Aprire la scuola al mondo

tratta da Fridays for Future Deutschland

di Francesco Gesualdi

 

A Barbiana ho imparato che il compito della scuola è formare cittadini sovrani. Un’arte delicata che si attua fornendo ai ragazzi tre strumenti fondamentali: la conoscenza, la capacità di esprimersi, il pensiero critico. La conoscenza per capire fatti e  meccanismi. La capacità di esprimersi per comunicare le proprie opinioni e capire quelle altrui. Il pensiero critico per giudicare la realtà e individuare strategie di cambiamento. Dal che se ne deduce che la scuola deve saper essere al tempo stesso luogo di apprendimento, luogo di osservazione e luogo di discussioneDeve esserci il tempo per imparare le materie classiche della geografia, delle scienze, della matematica, ma anche il tempo per conoscere l’attualità e potersi interrogare e confrontare non solo fra allievi e insegnanti, ma anche col mondo circostante. Per questo la scuola non va concepita come un luogo chiuso, ma aperto a tutta la collettività.

Il quesito – il ruolo della scuola di fronte alle sfide del mondo di oggi – si inserisce perfettamente in questa concezione della scuola. Oserei dire che va oltre: è il tentativo di aiutare i ragazzi a individuare i problemi che domani dovranno risolvere quando ormai saranno cittadini sovrani fuori dalla mura scolastiche. Un compito che la scuola potrà assolvere affrontando tre aspetti: 1) le problematiche esistenti; 2) i meccanismi che li hanno generati; 3) i cambiamenti da introdurre.

Le problematiche

L’analisi di questa sezione necessita due premesse. La prima è che oggi gli spazi si sono espansi, per cui non si può più limitare l’attenzione alla sola dimensione locale o nazionale. Neanche quella continentale è più sufficiente. La tecnologia e l’economia ci hanno proiettato in una dimensione globale ed anche le problematiche che si sono create sono di livello mondiale.

La seconda premessa è che le problematiche si sono espanse per varietà. Un tempo erano riconducibili a tre ambiti principiali: politico, economico e sociale. Oggi se ne è aggiunto un quarto: l’ambito ecologico, che aggrava gli altri tre e rende la loro soluzione sempre più difficile. Il che indica che un compito fondamentale della scuola è educare i ragazzi alla mondialità e alla complessità.

Di tutte le problematiche esistenti ritengo che tre di esse siano particolarmente importanti per il tempo che stiamo vivendo. Si tratta della povertà, delle disuguaglianze e della crisi ambientale. Il futuro dell’umanità dipenderà dalla capacità che avrà di dare soluzione a questi tre flagelli, per cui non possono assolutamente essere ignorati dalla scuola.

La Banca Mondiale usa solo termini monetari come indicatori della povertà, per cui definisce povertà assoluta la condizione di chi vive con 1,9 dollari al giorno e povertà relativa quella di chi vive con meno di 3 dollari al giorno. Nel primo gruppo inserisce734 milioni di persone, nel secondo due miliardi di persone. Ma la povertà è una realtà molto più sfaccettata che non si rappresenta solo con i soldi che si hanno per vivere. Per questo l’UNDP, Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo, assieme a una commissione dell’Università di Oxford (OPHI), ha messo a punto un nuovo metodo di definizione della povertà non più basato su parametri monetari, ma sulle reali condizioni di vita. Il metodo, definito Indice di povertà multidimensionale, analizza aspetti concreti del tenore di vita: stato nutrizionale, salute e aspettativa di vita, servizi igienici, disponibilità di energia elettrica e di acqua potabile, livello di istruzione. Chiunque mostri carenze gravi anche solo in alcuni di questi ambiti è definito povero multidimensionale. Da questo punto di vista il numero dei poveri sale ulteriormente. Basti dire che le persone senza servizi igienici sono all’incirca 2 miliardi e mezzo. Come dire che quasi il 35 per cento della popolazione mondiale vive una qualche forma di povertà. La geografia sociale è il tipo di geografia su cui la scuola dovrebbe insistere di più informando i giovani che la povertà è ormai diventato un fenomeno che riguarda tutti i paesi del mondo, compresi quelli europei. In Spagna 11,8 milioni di persone (25 per cento della popolazione) si trovano a rischio di povertà o esclusione sociale.

Il sistema cerca di convincerci che la povertà, come la fame e tutte le altre privazioni, sono frutto di una insufficiente produzione di beni. In realtà dal 1900 ad oggi la ricchezza prodotta a livello mondiale è aumentata 32 volte, ma la povertà è ancora a livelli scandalosi. Il problema dunque non è la produzione, ma la distribuzione. La statistiche dimostrano che la ricchezza è distribuita male a tutti i livelli: fra nazioni e fra classi.

Il confronto fra nazioni dimostra che andiamo da paesi come il Lussemburgo con un reddito pro capite di 120mila dollari al Burundi con un reddito pro capite di 274 dollari. E se guardiamo alla distribuzione della ricchezza mondiale per fasce di popolazione, troviamo che il 20 per cento più ricco si appropria di circa l’80 per cento della ricchezza prodotta annualmente, l’ultimo 20 per cento non arriva neanche al 2 per cento. Del resto se ci concentriamo sulla ricchezza accumulata sotto forma di beni mobili e immobili, le disuguaglianze sono ancora più scandalose. L’ultimo rapporto di Credit Suisse rivela che il 10 per cento della popolazione mondiale detiene l’85 per cento di tutta la ricchezza privata mondiale. L’1 per cento da solo ne detiene il 46 per cento. Per contro il 50 per cento più povero si ferma all’1,3%.

La scuola farebbe bene a dire ai giovani che le disuguaglianze sono un problema molto acuto anche in Europa. Nel 2014 in Spagna il 20 per cento delle famiglie più ricche possedeva quindici volte di più del 20 per cento più povere. Nel 2017 la differenza era salita a 28 volte, in base a quanto afferma il Banco de España.

Le stesse disparità che si incontrano nell’ambito della distribuzione della ricchezza si ritrovano anche nell’ambito opposto: la produzione di rifiuti che sono una componente determinante di un’altra grave crisi che è quella ambientale. Crisi che si manifesta sotto due aspetti: assottigliamento delle risorse e accumulo di rifiuti.

Fra le risorse più a rischio abbiamo l’acqua, la terra fertile, le foreste, ma anche i minerali. Quanto ai rifiuti quelli che più minacciano la nostra esistenza sono le plastiche e l’anidride carbonica. Le plastiche perché stanno compromettendo la vita degli oceani, l’anidride carbonica perché sta compromettendo il clima con una molteplicità di conseguenze a catena che possono rendere l’esistenza molto difficile. Va detto, tuttavia, che i cambiamenti climatici non avranno gli stessi effetti ovunque. Alcune regioni possono addirittura trarne vantaggio. Le aree del Sud del mondo sembrano essere quelle più esposte ai danni derivanti dai cambiamenti climatici che si presentano in alcune regioni sotto forma di aridità, in altre sotto forma di eccesso di acqua. Fra le aree destinate ai danni da aridità c’è l’Africa mediterranea e sub-sahariana che sta già registrando una riduzione di piogge con inevitabili conseguenze sull’agricoltura e quindi sulla sicurezza alimentare. L’Asia Meridionale è l’altra grande area dove i cambiamenti climatici produrranno gravi conseguenze sia in ambito agricolo che sociale, ma per ragioni opposte a quelle dell’Africa. In questa zona si assisterà a monsoni caotici e violenti che provocheranno vaste inondazioni e distruzione selvaggia di tutto ciò che i venti trovano sul proprio tragitto. Fenomeni che paradossalmente produrranno anche scarsità di acqua potabile, perché le inondazioni dreneranno nei fiumi fertilizzanti e altre sostanze chimiche che avvelenano le loro acque. Contaminazione aggravata dall’innalzamento del livello del mare che allagherà i campi con acqua salata compromettendo irrimediabilmente la loro fertilità.

Un’area fortemente a rischio di inondazione è il Bangladesh. Secondo alcune previsioni, da qui al 2050, in Bangladesh i cambiamenti climatici potrebbero costringere una persona su sette ad abbandonare la propria casa, per un totale di 18 milioni di sfollati.

A livello globale la Banca Mondiale stima che da qui al 2050 potremmo avere 250 milioni di sfollati per disastri naturaliMolti di loro cercheranno rifugio anche in Europa senza sapere se troveranno muri o accoglienza. L’atteggiamento che i cittadini europei avranno verso di loro dipenderà in gran parte dal sentimento di accoglienza che la scuola avrà coltivato in loro e da quanto saranno stati informati sul grado di responsabilità che noi occidentali abbiamo rispetto al verificarsi dei disastri naturali. Quello del Bangladesh sarà uno dei popoli maggiormente colpito dai cambiamenti climatici, ma se andiamo a guardare quanto ha contribuito a creare il problema, scopriamo che la sua responsabilità è molto scarsa, forse nulla. In effetti i bengalesi producono appena 0,51 tonnellate di carbonio all’anno, una quantità cinque volte più bassa di quella che ognuno di noi potrebbe emettere per essere in equilibrio con le capacità del pianeta.

La realtà dunque è che il Sud del mondo paga per un inquinamento di cui non ha colpa. E lo dicono i numeri. Gli Statunitensi hanno un’emissione pro capite di 16 tonnellate di carbonio, i giapponesi 9 tonnellate, gli spagnoli 5,5, gli indiani 1,8. Ma le comparazioni fra nazioni, sono sempre poco rappresentative della realtà. Gli indiani esistono come categoria politica, forse linguistica, non certo sociale, perché fra il paria e il maragià non c’è niente in comune. Socialmente parlando il paria indiano è più vicino al disoccupato europeo che al maragià del suo paese, come il maragià è più vicino al miliardario statunitense che al paria del suo paese.

In effetti oggi esiste una categoria di privilegiati di lingue e paesi diversi accomunati dal fatto che il loro patrimonio supera i 520 milioni di euro. Sono appena il 10 per cento della popolazione adulta mondiale, ma posseggono all’incirca l’80 per cento della ricchezza privata globale. Al contrario il 50 per cento più povero detiene poco più dell’1 per cento della ricchezza esistente. Disparità che si riflettono anche nei livelli di inquinamento: il 10 per cento più ricco è responsabile del 49 per cento delle emissioni di anidride carbonica, il 50 per cento più povero emette appena il 7 per cento.

Le cause

Potremo capire il perché della catastrofe sociale e ambientale solo se mettiamo a fuoco che ci troviamo in un sistema predatorio al servizio dei mercanti. La scuola non può più avere un atteggiamento neutro rispetto al capitalismo o ancor peggio farsi suo portavoce. Per onestà deve denunciare con forza che si tratta di un sistema organizzato per permettere alle imprese di guadagnare il più possibile in un’ottica di accumulo. Di qui tutta la sua impostazione che fa del profitto l’obiettivo individuale, del mercato la strategia di funzionamento, della crescita l’obiettivo di sistema. E sono proprio mercato e crescita i due aspetti che stanno alla base della crisi sociale e ambientale che stiamo vivendo. Il mercato per la crisi sociale. La crescita per la crisi ambientale.

Il problema del mercato è che divide la gente in due: gli utili e gli inutili. Gli utili sono quelli che hanno dei soldi da spendere. Gli inutili tutti gli altri. I primi li coccola, li circuisce, addirittura ha interesse ad arricchirli ancora di più affinché possano comprare sempre più. I secondi, invece, li esclude, addirittura ha interesse ad impoverirli privandoli anche del poco che hanno. La categoria degli inutili si può dividere ulteriormente in tre sottogruppi. Il primo è quello degli impoveriti, una massa di due miliardi di persone di cui tutti si sbarazzerebbero volentieri perché considerati solo zavorra. Il secondo gruppo è quello degli sfruttati: braccianti, contadini e operai che stanno dentro al sistema solo come manodopera da sfruttare. Il terzo gruppo, infine, è quello degli autosufficienti, gente, cioè, che riesce a vivere di autoproduzione senza  entrare mai in un negozio o in un supermercato. Si tratta di piccoli contadini, pescatori, abitanti della foresta che vivono lavorando un pezzetto di terra, pescando nel mare che bagna la loro costa, raccogliendo i frutti della natura. È proprio contro di loro che il sistema si accanisce di più perché se da una parte non hanno soldi per comprare, dall’altra hanno la colpa di basare la propria sopravvivenza su risorse che possono essere utilizzate dai mercanti per produrre beni da vendere a ricchi consumatori lontani.

Per convincercene basta guardare agli indigeni dell’Amazzonia che sono buttati fuori dalle loro foreste quando si scopre che nel loro sottosuolo ci sono dei minerali o del petrolio da saccheggiare. Basta guardare ai pescatori delle coste africane che non riescono a pescare più un pesce perché i grandi pescherecci stanno facendo razzia. Basta guardare ai contadini dell’isola di Santo Domingo che sono derubati dei loro terreni al fine di costruirci alberghi e campi da golf per i turisti europei.

E sono proprio questi fatti che ci permettono di dettagliare meglio i processi di impoverimento in sei meccanismi concreti: disoccupazione, salari bassi, esproprio di terre, iniquità fiscale, cattivo uso delle risorse pubbliche, debito pubblico.

La scuola deve spiegare ai ragazzi che la logica di mercato ha la sua dose di responsabilità anche per ciò che concerne il deterioramento ambientale. Il collegamento risiede in due ragioni: nel concetto di valore adottato dal mercante e nella sua ossessione per la crescita. Per quanto concerne il concetto di valore, nella logica mercantile le cose non hanno valore per il servizio che svolgono, ma per il prezzo che hanno.

Un francobollo da collezione, che non serve a niente, può valere molto se è molto ricercato. Al contrario gli insetti che sono fondamentali per l’impollinazione sono senza valore perché nessuno li compra. Ed è successo che tutto ciò che la natura mette gratuitamente a disposizione di tutti sia stato considerato deturpabile perché senza valore. È successo ai fiumi, ai mari, all’aria. L’alternativa è l’affermarsi della cultura dei beni comuni che i ragazzi dovrebbero assorbire fin da quando siedono nei banchi di scuola.

Oltre che per il disprezzo per i beni comuni, l’ambiente è stato aggredito dal sistema mercantile anche per l’ossessione che ha per la crescita. L’obiettivo del mercante è poter vendere sempre di più in modo da guadagnare sempre di più, in una corsa senza fine. Ed è successo che l’aumento della produzione e l’aumento dei consumi siano diventati obiettivo di sistema. Lo dimostra la venerazione che il sistema ha per il PIL, il prodotto interno lordo, che è diventato l’alfa e l’omega della nostra società. Gli economisti, brava gente, fantasticano di produzione e ricchezza, consumi e investimenti, come se gli oggetti fossero fatti di niente. Ma benché ci vantiamo di avere oltrepassato il confine dell’immaterialità, ogni europeo consuma mediamente 16 tonnellate di materiali all’anno che diventano 51 se consideriamo il loro zaino ecologico, ossia i detriti e i rifiuti lasciati lungo le filiere produttive. Oggi anche i paesi che erano stati lasciati ai margini vogliono seguire lo stesso percorso produttivo dei vecchi paesi industrializzati e la pressione sul pianeta si fa sempre più pesante, come dimostra l’esaurimento delle risorse e l’accumulo dei rifiuti. Un dato per tutti è il consumo di terra fertile, ossia l’impronta ecologica. Il pianeta terra dispone di 12 miliardi di ettari di terra fertile, ma l’umanità ha ormai raggiunto un livello di consumi che richiedono 20 miliardi di ettari di terra fertile. La dimostrazione chiara che un pianeta non ci basta più. Ce ne serve almeno uno e mezzo e  se non ci accorgiamo dell’anomalia è solo perché il deficit si manifesta sotto forma di accumulo di anidride carbonica. Il sistema si ostina a non voler riconoscere che il Pianeta terra è di dimensioni finite e continua a parlare di crescita infinita, ma la scuola deve informare i ragazzi che non si può inseguire la crescita infinita in un mondo finito.

Le prospettive

Le problematiche che abbiamo davanti sono gravi e complesse e chiedono di intervenire su vari piani. Prima di tutto quello delle riforme, che vuol dire apportare correttivi ai singoli meccanismi che regolano l’economia, i rapporti di lavoro, il sistema fiscale, la distribuzione delle terre.

Molte riforme a favore dei più poveri debbono avvenire all’interno dei loro paesi, il che potrebbe indurci a credere di non poter fare niente a favore degli oppressi che vivono fuori dai nostri confini nazionali. Ma la scuola dovrebbe spiegare ai ragazzi che i governi operano all’interno di una rete di accordi internazionali sui quali possiamo e dobbiamo intervenire. Penso prima di tutto all’Organizzazione Mondiale del commercio, che stabilisce le regole internazionali del commercio.

Oggi sono pensate unicamente per favorire le grandi imprese nella logica della concorrenza e il risultato è stato una globalizzazione selvaggia che ha messo tutti i lavoratori del mondo uno contro l’altro: quelli italiani contro quelli polacchi, quelli spagnoli contro quelli bengalesi, tutti pronti a vendersi per un salario più basso in modo da conquistare il lavoro tanto agognato. Ma da che parte stia l’Organizzazione Mondiale del Commercio lo abbiamo visto anche di recente per la questione brevetti. La richiesta di India e Sudafrica di sospendere i brevetti per permettere anche ai paesi più poveri di poter produrre i vaccini anti Covid senza pagare royalties non è stata accolta per non compromettere i profitti delle multinazionali farmaceutiche che tra l’altro avevano potuto fare ricerca grazie a una montagna di miliardi ricevuti a fondo perduto dai nostri governi.

Per quanto possa sembrare difficile, dobbiamo impegnarci per sostituire le regole commerciali attuali, con altre che pongono al primo posto la dignità del lavoro, la difesa dei piccoli produttori, la difesa della salute, la difesa della natura. E volendo continuare con le relazioni economiche, un altro ambito da gestire in maniera diversa è quella del debito che i governi del Sud del mondo hanno nei confronti di banche e governi del Nord. Una cifra stimabile in 5mila miliardi di dollari che tutti gli anni provoca un’emorragia di 320 miliardi solo per interessi. Così il Sud del mondo arricchisce il Nord, mentre è incapace di garantire ai propri cittadini sanità, istruzione, elettrificazione. La scuola dovrebbe allearsi con la società civile che chiede la cancellazione del debito almeno dei paesi più poveri. La cancellazione del debito dovrebbe rappresentare la prima forma di cooperazione dei paesi ricchi a vantaggio di quelli poveri. Cooperazione che nonostante i ripetuti appelli delle Nazioni Unite di portarla almeno allo 0,7 per cento del Pil, in realtà è fermo a una media dello 0,30 per cento. Il tutto mentre le spese militari continuano a crescere.

Potremmo continuare a fare l’elenco di ciò che va cambiato a livello internazionale citando la necessità di condurre una lotta seria ai paradisi fiscali che permettendo a imprese e ricchi facoltosi di nascondervi le proprie ricchezze procurano   una perdita complessiva ai governi del mondo, di circa 400 miliardi sotto forma di mancato gettito fiscale.

Intanto c’è un altro accordo internazionale di grande attualità che dobbiamo fare di tutto affinché venga rispettato. Un accordo molto sostenuto dai giovani come mostra il movimento Fridays for future, dimostrando una volta tanto che i giovani sono più avanti degli adulti e della scuola stessa. Si tratta dell’accordo sul clima siglato a Parigi nel 2015, che impegna tutti gli stati del mondo a ridurre le emissioni di anidride carbonica in misura sufficiente ad impedire alla temperatura terrestre di crescere oltre 1 grado e mezzo rispetto ai livelli preindustriali. Accordo fondamentale perché i cambiamenti climatici sono una minaccia gravissima per il genere umano e in particolare per quello più povero che abita nelle zone a maggior rischio di cambiamento.

Nel contempo, però, dobbiamo stare attenti a non cadere nella trappola riduzionista di chi vuole farci credere che la crisi climatica sia il solo problema che abbiamo da un punto di vista ambientale.  Una posizione molto comoda per il sistema perché gli permette di farci credere che la sostenibilità sia solo una questione di tecnologia. A suo dire, basta cambiare modo di ottenere energia elettrica e basta sostituire le auto a motore con quelle elettriche ed abbiamo ritrovato la sostenibilità. Ma come abbiamo visto, la crisi ambientale è molto più profonda del solo accumulo di anidride carbonica. È una crisi a tutto tondo che si manifesta sotto forma di eccesso di tutti i rifiuti e di scarsità di tutte le risorse. Il che obbliga noi opulenti a scegliere quale tipo di sostenibilità vogliamo perseguire: se quella dell’apartheid che destina le poche risorse   esistenti al consumismo di pochi o quella dell’equità che privilegia i diritti per tutti.

Simbolicamente la scelta è: auto elettrica per una minoranza o beni e servizi fondamentali per tutta l’umanità? Se scegliamo la prima strada, basta un cambio di tecnologia, ma dobbiamo prepararci a vivere in un mondo sempre più guerreggiato perché non c’è da attendersi che i depredati accettino supinamente i nostri soprusi. Se invece scegliamo la strada dell’equità, come mi auspico, allora dobbiamo fare un cambio molto più profondo: dobbiamo fare un salto di paradigma. Fondamentalmente dobbiamo passare da un sistema tutto orientato alla crescita ad un sistema che accetta il senso del limite. E pur producendo e consumando di meno permetta a tutti di vivere dignitosamente nella piena inclusione lavorativa. Sfida che possiamo vincere solo se cambiamo in profondità alcune nostre concezioni e convinzioni.

Prima di tutto quella di benessere, che oggi tendiamo a configurare esclusivamente con i beni materiali ignorando del tutto il soddisfacimento della nostra dimensione affettiva, spirituale e sociale. Ma dobbiamo rivedere anche il ruolo mercato a cui abbiamo assegnato addirittura la funzione di centro gravitazionale dimenticando che il mercato oltre a essere discriminatorio è la causa prima del paradigma della crescita che ci sta conducendo alla rovina.

In una logica di equità dovremo recuperare il senso del collettivo, di solidarietà e di gratuità, perché solo la gratuità permette anche ai deboli e ai nullatenenti di avere ciò di cui hanno bisogno. E per finire dovremo ripensare il lavoro che oggi concepiamo solo in una logica di lavoro salariato finendo per essere tutti partigiani della crescita in nome dell’occupazione.

Ecco dunque il grande compito della scuola: formare non solo persone consapevoli dei problemi esistenti, con sufficiente conoscenza dei meccanismi tale da saperli modificare, ma anche persone con la capacità di pensare in modo nuovo affinché sappiano immaginare un’altra economia, finalmente fondata su equità, rispetto e sostenibilità.

(*) ripreso da comune-info.it. Questo articolo è l’intervento- (titolo originale “Papel de la escuela frente a los desafíos del mundo actual” ospitato dall’Universidad pontificia de Salamanca / Facultad de Educación il 25 novembre 2021 durante il convegno Pedagogía que entusiasma.

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