Argentina: No Chains, il brand libero dal lavoro schiavo

di David Lifodi

No Chains è un marchio libero dal lavoro schiavo, nato dall’unione tra la cooperativa argentina La Alameda e quella tailandese Dignity Returns. Sorta all’insegna della collaborazione e della condivisione di valori comuni, dall’autogestione all’economia solidale, passando per il riconoscimento dei diritti dei lavoratori, No Chains rappresenta una risposta alle maquiladoras e ai laboratori tessili clandestini che sono una triste consuetudine sia in America Latina sia nel sud-est asiatico.

Purtroppo, le grandi marche di abbigliamento del settore tessile continuano ad avere fin troppi estimatori, nonostante sia noto che utilizzano il lavoro schiavo. Quante volte si sente pronunciare, a tutte le latitudini, frasi come questa: “Si, lo so che questo prodotto è fatto grazie al lavoro schiavo, ma è così bello”. Nella sola Buenos Aires i laboratori tessili clandestini sono circa tremila e impiegano almeno trentamila persone, una sorta di piccola città nella città, invisibile a molti e abitata soprattutto da migranti di origine boliviana, peruviana e paraguayana. Spesso, i migranti che si ritrovano a lavorare in condizioni disumane per le grandi marche di abbigliamento, arrivano in Argentina con la promessa di trovare vitto e alloggio e lo stesso accade in Tailandia e negli altri paesi del sud-est asiatico. In effetti vitto e alloggio sono garantiti, ma l’alloggio è costituito dal laboratorio clandestino dove i ritmi di lavoro si aggirano intorno alle 18 ore quotidiane per salari e pasti da fame. Tra i disegnatori di No Chains ci sono filippini, statunitensi, coreani e latinoamericani, in una sorta di ribellione globale che aiuta un brand solidale e non le grandi marche dell’alta moda. Lo scopo è ambizioso: non si tratta solo di creare un mercato di nicchia rivolto esclusivamente ai consumatori consapevoli, ma di allargarsi a tutta quella fascia di persone non troppo attente al principio dell’acquisto di abiti prodotti da imprese rispettose dei diritti dei lavoratori. La diffusione dei capi di No Chains non dipende dalle fluttuazioni del mercato, secondo il più classico concetto del capitalismo, ma dall’impegno comune di lavoratori e consumatori all’insegna di un mondo dove non esistano né schiavitù né sfruttamento. Le cooperative che si sono unite a La Alameda e Dignity Returns hanno dato vita, in Argentina, al coordinamento Ropa Limpia, corrispondente alla nostra campagna “Abiti Puliti”. I guadagni derivanti da No Chains saranno divisi, in parti uguali, tra la cooperativa argentina e quella tailandese, entrambe composte da lavoratori licenziati da imprese tessili interessate più al profitto che alla salute e alla tutela dei propri dipendenti. Tra i primi aderenti a Ropa Limpia la cooperativa 20 de Diciembre, anch’essa porteña, ma composta soprattutto da migranti boliviani affrancatisi dal lavoro schiavo. Attualmente, a Ropa Limpia aderiscono una ventina di cooperative, ma i racconti dei lavoratori che ne fanno parte si assomigliano. Tra boliviani e peruviani ci sono anche argentini: tutti guadagnavano almeno cinque volte in meno del salario minimo, lavorando in laboratori tessili clandestini dalle 7 alle 21 e con non più di mezz’ora di riposo. Quella dei laboratori clandestini è una vera e propria piaga dell’Argentina e non sono certo migliori i laboratori a conduzione familiare, dove cibo e posto letto sono garantiti, ma non le condizioni di sicurezza. Inoltre, la necessità di lavoro spinge  migranti ad accettare qualsiasi condizione di lavoro ed i padroni hanno gioco facile a minacciare i loro dipendenti: “Se te ne vai ci sono almeno altre dieci persone desiderose di prendere il tuo posto”. I laboratori tessili clandestini delle grandi marche approfittano della disperazione delle fasce sociali più povere della popolazione e i salari non superano, nel migliore dei casi, i 400 dollari. Cooperative come la Alameda e la 20 de Diciembre da tempo denunciano lo sfruttamento che avviene sulla pelle dei migranti, provocato anche dalla presenza del crimine organizzato che poi si occupa di attività che vanno dal riciclaggio del denaro sporco al traffico di droga, fino ai cosiddetti narcopostribulos. “Gli abiti realizzati nei laboratori tessili clandestini sono  macchiati di sangue”, denuncia la campagna Ropa Limpia che, insieme al Polo Textil Barracas, ha proposto di identificare, con un timbro sul cartellino del prezzo, gli abiti prodotti senza l’utilizzo di lavoro schiavo, oltre a chiedere la confisca dei macchinari utilizzati nei talleres clandestinos. In alcuni casi sono state le stesse imprese ad entrare in contatto con le cooperative degli abiti puliti argentine, come è stato, ad esempio, il caso di Clara A, la cui disegnatrice e fondatrice Laura Méndez aveva lavorato, seppur per poco tempo, in una fabbrica clandestina, descrivendola come un vero e proprio girone dell’inferno.

Tratta delle persone, sfruttamento del lavoro schiavo, anche minorile, ed assenza delle condizioni minime di sicurezza sul luogo di lavoro caratterizzano i laboratori clandestini dell’Argentina e del sud-est asiatico: No Chains rappresenta una prima alternativa alla cadena sucia dei grandi brand internazionali ed è in crescita, poiché diverse cooperative hanno chiesto di affiliarsi. Al momento della sua nascita, No Chains aveva ricevuto anche un contributo dal Ministero dello sviluppo sociale. “ Globalizzare la lotta, globalizzare la speranza” era uno degli slogan dei primi forum sociali di Porto Alegre, ma ben si adatta alla cooperazione tra lavoratori tessili argentini e tailandesi, accomunati dall’impegno per debellare il lavoro schiavo.

David Lifodi
Sono nato a Siena e la mia vera occupazione è presso l'Università di Siena. Nel mio lavoro "ufficioso" collaboro con il sito internet www.peacelink.it, con il blog La Bottega del Barbieri e ogni tanto pubblico articoli su altri siti e riviste riguardo a diritti umani, sindacalismo, politica e storia dell’America latina, questione indigena e agraria, ecologia.

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