Armando Gnisci: Ventennio di itagliani

…ita res accendent lumina rebus (Tito Lucrezio Caro, De rerum natura, I, 1117)

Nos, autem cui mundus est patria velut piscibus equor (Dante Alighieri, De Vulgari Eloquentia, I, VI, 3[1])

Venti anni fa, nel 1990, furono editi e apparvero nelle librerie italiane due libri sorprendenti per le nostre lettere patrie: Immigrato, scritto da Mario Fortunato e Salah Methnani per la casa editrice Theoria di Roma, e Io, venditore di elefanti, scritto da Oreste Pivetta e Pap Khouma, per Garzanti. Si trattava di autobiografie romanzate del viaggio migratorio in Italia di due narratori-protagonisti africani. I loro editori erano importanti, e quindi le novità trovarono subito posto nelle librerie. Gli autori erano due coppie di scrittori, formate nello stesso modo: due noti giornalisti italiani e due sconosciuti immigrati – tunisino, Methnani e senegalese, Khouma – che raccontavano l’avventura migratoria in Italia a partire da se stessi e dalla lingua italiana. Methnani, attraverso un viaggio di formazione da sud a nord e Khouma, attraverso un viaggio di mercante da strada, come quelli i quali –  sembra essere passato tanto tempo da allora – avevamo chiamato Vu’ cumprà?

Queste storie, assolutamente “nuove” nella nostra letteratura, erano state narrate e scritte nella lingua di chi le avrebbe lette e di chi per primo le lesse e le ascoltò dalla confidenza dei due narratori primari stranieri, i due scrittori italiani coinvolti nella creazione e nella autorialità. La nostra lingua fu quella finale, ma anche quella germinale, nella quale l’opera nacque, fu composta e si indirizzò. Da quel punto la nostra lingua, così antica e piena di tante vite, cominciò a lavorare anche come mediazione e traduzione e addirittura come cooperazione narrativa, aiutata, molto probabilmente, dal supporto sororale della lingua francese, primaria per tunisini e senegalesi.

Quei due testi non rimasero isolati, anzi, all’inizio della decade finale del secolo XX inaugurarono una diversa e inaudita vicenda della storia della nostra letteratura, quella che chiamai allora “la nascente letteratura italiana della migrazione”. Oggi, se sappiamo riconoscerci come il futuro fattuale di ciò che era stato annunciato da quell’inizio sorgimentale, possiamo con ragionevole sicurezza considerare quelle due opere narrative come capostipiti di un fenomeno culturale assolutamente nuovo per l’Italia e solo in parte per l’Europa centro-occidentale. Da allora, infatti, gli scrittori della migrazione in Italia e in italiano sono diventati centinaia[2], vengono pubblicati da diversi anni anche da parte dei grandi editori – basti ricordare i nomi di Nicolai Lilin e di Anilda Ibrahimi, russo-siberiano il primo e albanese la seconda, con il primo e il secondo romanzo editi entrambi da Einaudi –, sono studiati e invitati nelle università di tutto il  mondo e tradotti dall’italiano in molte altre lingue. In alcuni casi, i loro racconti sono diventati anche film.

Se ci fermiamo oggi a pensare come è cambiata la nostra vita di italiani nei due decenni a cavallo dei due secoli, non potremo non riconoscere di trovarci coinvolti in una fase diversa della storia italiana ed europea, quella segnata dalla “Grande Migrazione” [Die Grosse Wanderung], così come la definì il poeta e saggista tedesco Hans Magnus Enzensberger nel 1992.

Si tratta di una grande immigrazione in Italia che ci riguarda e coinvolge attivamente come “cittadini riceventi di-in una nazione europea”. Questa relazione è nuova e inaudita per un popolo come il nostro che ha, invece, una storia recente e grandissima di emigrazione, a partire, addirittura, dall’unità della nazione fino agli anni 70 del XX secolo, determinando una emorragia durata per un secolo intero. Si trattava, inoltre, proprio di quel secolo che doveva dare il tempo e il modo della composizione e della crescita della nazione e delle sue istituzioni e che divenne immediatamente il tempo dell’esodo e del trauma migratorio per una fiumana di senza terra e di analfabeti, di poveri e dimenticati, non certo per colpa loro. 27 milioni di italiani che non erano italiani in un secolo si sparpagliarono nella diaspora planetaria, dalle Ande all’Australia. Non riuscirono mai a diventare italiani, ma diventarono americani o australiani. In questa emigrazione coatta, se la guardiamo un po’ da lontano, come oggi ormai è possibile e doveroso fare, milioni di vite non solo persero la possibilità di trovare un destino civile di senso, di ragione e di onore, ma tutte furono private di importanza da chi aveva fatto l’Italia e non sapeva che farsene degli italiani. Per quelle generazioni di ricchi, di nobili, di governatori, di spettabili e di comandanti fu un sollievo vedere le masse contadine e plebee andar via “volontariamente” verso le “lontane Americhe”, come Geppetto. E così quella che doveva diventare la nostra nazione fu strangolata appena nata.

Noi che parliamo così siamo i figli di quelli rimasti in Italia. Ci mancano tutti quei fratelli e sorelle andati via, allo stesso modo in cui ci mancano i morti. E ci manca ancora un destino civile.

Mentre ci accingiamo a festeggiare nel 2011 il 150esimo anniversario della unificazione nazionale, tra litigi politici e insulti padani, le secessioni insulari, la ribellione africana contro la mafia calabrese e la caccia al negro lungo la costiera tirrenica , non siamo ancora capaci di ripensare storicamente la nostra vicenda postunitaria e le sue conseguenze, e la grande emigrazione come un immane genocidio proletario, che non possiamo nemmeno definire come “nazionale”:  una vera e propria “strage degli innocenti”, un olocausto della povertà senza patria. Olocausto che somiglia alla tratta euroamericana degli schiavi africani, al commercio triangolare nel Black Atlantic più che allo sterminio nazista degli ebrei. In questo caso fu la morte coatta nelle camere a gas la soluzione finale; nel caso della grande emigrazione italiana, invece, si è trattato di misconoscenza dell’identità civile delle persone – diventate, la prima volta che diventavano qualcosa, delle “non-persone”, così come Alessandro Dal Lago ha definito lo statuto civile degli immigrati attuali in Italia – e di violenza contro il diritto ad una vita degna, di milioni di umani per un secolo ignorati e dimenticati senza essere mai  stati pensati, se non addirittura svenduti, come accadde ai nostri contadini meridionali mandati a forza nelle miniere del Belgio in cambio di carbone, nel secondo dopoguerra democratico. Che qualcuno abbia “fatto fortuna” negli USA è stato solo un dono del caso statistico, e l’inizio della produzione di leggende e di stereotipi dell’immaginario.

La nostra classe dirigente postunitaria, da Crispi a Mussolini, si inventò una via d’uscita grottesca che formò una coppia demenziale e funesta insieme al genocidio: l’avventura coloniale. I poveri furono distolti dall’emigrazione per essere deviati e invitati a farsi coloni e a impadronirsi delle terre libiche e etiopiche, le terre degli unici popoli più dannati di loro. Terre che, veniva detto dalla propaganda, erano state conquistate per loro. Una tragedia-farsa colossale. Ma essa ci sta ancora e tutta sulle spalle, anzi è la nostra terga, la nostra stessa origine alla modernità, attraverso uno sterminio assurdo e una orribile commedia, che non ha trovato nessun Dante nelle lettere patrie, come Fanon o Ho Chi Min per le nazioni oppresse dal colonialismo europeo.

Nel 2010 ancora non siamo capaci di leggere la nostra storia unitaria postrisorgimentale come una catastrofe progressiva, allo stesso tempo insaputa e rimossa, che si celebra ancora una volta oggi nel modo che è diventato tradizione, quello della oscenità e della menzogna. Con i loro satelliti: violenza, razzismo, xenofobia, ignoranza. Satelliti che ci governano.

Non possiamo ignorare ancora il senso critico della nostra storia patria e abbandonarci alla inspiegabilità fatale del razzismo verso gli immigrati, come se fosse una malattia sconosciuta e trascurabile. Perché questa curiosa malattia ci governa esplicitamente, nel senso che sta al nostro governo perché esprime la maggioranza del paese. In più: esprime l’antipatica lontananza che ci allontana ancora di più dall’esame critico del passato unitario della nostra storia. E questo nonostante che gli italiani non siano più un popolo di dannati della terra.

Interessarci alla parola letteraria e politica degli scrittori migranti può avere per noi anche uno straordinario valore critico, quello di aiutarci a rivedere la nostra storia postrisorgimentale come il grande fallimento popolare della nazione. Dal quale proveniamo. Per fare ciò dobbiamo imparare a leggere il “racconto migrante” non come un portato esotico della grande migrazione planetaria contemporanea, ma come vera e propria novità interculturale. Esso parla anche di noi, ci fa vedere dal di fuori con uno sguardo che nasce dal di dentro. E in più risveglia la memoria dannata e sepolta dei nostri fratelli emigrati e del senso stesso del nostro  essere italiani. La parola letteraria degli scrittori migranti ci sveglia nel presente. Perché possiede un potere di appello e di coinvolgimento dell’immaginario che è uno degli aspetti più importanti del senso di un’opera letteraria che abbia un carattere mondiale. Ed è proprio questa che proponiamo come la sua caratteristica principale, quella che dà senso e importanza nel dare il proprio principio a tutto ciò che è avvenuto. In che senso? Io credo che sia proprio la “novità interculturale” il primo aspetto che dobbiamo riconoscere nel ripensare i nostri ultimi venti anni di storia europea ed italiana, a partire da quando essa è stata resa evidente e parlante – presente e viva, possiamo dire, con aggettivi leopardiani – proprio dalla letteratura. Il piccolo libro di Enzensberger è appunto del 1992, e allo stesso anno risale il mio libriccino Il rovescio del gioco[3]. Entrambi posero al centro dell’attenzione letteraria europea un fenomeno che cominciò ad investire l’Europa da fuori verso dentro, come tutte le “grandi migrazioni” e come da un millennio e mezzo non si verificava più nella coda peninsulare dell’Asia. A partire dalla fine dell’impero romano i popoli mediterranei ed europei erano stati rivoltati e rigenerati dai “barbari” del nord e dell’est. E dopo mille anni di ricomposizione, fondati e assestati i regni-nazioni avevano inventato la modernità esportandola violentemente in tutti i nuovi mondi conquistati al di là degli oceani. Si tratta di quella impresa che ha dato origine all’attuale sistema-mondo – come sostiene il sociologo nordamericano Immanuel Wallerstein – che ora sta finendo. Un sistema-mondo nel quale siamo entrati per ultimi come nazione, dietro le nazioni americane del nord e del sud e prima soltanto tra i dannati della terra.

Solo dopo questa comprensione storica ed ermeneutica di lunga durata si può ragionare sui valori e i portati demografici, sociali, civili, legislativi, religiosi ecc. della grande migrazione. Se non si opera in questo modo, si opera in maniera perversa e confusa: quella che la civiltà italiana ha mostrato a se stessa e al mondo di volere e sapere esprimere, il cui risultato ultimo e compiuto si veste assolutamente al negativo e si manifesta, lo ripeto, nel razzismo xenofobo che è al governo e detta le leggi e che alimenta il razzismo diffuso del “popolo”.

Il razzismo è l’altra faccia della conquista europea coloniale moderna. Esso parte dal disprezzo dello straniero e della sua visione del mondo, e applica la violenza sopraffattrice e piena di sé che invoca e produce un incontro sinistro e disgraziato, la scelta negativa del respingimento di fronte alla pretesa di una vita dignitosa e giusta e contro la gioia possibile di un incontro gradevole, per poter crescere e vivere insieme.

Proviamo a ragionare, allora, dal punto di vista principale che abbiamo riconosciuto come quello dell’incontro interculturale e vediamo come si può parlare della “grande migrazione” che da più di venti anni trova noi italiani come i riceventi stanziali e perplessi di una novità per la quale l’unico valore reattivo e operativo resta quello offerto dalla caritas cristiana e da qualche rimasuglio di solidarietà comunista.

Credo che in Italia non succeda da molti secoli qualcosa di tanto importante e innovativo sul “piano umano” come l’attuale migrazione presso di noi di persone da tutti i mondi del nostro comune pianeta. Questa grande migrazione è paragonabile, come abbiamo visto, soltanto alle “invasioni barbariche” degli inizi del Medioevo, che sui libri di scuola germanici portano il nome di “migrazioni di popoli”, dal loro punto di vista.

Che cosa c’è di tanto innovativo in questo fenomeno sociale inaspettato che sta cambiando sempre di più il nostro paese, anche se non ce ne accorgiamo se non come fastidio, o addirittura con rabbia? E come fa ad essere innovativa in senso positivo la grande migrazione, se tutti, o meglio la maggioranza degli italiani, la temono e pensano che sia giusto contrastarla, ultimamente soprattutto nel Mediterraneo?

Non si può rispondere a queste domande con delle formule sociologiche o ideologiche, ma invitando gli italiani a pensare attraverso la luce che le cose mandano alle cose, come dice  Lucrezio, invece che attraverso l’opacità delle proprie paure. La luce delle cose sulle cose ci dice che in Italia, come negli altri paesi europei occidentali e settentrionali, avanza una generazione di nuovi cittadini che hanno una identità diversa da quelli che sono nati da più di trenta anni. Diversi come? Sono cittadini figli di stranieri immigrati che sono nati o cresciuti, che hanno studiato, hanno vissuto insieme con noi, nella stessa lingua, nello stesso idioma dialettale e nella stessa cultura italiana, anche se hanno cognomi arabi, rumeni, albanesi, peruviani, congolesi, cinesi. Sono italiani “interculturali”. Sono “negri” o asiatici ma parlano e pensano come noi “bianchi”. E i nostri figli sono cresciuti insieme a loro, oltre che insieme a noi. E somigliano più a loro che a noi: sono interculturali anche loro: italiani nuovi, tutti loro insieme. Non contro qualcuno, o addirittura contro di noi, ma, al contrario, pronti e preparati ad inventare una nuova società più aperta e diversa, tutti insieme. Una società che i nostri padri, nonni e bisnonni non sono stati mai capaci di realizzare, anzi una società misconosciuta da tutti i nostri antenati. Essi sono quelli che non sono stati capaci in 150 anni di costruire una nazione. Ed ora questa opportunità ci viene fornita dal tempo dalla vicenda migratoria della nostra specie.

I figli di tutti noi sono cresciuti in questi venti anni seguendo una tendenza comunitaria interculturale e creola, che vuol dire: nata dall’incontro e dalla mutua trasformazione coevolutiva. Questi figli hanno cambiato anche noi più anziani e refrattari. Essi vivono insieme essendo cresciuti e educati a vivere insieme. Educati da chi? Da chi ha voluto aprirsi all’incontro interculturale in Italia e a reinventare il  proprio mestiere: maestre dell’infanzia e della scuola elementare, docenti delle scuole medie e degli altri ordini scolastici, mediatori interculturali, volontari delle ONG, enti locali, preti, famiglie, medici e altri ancora.

L’incontro felice, che non ci fu nel 1492 e mai più dopo, fino al Novecento, sta vincendo la sua sfida ora[4]. Ed è un incontro innanzitutto interculturale. Nemmeno i nostri antenati emigrati lo ebbero e anche per quella sfortuna dobbiamo trovare la riconciliazione.

Chiamo questi nuovi cittadini del mondo: itagliani, con la “g” in corsivo, così: “g”. Per distinguerli da gli “italiani”, in quanto essi sono portatori della luce nuova del mondo, una luce che non s’è mai accesa fino ad ora.

Pensate questo pensiero con me senza timore o diffidenza, sia che siate tra gli itagliani, o che siate tra i “vecchi italiani” come me. Vedrete il mondo ruotare in un modo diverso. Disponetevi a pensare che questa diversità sia un bene, nuovo e reale; un bene inevitabile e irrinunciabile. È molto più facile che pensare che sia un male. Se non ci credete, vi suggerisco di non lasciar perdere questa occasione di riflettere e di approfondire il senso del nostro destino comune: è troppo importante, e diventa ogni giorno più importante.

Gli scrittori migranti di tutto il mondo nella nostra lingua e pubblicati da venti anni in Italia scrivono per noi, perché possiamo ascoltare le loro storie e il loro immaginario che è già diventato un immaginario comune e non più singolare. E noi non lo sappiamo. Se vogliamo sapere come stanno le cose e verso dove esse stanno andando, abbiamo le storie, i poemi e le canzoni che ci guidano a capire, a vedere, ad ascoltare, a sapere il senso del mondo in cui viviamo che non è l’oscenità giornaliera che ci riversa addosso lo spettacolo-propaganda televisivo.

I migranti, come hanno scritto tanti autori mondiali della nostra epoca, da Rushdie a Brodskij, sono i protagonisti del nuovo secolo, come dice il poeta delle Antille, premio Nobel della letteratura per il 1992, Derek Walcott, nel componimento poetico “The Migrants” dell’anno 2000.

Il primo “seminario creolo” che proponiamo nel 2010 è stato reso possibile dalla collaborazione con la redazione della casa editrice Sinnos, con la giornalista Luciana Sica di “Repubblica” e con l’assessorato alle Politiche culturali della Provincia di Roma e dal generoso finanziamento di questo Ente pubblico che si è riconosciuto in questa impresa interculturale e civile comune. Gli artisti invitati vengono da tutte le parti del mondo e abitano da molti anni in Italia. Due di loro, Silvia Balossi – che è una musicista – e Roberto Saviano, sono itagliani.


[1] Dante e il suo tempo, e per mille anni all’indietro, non seppero dell’esistenza di Lucrezio e del suo poema. Per noi, invece, è semplice la mossa per farli incontrare e tenerli vicini nella mente e sulla carta. Ho scelto di ostentare la frase di Dante fino a comprendere il paragone con i pesci, perché esso rende concreto e significativo il senso della principale “mondanità” della stirpe umana. Per i pesci l’acqua è il principio assoluto di esistenza, senza acqua non c’e’ pesce, e così il mondo è la prima matrice, inaggirabile, di tutte le patrie identitarie degli umani.

[2] Per rendersi conto della fenomenologia quantitativa di tale “fenomeno”, si può consultare la banca dati Basili del Dipartimento di Italianistica e spettacolo dell’università della Sapienza di Roma <www.disp.let.uniroma1.it/basili2001>.

[3] Il pamphlet di Enzensbeger [Frankfurt/M., Suhrkamp 1992]  fu pubblicato in Italia da Einaudi nel 1993. Il mio libro fu pubblicato nello stesso anno da Carucci, Roma e poi riproposto in Creolizzare l’Europa, Roma, Meltemi 2003.

[4] Su questa tematica cruciale della modernità, mi permetto di segnalare i miei lavori più recenti: Mondializzare la mente, Isernia, Cosmo Iannone, 2006, Decolonizzare l’Italia, Roma, Bulzoni 2007 e L’educazione del te, Roma, Sinnos 2009.

DUE  RIGHE  SU  ARMANDO  GNISCI

Se non lo conoscete (possibile?) vi rimando a una mia recensione del maggio 2008 che trovate anche su questo blog. Ma spero di riparlarne presto oltrechè di ospitarlo. (db)

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

Un commento

  • Da figlia di emigranti italiani verso le Americhe che ha ritrovato la rotta verso “the old country” , sento la mia avventura e quella di milioni di altri riconosciuta in questo saggio di armando gnisci e mi sento rinvigorita nel costruire insieme a milioni di altri qui in Italia un futuro di ibridismo ben diverso dalla becera xenofobia che in questo momento ha gran seguito in questo paese.

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