituto Nazionale di Sviluppo Rurale della Terra), per includerli nella riforma agraria e far sì che in quelle aree venissero stanziati i contadini locali. Ma ecco entrare in gioco Campos Morombí, azienda proprietà di Blas Riquelme, imprenditore e ex presidente del Partido Colorado, il partito di destra che da sempre guida incontrastato il Paraguay e esprime il capo dello Stato, tranne la parentesi iniziata nel 2008 (e finita nel 2012 proprio in seguito ai fati di marina Cue) con l’ex esponente della Teologia della Liberazione Fernando Lugo. I governi succedutisi nel Paese, tutti in mano al Patido Colorado, per ragioni sconosciute ma facilmente immaginabili vista l’appartenenza di Riquelme allo stesso partito di centrodestra, non portarono avanti le procedure legali con cui ufficializzare l’accettazione delle terre cedute allo Stato, mentre il latifondista le occupava con le sue aziende. Nel 2005 l’Indert decise di iniziare a fare i rilievi sulle terre che gli erano state affidate per poterle destinare ai contadini locali. A quel punto Riquelme avviò una procedura legale per usucapione affermando che da più di 20 quelle zone erano sfruttate dalla sua azienda. Una procedura, a detta dello stesso Indert, caratterizzata da irregolarità, oscuri interventi giudiziali ed influenze politiche. Ad oggi la decisione sul destino delle terre è nelle mani della Corte Suprema del Paraguay che ancora non si è pronunciata sulla proprietà dei terreni. Nel 2012, su richiesta presentata ufficialmente dallo Stato durante il governo del presidente Fernando Lugo, l’Indert stava quindi portando avanti i procedimenti amministrativi affinché i 2.000 ettari fossero destinati legalmente alla riforma agraria. Un atto che urtò con i voleri del “colorado” Riquelme che utilizzava quelle terre illegalmente. I campesinos consideravano – e considerano – quelle terre come proprietà dello Stato e per questo motivo tentarono più volte di occuparle. Ogni volta, prima di essere sgomberati con la forza i campesinos pretendevano di vedere i titoli di proprietà che secondo Riquelme (morto nel settembre 2013) gli attribuivano l’esclusiva proprietà delle terre. Titoli che ovviamente non esistevano. I campesinos occuparono e vennero sgomberati cinque volte prima della tragedia del 15 luglio 2012. Quel giorno erano per l’ennesima volta entrati nelle terre e avevano richiesto di vedere i titoli di proprietà del latifondista che ne reclamava la proprietà, in quel momento il presidente era Fernando Lugo, per la prima volta un capo dello stato non espressione del Partido Colorado, un ex vescovo esponente della Teologia della Liberazione vicino alle istanze di poveri e campesinos. I contadini speravano quindi in un dialogo ma si trovarono di fronte a un commando di 324 poliziotti del Gruppo Operazioni Speciali che entrò nelle terre “con l’ordine inequivocabile di tirarli fuori da li”. “Alcuni poliziotti avevano pistole ed altri armi lunghe” hanno raccontato alcuni testimoni oculari. La gente si difese con i mezzi di cui disponeva, fionde e fucili da caccia. Il bilancio fu di undici contadini e sei poliziotti uccisi. L’indagine giudiziaria venuta dopo delineò subito un quadro “fantasioso” a tutto vantaggio delle forze di polizia: secondo il pubblico ministero 70 tra contadini e contadine, tra essi alcuni minorenni di età, avrebbero teso un’imboscata con fucili da caccia a 324 poliziotti pesantemente armati. Lo stesso magistrato ha riconosciuto che non è stato possibile determinare chi ha ucciso chi, né identificare chi presumibilmente deteneva armi il 15 di giugno. Il rappresentante della procura ha citato solo i dati della perizia balistica secondo i quali cinque dei sei poliziotti morirono per ferite da colpi di fucile calibro 12 e 28; mentre uno perse la vita a causa di un proiettile calibro 38. Riguardo gli 11 contadini, senza fornire dati ulteriori su armi né proiettili utilizzati, ha affermato che vennero uccisi dai poliziotti, i quali si difesero “usando solo le armi regolamentari”. Non sono mai state fatte autopsie sui cadaveri e nessuno tra i superstiti è stato mai sentito come testimone, in compenso ci sono state detenzioni arbitrarie di persone che nemmeno erano sul luogo al momento dei fatti. E ancora, il dirigente campesino Vidal Vega è stato ucciso con 22 colpi di arma da fuoco mentre stava collaborando con alcune organizzazioni civili che conducevano una inchiesta parallela a quella della procura. Dei giudici incaricati di seguire il caso uno è stato allontanato per lo scarso impegno nelle indagini e un secondo è stato ricusato dalla difesa per noti legami con la famiglia Riquelme. In molti in Paraguay affermano che il massacro fu in realtà una montatura, o meglio, un vero massacro ma scatenato ad arte per togliere di mezzo il presidente Lugo. Fu, in pratica, il primo atto del colpo di Stato “morbido” contro l’ex vescovo, deposto con un “impeachement” dal suo stesso parlamento con l’accusa di avere la responsabilità del precipitare dei fatti a Marina Cue. Sono passati quasi due anni dal violento sgombero di quelle terre e ad essere inquisiti per il massacro sono stati solamente i campesinos, cinque dei quali sono rinchiusi in carcere. Felipe, Adalberto, Néstor, Rubén ed Arnaldo per protestare contro le accuse ingiuste e la loro detenzione e la sottrazione delle terre hanno iniziato un sciopero della fame che intendono portare alle estreme conseguenze: “Siamo imprigionati senza che la procura abbia presentato una sola prova seria che dimostri la nostra colpevolezza nel Caso Curuguaty. Proseguiamo la lotta, in omaggio a nostri undici compagni caduti e fino a quando otterremo la liberazione delle terre per i contadini poveri”, hanno scritto i cinque in una lettera resa pubblica nei giorni scorsi. Mariano Castro, padre di Néstor ha ricordato che suo figlio “fu ferito alla bocca il 15 giugno con una pallottola della polizi
a, ma solo il 23 novembre venne operato in un ospedale pubblico dove gli venne impiantata una protesi mascellare inferiore affinché potesse mangiare alimenti solidi”. Lo scorso 10 marzo anche alcuni rappresentanti della Chiesa cattolica del Paraguay hanno chiesto alla Corte Suprema di Giustizia che disponga gli arresti domiciliari per i cinque carcerati in sciopero della fame. La petizione è stata diretta al presidente della Corte, Raúl Torres, dal vescovo della diocesi di Ñeembucú, Mario Medina, e dai familiari delle vittime del massacro. Una fonte di Articulación Curuguaty, associazione che appoggia i campesinos incriminati del massacro, ha reso noto che è stato chiesto a Torres l’avvio di “un’azione giuridica per definire la proprietà delle terre prima del giudizio contro le persone accusate”. Tra le altre rivendicazioni, infatti, i carcerati in sciopero della fame chiedono di non essere giudicati fino a che non verrà chiarità la proprietà della riserva. Come altri sei incriminati che ora stanno ai domiciliari, infatti, i cinque sono accusati di omicidio doloso, associazione criminale ed invasione di immobile altrui. La Procura ha quindi considerato di fatto le terre come se fossero di proprietà di Riquelme, il che è in contrasto con quanto ancora deve essere stabilito dalla Corte Suprema. La speranza che tutto si risolva a favore dei campesinos tuttavia è ridotta al lumicino. Parliamo infatti di un Paese nel quale il Partido Colorado, tornato al potere dopo la destituzione forzata e arbitraria di Fernando Lugo, ha un potere pressoché assoluto. In Paraguay l’85% del territorio è in mano al 2,6% dei grandi proprietari terrieri, molti dei quali stranieri. La popolazione di Curuguaty ne è un esempio: si trova nel dipartimento di Canindeyú, vicino al Brasile, uno dei dipartimenti nel quale si concentra il maggiore numero di proprietari stranieri di terra, principalmente brasiliani, i quali non esitano a cacciare dalle terre i contadini per destinarle alle loro imprese, che a loro volta hanno ottenuto le aree dallo Stato a prezzi irrisori. In Paraguay è sempre andata così, per questo la presidenza di Lugo veniva considerata “pericolosa” e il massacro di Curuguaty venne usato per provi fine. Lo dimostra il fatto che oggi, tornato al potere il Partido Colorado, l’attuale presidente Horacio Cartes non esita a invitare allo sfruttamento delle terre paraguayane disinteressandosi completamente dei diritti dei campesinos. A fine febbraio scorso, di fronte a un centinaio di impresari brasiliani invitati a investire in Paraguay, con un discorso in portoghese Cartes li esortò così: “Usino ed abusino del Paraguay, perché è un momento importante di opportunità”. E non era stata nemmeno la prima volta che Cartes faceva affermazioni questo genere, poco tempo prima e sempre di fronte a investitori stranieri aveva definito “Il Paraguay è come una donna facile e bella”. Così il Partido Colorado “sponsorizza” il Paese, considerato alla stregua di un bene privato del quale disporre a piacimento. Completamente disinteressati rispetto alle condizioni di vita della popolazione: un recente studio del Programma Alimentare Mondiale colloca il Paraguay al livello di Kenia, Angola, Namibia e Zimbabwe, Paesi dove si rilevano gli indici alimentari più bassi del mondo. Il 25,5% della popolazione paraguaiana ad oggi è sottonutrita. Mentre il Partido Colorado pensa a svendere il Paese.
J.V.

Lettera da Barcellona di Fabricio Arnelia, militante per la libertà dei prigionieri politici per aver lottato, della Gioventù Comuinista Paraguaiana e del Frente Guasu.

Queridos Felipe, Néstor, Adalberto, Rubén y Arnaldo, compañeros presos de Curuguaty en huelga de hambre:

A propósito de la carta en la que han manifestado que atribuyen la responsabilidad de lo que les pueda pasar, tanto al Estado paraguayo como a la familia Riquelme; y cumplidos ya cincuenta días de la huelga de hambre, desde el colectivo de paraguayos residentes en la ciudad de Barcelona: “Paraguay Resiste”, nos declaramos cabalmente de acuerdo con ustedes en responsabilizar a ambos sectores de cualquier desenlace trágico, al tiempo de enviarles la más cálida, fraterna y sentida solidaridad.

Desde lo insignificante que resulta lo que se puede hacer en la distancia de una ciudad del llamado “primer mundo”, frente al ejemplo de ustedes que arriesgan su vida por la causa de la justicia en el Paraguay; consideramos pertinente y necesario expresarles que la manera en la que están resistiendo, ante la total indiferencia de los que siguen vendiendo y destruyendo a nuestro país, constituye uno de los actos más conmovedores para cualquiera que entienda mínimamente que no se hace Patria sin tierra para todos en el Paraguay.

Entre tanta resistencia de la clase campesina, son ustedes, desde hace más de cincuenta días, la más vívida muestra de que se ha iniciado una batalla ya sin retorno por la vida; una batalla del verdadero pueblo paraguayo que por la vida ha decidido enfrentarse a la muerte. Ojalá muy pronto más gente pueda darse cuenta de lo que ustedes significan.

Quizás en más de una ocasión, han pensado si vale la pena este inmenso sacrificio, quizás no, quizás el miedo para ustedes ya no existe, eso sólo lo saben ustedes. Lo que sí sabemos nosotros es que, con el respeto absoluto que tenemos por su decisión, en medio de tanta muerte ya sembrada por este modelo de país que nos han impuesto, en medio de tanta infamia; ustedes han decidido llevar sobre sus hombros el destino de todo un país.

Todos los actos más grandes de nuestro pueblo, desde la resistencia de los pueblos indígenas que lleva más de cinco siglos; la defensa en la Guerra de la Triple Alianza de la Patria construida por el Dr. Francia y por López, la lucha contra la dictadura entreguista de Stroessner, el marzo paraguayo; todo aquello que parece dormido en la memoria, resucita para demostrarnos que nunca nos venderemos; resucita hoy en cinco nombres: Felipe, Néstor, Adalberto, Rubén y Arnaldo. Aunque este sacrificio suyo no termine en tragedia, como lo deseamos todos los que los amamos; ya sus nombres están grabados en la historia libre de ignominias que escribirá nuestro pueblo.

Compañeros, la lucha que se está desarrollando contra la guerra silenciosa de descampesinización, la lucha por la tierra, la soberanía alimentaria, la lucha por la defensa de los recursos naturales, por la autonomía, no es sólo una lucha paraguaya, es una lucha del mundo, y está empezando a interesar a cada vez más gente de otros sitios como el lugar en que residimos.

Por eso reflexionamos que el campesinado de un paisito desconocido, representado con más fuerza desde hace cincuenta días en ustedes; es hoy uno de los bastiones que quedan en la lucha por un mundo y un tiempo nuevos. Seguramente son conscientes de eso, pero es importante para nosotros recordarles lo inmenso y hermoso de su lucha. Ustedes son parte de los primeros destellos del inicio del fin de una larga noche.

Desde el otro lado del océano, pero unidos a ustedes por un indestructible lazo de sangre, historia y esperanza, abrazamos a nuestros héroes.
Aderiscono dall’Italia e dal Perú

Hugo Blanco Galdós, dirigente rivoluzionario, direttore di Lucha Indigena
Gaia Capogna
Francesco Cecchini, scrittore
Daniele Barbieri, giornalista
David Lifodi, giornalista

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

Un commento

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *