Arriva Fairphone, lo smartphone etico

di Giusy Baioni (*)

Non sono in molti ad esserne consapevoli, ma la tecnologia ha un prezzo di sangue: per smartphone, tablet, computer, playstation è indispensabile la columbite-tantalite, abbreviata in coltan. Questo minerale rarissimo si trova concentrato per l’80% nella Repubblica Democratica del Congo. E il controllo delle sue miniere

è una delle cause del conflitto più sanguinoso dopo la seconda guerra mondiale. Stime attendibili parlano ormai di otto milioni di morti causati dalla guerra in modo diretto o indiretto.
Il coltan vale oro: quello che la gente del posto estrae scavando a mani nude e ricevendone in cambio pochi dollari, nel mercato internazionale ne vale migliaia. Certo, la guerra che insanguina le regioni dell’est del Congo è un conflitto complesso, innescato dal massiccio arrivo di profughi dal confinante Rwanda in fuga dal genocidio del ’94. Non sarebbe dunque corretto ascrivere alle ricchezze del sottosuolo tutte le colpe di un conflitto che alterna momenti di bassa intensità ad altri di violenza atroce. Tuttavia è proprio la ricchezza sterminata di questo Paese a scatenare appetiti indicibili, che armano, finanziano e fomentano il conflitto. Il coltan ne è una delle causa principali, ma non l’unica.
Racconta una storia congolese che Dio, dopo aver creato il mondo, passeggiava tra i continenti con un sacco sulle spalle, per distribuire equamente doni e ricchezze a ciascuno. Ma ad un certo punto inciampò e il sacco si rovesciò. E da quel giorno il Congo fu uno dei Paesi col sottosuolo più ricco al mondo. Oro, argento, rame, stagno, diamanti, uranio, petrolio, gas naturale, c’è di tutto. Per non parlare della foresta vergine più importante dopo quella amazzonica, che governi scellerati stanno svendendo a commercianti privi di scrupoli, e di uno dei bacini idrici più importanti al mondo, quello del fiume Congo: vicino alla foce si sta potenziando una diga che da sola potrebbe dar corrente a mezzo continente.
Uno scenario complesso, con tanti attori in prima fila ed altrettanti dietro le quinte. Da anni qui è dislocata la missione dell’Onu più grande al mondo, la Monusco (Monuc nella sigla francese) che conta 20mila caschi blu. Ci sono migliaia di ong per lo sviluppo, altre che lavorano per la pacificazione, altre per i diritti delle donne (tra le vittime più colpite dalla guerra, anche con la terribile arma dello stupro). Ma finché non si agisce sulle cause, il conflitto è destinato a perpetuarsi.
Esistono alcuni gruppi che da anni sensibilizzano sul ruolo del coltan e cercano da un lato di rendere consapevoli i consumatori, dall’altro di spingere le multinazionali produttrici di tecnologia a non finanziare la guerra comprando coltan di dubbia provenienza. Si sta lavorando sulla tracciabilità dei minerali, un po’ come anni fa si fece per i diamanti insanguinati della Sierra Leone. Negli Stati Uniti si è adottata una legge, il Dodd-Frank Act, che punta alla tracciabilità dei minerali congolesi e vincola le aziende Usa al rispetto di una serie di regole.

Ma qualcuno ha guardato più avanti. Un anno fa un gruppo di ragazzi olandesi (non a caso l’Olanda è la patria del commercio equo e solidale, che lì nacque negli anni Ottanta) ha creato una start-up con il sistema del crowdfunding: vogliamo realizzare il primo smartphone etico, chi di voi lo compra sulla carta? Se arriviamo a 5mila telefoni venduti, partiamo con la produzione. E così è stato: la produzione è partita e a inizio gennaio il primo lotto di oltre diecimila telefoni è stato consegnato. L’hanno chiamato Fairphone, telefono equo, come in inglese si chiama fairtrade il commercio equo. Si è creata una comunità che sui social network ha seguito in diretta la nascita e lo sviluppo del progetto, ha dato suggerimenti, ha chiesto verifiche, ha atteso impaziente e ora condivide gioie e valutazioni.
Ti arriva direttamente a casa in una scatolina di cartone riciclato. A differenza delle grandi case che costruiscono smartphone non apribili (se la batteria non va più, sei costretto a cambiare il telefono) qui puoi sostituire la batteria, puoi usare due sim (è dual sim) e potenziare la memoria. Non basta: il telefono è venduto senza caricabatteria. Se vuoi l’acquisti a parte, ma ti dicono che non serve, perché sicuramente in casa ne hai già uno che andrà benissimo. Ti spiegano che i rifiuti elettronici stanno diventando un problema enorme e che ciascuno può e deve far la sua parte nel ridurli e nel gestirli correttamente. Non solo: il 3% dei proventi viene reinvestito in progetti di riciclo per i rifiuti elettronici nei Paesi in via di sviluppo, cui si aggiunge la collaborazione con la fondazione Closing the Loop, che mira a ottimizzare il riuso e riciclo dei cellulari in tutto il mondo. E si punta a costruire un telefono con materiale riciclato al 100%. Per ora il sistema operativo è l’android, ma in un secondo tempo si conta di passare all’open source di Ubuntu Touch.
Il costo è abbastanza accessibile: 325 eurp, meno della metà dei modelli che vanno per la maggiore. Lo si ordina online, sul sito www.fairphone.com , e arriva direttamente a casa (pazientando un po’). Al grande valore aggiunto (etico) unisce una bella linea e le caratteristiche tecniche di uno smartphone a tutti gli effetti. Ai primi 10mila che hanno creduto nel progetto, è stata riservata una piccola sorpresa: all’interno del coperchio del vano batteria è inciso un messaggio di ringraziamento per aver reso possibile questa piccola utopia.
Ma come sappiamo che il coltan è davvero «conflict free»? E come la mettiamo con la produzione in Cina?
Coltan e cassiterite (il minerale da cui si ricava lo stagno) vengono dal Congo e si appoggiano a due progetti. Il primo, Solutions for Hope, parte nel 2011 per costruire una catena produttiva certificata del coltan. A oggi, si approvvigiona in tre miniere nel nord del Katanga (regione meridionale meno turbolenta del Kivu), di cui ha le concessioni, e lavora con la Coopérative Des Artisanaux du Congo, che raggruppa i minatori artigianali, adoperando un processo semimeccanizzato che garantisce maggiore sicurezza: si usano macchinari pesanti per rimuovere gli strati superiori di terreno che ricoprono il minerale, che è poi raccolto, pesato e stoccato con un processo che ne garantisce la tracciabilità. Viene acquistato sul posto dalla AVX Corporation (azienda costruttrice e fornitrice di componenti elettroniche) che lo vende direttamente sul mercato internazionale, in maniera che la maggior parte del guadagno resta nel Paese (dove parte degli utili vengono anche reinvestiti a favore delle comunità locali tramite una fondazione). Di qui, il carico è trasportato nella regione cinese del Guandong, dove il coltan viene trasformato in polvere e filo di tantalio, a loro volta esportati in Repubblica Ceca per essere assemblati in condensatori al tantalio, poi inviati alle multinazionali dell’elettronica, tra cui Fairphone. Finora sono state realizzate sei spedizioni per un totale di 145 tonnellate di minerale e sono già nove le grandi aziende che hanno iniziato ad acquistare coltan certificato tramite questo progetto.
La Conflict Free Tin Initiative invece viene annunciata nel settembre 2012 dal governo olandese, che riunisce alcuni partner industriali per avviare un programma di approvvigionamento di cassiterite certificata nel Sud Kivu, sperimentando nuove procedure di tracciabilità che assicurino la limpidezza della catena produttiva mediante il coinvolgimento della società civile congolese. Dopo una prima fase pilota, il progetto sta procedendo con l’individuazione di altri siti minerari da certificare.
I minatori hanno raddoppiato gli introiti, passati da 2 dollari a 4-6 al kg. Tale aumento ha consentito alle donne di accrescere il microcommercio locale e garantire così un’entrata migliore per le famiglie. Inoltre, le condizioni di lavoro sono più sicure, grazie all’acquisto di equipaggiamento idoneo per i lavoratori e di impalcature per stabilizzare gli scavi.
Stesso discorso vale per la fabbrica in Cina: anche qui l’obiettivo è garantire non solo un giusto salario, ma anche sicurezza e rispetto delle norme ambientali. Nella fabbrica è stato creato un fondo per migliorare paghe e condizioni di lavoro e aprire un confronto tra operai e datori di lavoro.
Certo, le sfide restano ancora molte e l’approccio è quello di affrontarle una alla volta, in un lavoro che è iniziato ma punta a migliorare sempre di più.

(*) Questo articolo di Giusy Baioni (giornalista freelance e nel direttivo di Beati i costruttori di pace) è stato pubblicato in febbraio dal mensile «Mosaico di pace». Sullo stesso tema vedi in blog  Benvenuto coltan nell’Europa vigliacca di Francesco Gesualdi. (db)

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