«Arafat va alla lotta»

La recensione di Stefano Galieni (*)

«Arafat va alla lotta» è un libro bello, appassionato e interessante sotto diversi aspetti. Pubblicato da Mimesis, nel giugno 2021, è una storia vera, di riscatto e dignità, raccontata in prima persona dall’autore insieme alla giornalista Maria Elena Scandaliato. Mohammed Arafat, il protagonista è figlio di una famiglia della media borghesia egiziana che, alla fine degli anni Novanta, comincia a vedersi crollare il Paese a colpi di privatizzazioni, riduzioni dei salari, crisi economica. Aveva i soldi per raggiungere l’Italia e lo fa, da “irregolare”, come tante e tanti, a causa di leggi oscene. Comprende subito come nel Bel Paese, l’apartheid 2.0  comandi indisturbato. Lui è solo manodopera da sfruttare con ogni mezzo e privo di diritti, guai a ribellarsi. Nel suo viaggio (che comporta anche un doloroso passaggio in Libia) e poi i lungo tentativo di migliorare le proprie condizioni di vita si ritrova a lavorare nella ricca provincia piacentina, nell’inferno della logistica. Un mondo che le inchieste sul lavoro evitano accuratamente di esaminare, in cui predominano caporalato, subappalti, finte cooperative e compressione tanto dei salari che dei diritti. Mohammed, dopo essere stato anche in carcere a causa di uno dei tanti decreti sicurezza, è coinvolto nelle lotte della Tnt nel biennio 2011/2012. Una vertenza che è stata il detonatore per altri magazzini della filiera. Nel libro, che per alcuni versi rimanda alle vicende raccontate da Steinbeck, London, o da altri romanzieri che entrarono nei conflitti di classe del secolo trascorso, Mohammed Arafat esprime la sua rabbia, vissuta per anni in silenzio, correndo ogni giorno con pacchi sempre più pesanti e padroni sempre peggiori. Il sindacato confederale in questo mondo è spesso silente o assente (a volte peggio) e lo spazio viene occupato da sigle apparentemente piccole ma capaci di portare avanti il conflitto, di proporre forme di lotta radicali come non si vedono da decine di anni. Arafat incontra una di queste sigle, il SICobas, o meglio, incontra compagni che lo fanno sentire uno di loro tanto che oggi è diventato coordinatore nazionale del settore. Il magazzino Tnt – Fedex a marzo del 2021 è stato chiuso lasciando senza lavoro e reddito centinaia di persone e famiglie, soprattutto immigrate. Il 18 giugno dello scorso anno, davanti ai magazzini Lidl di Bandrate, è stato ucciso, da un camion che ha forzato un picchetto, il sindacalista Adil Belakhdim, un altro di quelli che si opponeva allo sfruttamento. L’omicidio, non il primo né l’ultimo di questo conflitto, ha portato ad ottobre le diverse sigle del sindacalismo di base a elaborare una piattaforma di lotta comune ma una vera unione è ancora da costruire e ancora prevale la frammentazione. Dal 2011 ad oggi le condizioni nel comparto sono soltanto peggiorate: la conflittualità diffusa ha messo in un primo tempo in difficoltà il mondo variegato delle cooperative del settore. Non c’è voluto molto, soprattutto attraverso una forte attività repressiva, nelle aziende e fuori, per provare a fermare quello che può ancora essere un ciclo di lotte che funga da sano esempio. La pandemia ha ancora di più indebolito il potere contrattuale dei lavoratori e oggi, nonostante questa non sia cessata, si chiede di recuperare il tempo perso, aumentando i ritmi di lavoro, comprimendo le pause e gli stipendi, trovando il modo per ricattare soprattutto coloro e sono tanti, la cui presenza in Italia continua a dipendere da contratti di lavoro spesso non corrispondenti a quanto effettivamente si è costretti a fare. Gli arresti di due giorni fa, dei sindacalisti SiCobas e Usb, le accuse loro lanciate nell’ordinanza, fanno rabbrividire. Non è un caso che fra gli indagati e con sospetti infamanti ci sia proprio un esempio vivente di lotta come Mohammed Arafat. Maria Elena Scandaliato non ha mai interrotto i contatti con lui e con gli altri sindacalisti, l’abbiamo sentita mentre si recava, a Milano ad un presidio di solidarietà realizzato nel capoluogo lombardo come in molte altre città d’Italia. «Vado a portare a lui e a tutti gli altri sindacalisti la mia solidarietà – ha dichiarato – Mi riservo di leggere attentamente l’ordinanza ma “associazione a delinquere” è un reato grave, che infanga l’attività di tutto il sindacato. Gli inquirenti hanno dichiarato che non intendono colpire l’attività sindacale. Ma criticano il “sindacalismo conflittuale” dicendo nei fatti che chi fa sindacato non deve produrre conflitto sociale. Ma come si fa a non essere conflittuali in un Paese, l’unico in Europa, in cui i salari, negli ultimi 30 anni sono diminuiti? Ripeto, aspetto di leggere le carte, ma credo che quel tipo di battaglie diano molto fastidio e che l’azione repressiva messa in atto, sia profilattica dal punto di vista giudiziario, per prevenire quanto potrebbe accadere in un autunno che non si preannuncia caldo ma incandescente. E poi lasciamelo dire, molti dei sindacalisti raggiunti dai provvedimenti restrittivi, li conosco dal 2008 e considero per usare un eufemismo “bizzarra” l’idea che abbiano utilizzato la loro attività sindacale per fini personali. Voglio vedere come andrà avanti il procedimento». Mohammed Arafat, divenuto ormai leader sindacale, è uno di molti. E nel mondo della logistica anche fra le donne con back ground migratorio, stanno emergendo quadri capaci di riportare all’origine quello che deve essere il ruolo del sindacato, ovvero difendere gli interessi di chi lavora. Come e forse più di quanto accaduto nel Meridione in agricoltura, come accade ancora nell’industria manifatturiera, nella metallurgia, nelle concerie, nei cantieri, in logistica sta emergendo da anni, spesso nel silenzio, una generazione di lavoratrici e lavoratori, quasi sempre migranti, che hanno acquistato vera e propria coscienza di classe. Un terreno fertile in cui la possibilità di lottare per diritti concreti e portare a casa risultati, impone anche di inventare forme di lotta adeguate al presente per fermare, quando è necessario, la catena e bloccare la produzione di profitto. Un riscatto che diviene nei fatti cittadinanza sociale, in cui si scopre di poter avere un ruolo, un peso, di poter incidere e di non essere da solo, superando non solo il gap con le lavoratrici e i lavoratori autoctoni ma anche quello fra persone provenienti da Paesi e continenti diversi. Uomini e donne che sono ben consapevoli dell’importanza del proprio lavoro, che non cedono a ricatti o a facili promesse e scelgono di resistere anche violando le tante norme restrittive contenute nei diversi “pacchetti sicurezza” fatti propri da governi di centro sinistra e centro destra, compresi i picchetti, i blocchi stradali, i tentativi di fermare la circolazione delle merci. Queste lotte, incompatibili con la gestione ultraliberista del mercato del lavoro, sono considerate eversive e pericolose perché virali, capaci di contaminare, di mettere in seria difficoltà i grandi capannoni della pianura padana dove sono stipate merci che devono per loro stessa natura muoversi al fine di produrre profitti. Muoversi a qualsiasi costo, anche al costo della vita di chi si oppone per avere semplicemente salari dignitosi e ritmi di lavoro umani. Persone come Mohammed e, va ripetuto sono tante e tanti, se riescono a costruire reale e stabile unità possono acquistare un potenziale contrattuale inaccettabile per le grandi aziende multinazionali che comandano le tante finte cooperative – create anche per eludere il fisco – e che costituiscono il volto visibile del padrone. Prepariamoci a stagioni in cui questi lavoratori e queste lavoratrici subiranno sempre maggiori ritorsioni ma cresceranno sempre più in consapevolezza e in padronanza degli strumenti di lotta. E impariamoli a riconoscere, sono uomini e donne giunte in Italia per fare un lavoro che tanti italiani non sanno più fare, la lotta di classe.

(*) ripreso da transform-italia.it

VEDI ANCHE effimera.org/la-manina-la-frode-e-il-dispotismo-di-collettivo-gigaworker sull’entrata in vigore delle modifiche all’articolo 1677 bis del Codice Civile contro le lotte dei lavoratori nella logistica.

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