Argentina: la schiavitù dei laboratori tessili clandestini

di David Lifodi

Nella sola Buenos Aires esistono almeno tremila laboratori tessili clandestini dove lavorano, in condizioni di vera e propria schiavitù, circa trentamila migranti boliviani, peruviani, paraguayani ma anche argentini stessi.

I dati della Fundación Alameda, un’organizzazione impegnata a debellare il lavoro schiavo, quello minorile, la tratta degli esseri umani e lo sfruttamento sessuale, sono impietosi e raccontano la realtà oscura di un paese dove l’industria tessile, le grandi firme della moda e le istituzioni non si sono mai adoperate per risolvere questa vera e propria emergenza sociale nonostante ne fossero pienamente a conoscenza. Uno degli episodi più drammatici, che ha scosso emotivamente l’intero paese,  si è verificato il 27 aprile scorso quando due fratellini boliviani di 7 e 10 anni sono morti a seguito di un incendio sviluppatosi nel quartiere bonaerense di Flores, dove hanno sede buona parte dei laboratori tessili clandestini all’interno dei quali i lavoratori stessi abitano, tra cui i genitori dei bimbi. Solo pochi giorni prima, una giovane di 21 anni, Rosa Payro, è stata tratta in salvo dal laboratorio clandestino dove lavorava da tre anni, sottoposta a sfruttamento e torture fisiche dai sui aguzzini. E ancora, il 7 maggio, un altro incendio ha distrutto completamente il laboratorio di Flores dove erano morti i due bambini boliviani: pare che il rogo sia stato appiccato per cancellare ogni prova delle attività illegali che avvenivano nel locale. Questi tre fatti, peraltro non gli unici, hanno però contribuire a riaprire il dibattito in un paese che, di fronte al lavoro schiavo e minorile, ha sempre finto di girarsi dall’altra parte o lo ha associato esclusivamente alla cosiddetta bolivianidad. I lavoratori impiegati nei laboratori clandestini spesso svolgono turni massacranti, di almeno 16 ore al giorno, in condizioni subumane: mangiano nel luogo dove lavorano (le spese per i magri pasti sono scalate dal salario su ordine dei caporali) e dormono in 50-60 persone in camerate piccolissime dove si diffondono facilmente malattie come la tubercolosi. Secondo la FundaciónAlameda, i laboratori clandestini sono dei veri e propri campi di concentramento moderni. L’Argentina ospita quasi due milioni di cittadini stranieri, ma per i lavoratori dei laboratori tessili, schiavi del terzo millennio e praticamente invisibili, non ci sono le tutele che pure garantisce la cosiddetta “Ley migratoria”, a partire dal diritto di accesso al lavoro, al sistema sanitario e all’istruzione, poiché la loro permanenza nel paese è clandestina. “Molti di loro”, spiega il presidente dell’AsociaciónCivil Federativa Boliviana Alfredo Ayala, “non intendono blanquearse (mettersi in regola) perché si augurano che un giorno il loro calvario finisca e possano tornare al loro paese”, ma purtroppo le grandi firme della moda li spremono il più possibile e legittimano i loro enormi guadagni grazie agli indocumentados, lucrando sull’impossibilità dei migranti di denunciare la situazione proprio in quanto clandestini. In tutto ciò il governo argentino ha enormi responsabilità poiché non ha mai voluto mettere mano alla Ley de Prevención y Sanción del Delito de Trata de Personas, che pure conterrebbe gli strumenti giuridici per porre fine a questa situazione. Ad esempio, la stessa polizia bonaerense, quando scopre dei laboratori clandestini, preferisce non denunciarli proprio grazie alla corruzione dei caporali nei confronti degli agenti. Eppure, secondo i dati in possesso della Fundación Alameda, negli ultimi dieci anni solo questa associazione ha ricevuto circa cinquemila denunce per l’utilizzo di lavoro schiavo e minorile ed abusi sessuali avvenuti nei laboratori tessili clandestini, ma i grandi marchi della moda hanno sempre negato l’evidenza, sia perché quasi sempre sono riusciti a farla franca (anche nei casi in cui sono state trascinati di fronte alla giustizia), sia perché sono le stesse istituzioni a tutelarle. Mauricio Macri, sindaco di Buenos Aires appartenente alla destra estrema (fu lui il mandante che, qualche anno fa, scatenò la caccia agli immigrati boliviani, peruviani e paraguayani al Parco Indoamericano, alla periferia estrema della capitale) liquida il problema dicendo che episodi come l’incendio del laboratorio tessile derivano dalla mancanza di lavoro e dall’immigrazione illegale. Per risolvere i problemi legati allo sfruttamento e alle condizioni di schiavitù in cui si trovano i migranti, la Fundación Alameda propone alternative quali il lavoro in cooperative tessili confiscate ai caporali, alle mafie e recuperate dagli stessi lavoratori, oltre a chiedere un timbro obbligatoriosu ogni capo che lo identifica come “abito pulito” e non frutto del lavoro schiavo. Quest’ultima proposta era già stata avanzata dall’Instituto Nacional de Tecnología, ma è stato accettata, solo per un certo periodo, da un’unica grande marca di moda. Inoltre, quando arrivano in Argentina, i migranti vengono attratti dalla possibilità di trovare subito un impiego e dal cibo garantito sul luogo di lavoro senza immaginare che poi finiranno per ritrovarsi schiavi dei caporali, a loro volta al servizio delle grandi firme della moda. Nella sola Buenos Aires, i circa quindicimila boliviani che vivono nella capitale provengono già da una situazione di sfruttamento al loro paese, secondo quanto denuncia l’Ambasciata boliviana in Argentina: circa quattromila sono utilizzati come manodopera schiava, seimila lavorano in nero e il resto ha situazioni di lavoro comunque irregolari.

Un ispettore porteño, che aveva scoperto e denunciato alcuni laboratori tessili clandestini, sostiene che il primo a volerli mantenere è il sindaco di Buenos Aires Mauricio Macri, che li conosce e li controlla tramite la sua rete di contatti nel mondo della criminalità. Ciò che è certo è che i laboratori tessili clandestini sono le maquiladoras del XXI secolo utilizzate dalle grandi firme della moda: questo è un esempio del capitalismo estremo che, in questo caso specifico, sfrutta il dramma dell’immigrazione.

David Lifodi
Sono nato a Siena e la mia vera occupazione è presso l'Università di Siena. Nel mio lavoro "ufficioso" collaboro con il sito internet www.peacelink.it, con il blog La Bottega del Barbieri e ogni tanto pubblico articoli su altri siti e riviste riguardo a diritti umani, sindacalismo, politica e storia dell’America latina, questione indigena e agraria, ecologia.

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