Arturo Paoli, La ribellione di un piccolo fratello – Valerio Gigante

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La morte di Arturo Paoli, piccolo fratello di Charles de Foucault, prete, missionario, teologo e saggista, spentosi a Lucca il 13 luglio, ha avuto un’eco enorme all’interno del mondo cattolico. Anzitutto presso le realtà ecclesiali di base, in Italia come in America Latina, che Arturo ha sempre frequentato e che lo hanno incontrato, letto, seguito nel corso dei decenni della sua attività pastorale e missionaria. Ma anche presso la Chiesa istituzionale e l’opinione pubblica laica. Sarà per i suoi 102 anni, che da tempo ormai lo consideravano una sorta di icona della “Chiesa dei poveri”. Sarà per la mitezza con cui Arturo si esprimeva sempre, pur veicolando contenuti spesso radicali, e comunque radicalmente evangelici; sarà per una certa notorietà mediatica che negli ultimi anni lo aveva accompagnato (a partire almeno dall’incontro che Veltroni, allora candidato alla presidenza del Consiglio, volle avere con lui nel 2008), ma la mole di articoli, interventi, ricordi pubblicata in questi giorni dimostra come Arturo Paoli abbia raggiunto un largo consenso presso l’opinione pubblica credente e non credente che pochi teologi, presbiteri, missionari della Chiesa postconciliare hanno mai raggiunto.

Nato a Lucca nel 1912, laureato in Lettere a Pisa nel 1936 (allievo del grande italianista Luigi Russo), Arturo Paoli entrò l’anno successivo in seminario, per venire ordinato prete nel giugno 1940. Dopo l’8 settembre partecipò allaResistenza, collaborando come referente a Lucca della rete clandestina Delasem (Delegazione per l’assistenza degli emigranti ebrei) e dando sostegno a circa 800 ebrei in fuga dalla persecuzione nazifascita. Per questo suo impegno, nel 1999 a Brasilia, l’ambasciatore d’Israele gli consegnò la più alta onorificenza attribuita da Israele a cittadini non ebrei: quella di “Giusto tra le nazioni”, per aver salvato nel 1944 a Lucca la vita di Zvi Yacov Gerstel, allora giovane ebreo tedesco di 22 anni, oggi tra i più noti studiosi del Talmud, e di sua moglie incinta. Per la stessa ragione, nel 2006, l’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi decorò fratel Arturo, insieme ad altri tre sacerdoti lucchesi (don Renzo Tambellini, don Guido Staderini e don Sirio Niccolai), con la medaglia d’oro al valor civile. Ma di premi ne ricevette anche in America Latina. Come quello che gli fu consegnato dal Movimento dei “Sem Terra” brasiliani per aver protetto, con la sua presenza e capacità di mediazione, una cinquantina di famiglie durante un’occupazione, inducendo la polizia a non irrompere con la violenza nell’accampamento dei campesinos e delle loro famiglie. Di premi Arturo Paoli ne ha anche rifiutati. Nel 1995, nello stesso anno in cui il sindaco lo fregiava del diploma di partigiano, scelse di non ritirare la medaglia d’oro che annualmente la Camera di Commercio assegna ai lucchesi che hanno onorato la città nel mondo:

«Io torno in Brasile e non posso tornarvi ostentando sul petto una medaglia che premia la mia attività di “missionario”, rappresentante di una civiltà cristiana che spoglia della terra esseri umani che vi vivono da secoli prima di Cristo. E questa spoliazione dura dal 1492», scrisse in quell’occasione.

Dopo la guerra, Paoli restò a Lucca fino al 1949, come assistente dell’Azione Cattolica. Poi l’associazione lo chiamò a Roma come vice-assistente nazionale. Erano gli anni della presidenza di Luigi Gedda, che aveva reso l’associazione una struttura collaterale alla Democrazia Cristiana, cinghia di trasmissione tra i vertici ecclesiastici e la politica, in un impegno diretto e capillare, nelle parrocchie e nelle diocesi, contro il marxismo e l’avanzata delle sinistre in Italia. La linea di Gedda, che intendeva imprimere all’associazione una forte svolta in senso conservatore e clericale, si scontrò con quella di altri giovani dirigenti dell’Ac dell’epoca, come Mario Rossi e Carlo Carretto, sostenuti, sotto il profilo teologico e pastorale, soprattutto da Paoli. «A quel tempo – raccontò successivamente Arturo al portale dell’Azione Cattolica dialoghi.net – i giovani cattolici erano visti come coloro che dovevano amare e voler bene al papa. E basta. Era il retaggio di un certo anticlericalismo vissuto sulla breccia di Porta Pia. I giovani cattolici dovevano difendere il papa da questi attacchi». «Con Carlo capimmo subito che si poteva fare di più: preparare i giovani a impegnarsi nella costruzione del Regno di Dio, qui, oggi, sulla Terra». Paoli era parte di quella generazione di giovani dell’Azione Cattolica usciti dall’antifascismo e dall’esperienza resistenziale che, al contrario di Gedda, di papa Pacelli e di tutto l’establishment della Chiesa, guardavano alla secolarizzazione senza paura; anzi, come una possibilità di rinnovamento ed aggiornamento del messaggio cristiano. Non erano però maturi i tempi, visto un contesto storico in cui tutto ciò che anche lontanamente potesse apparire come laico e di sinistra veniva ostracizzato. Del resto, dal 1949 era stata promulgata la scomunica nei confronti del marxismo, del comunismo e di tutti i suoi sostenitori. Così, nel 1954, Mario Rossi, che ricopriva la carica di presidente della Gioventù Italiana di Azione Cattolica (Giac), rassegnò le sue dimissioni, seguito da quasi tutti i dirigenti centrali e da moltissimi dirigenti diocesani che poi entrarono in settori chiave della società e della cultura.

Due anni prima, dall’Azione Cattolica se ne era andato anche l’amico Carlo Carretto, anche lui presidente della Giac, in polemica con la cosiddetta “operazione Sturzo”, il tentativo cioè, sollecitato dallo stesso Pio XII e organizzato da don Sturzo, di formare in occasione delle elezioni comunali di Roma del 1952 una lista civica aperta anche ai monarchici e al Msi. Un progetto che naufragò per l’opposizione di una parte della Dc e l’aperta contrarietà di De Gasperi, e al quale Carretto si era opposto con fermezza, nonostante il sostegno che Gedda aveva garantito da parte di tutta l’Azione Cattolica.

All’inizio del 1954, poiché il Vaticano aveva fatto capire di non gradire la sua presenza in Italia, Paoli si imbarcò come cappellano sulla nave argentina Corrientes, destinata al trasporto degli emigranti. Fu durante uno di questi viaggi, concessi gratuitamente dal presidente argentino Peron per favorire il ricongiungimento de familiari italiani agli emigrati in quel Paese, che Paoli incontrò un piccolo fratello della comunità di Charles de Foucauld e decise di fare un periodo di noviziato a El Abiodh, in Algeria, al confine con il deserto, dove ritrovò per un breve periodo l’amico Carlo Carretto, che aveva fatto la sua stessa scelta. Terminato il periodo di “deserto”, negli anni in cui scoppiava la guerra di liberazione algerina, fratel Arturo lavorò, ad Orano, come magazziniere in un deposito del porto. Nel 1957 venne incaricato di fondare una nuova Fraternità a Bindua, nelle miniere di Monterangiu, in Sardegna.

Fu indotto però dalle gerarchie ecclesiastiche a lasciare definitivamente l’attività pastorale in Italia. Si trasferì quindi in Argentina, a Fortin Olmos, tra i boscaioli che lavoravano per una compagnia inglese del legname. Paoli partecipò in quel periodo alle lotte contro la multinazionale; e poi alla successiva creazione di una cooperativa di lavoratori.

Sarebbe però riduttivo pensare al contributo di Arturo Paoli alla temperie post conciliare solo nei termini della sua intima vicinanza ai diseredati ad alle loro istanze, sulla scia dell’insegnamento di Charles de Foucauld. Paoli ha conosciuto e frequentato molti dei protagonisti della intensa stagione di rinnovamento politico ed ecclesiale in America Latina, da Salvador Allende a Pablo Neruda; da Fidel Castro a Oscar Romero, da Pedro Casaldaliga a Leonidas Proaño; da Juan José Gerardi a Leonardo Boff. Inoltre, attraverso la sua sterminata produzione dilibri, articoli, saggi, è stato decisivo per la nascita e la diffusione di quella sensibilità ecclesiale, politica e pastorale che negli anni ’70 – sulla scia della riflessione del teologo peruviano Gustavo Gutierrez – prese il nome di Teologia della Liberazione. In particolare, c’è un testo del 1969, scritto pochi mesi dopo la celebre Conferenza di Medellin dell’episcopato latinoamericano (un organismo nato negli anni ’50 come strumento per arginare la secolarizzazione e la scristianizzazione del Sud America, che divenne invece in quella fase espressione di una radicale vicinanza della Chiesa e dei vescovi alle istanze che venivano dalle popolazioni oppresse del Sud del Mondo), che lo stesso Gutierrez considerò fonte di ispirazione per la sua successiva produzione: si intitola Dialogo della liberazione: attraverso il racconto della sua esperienza in Argentina, Arturo svolge considerazioni che aprivano le realtà ecclesiali più avanzate verso la prospettiva socialista.

Nel 1971, con la nascita di un nuovo noviziato a Suriyaco, nella diocesi di La Rioja, Arturo si spostò nuovamente, divenendo amico del vescovo di quella diocesi, monsignor Enrique Angelelli, vicino alle istanze dei minatori e dei lavoratori rurali, tra le poche voci che nella Chiesa istituzionale si distingueranno nella chiara denuncia dei crimini commessi dalla nascente dittatura militare, che se ne sbarazzerà uccidendolo (e simulando un incidente automobilistico) nel 1976.

Intanto, nel 1974, poco dopo il colpo di Stato guidato da Pinochet, il nome di Arturo Paoli era comparso sui muri di Santiago del Cile al secondo posto di una lista di proscrizione di persone da eliminare da parte di chiunque le avesse incontrate. In Argentina (dove era tornato Peron ma si preparava la svolta autoritaria del colpo di Stato del 1976) era infatti stato accusato di esercitare un traffico d’armi con il Cile a sostegno della resistenza a Pinochet. Arturo in questo momento si trovava in Venezuela, come responsabile dell’area latinoamericana dell’Ordine: avvertito da amici di non rientrare in Argentina perché ricercato vi tornerà solo nel 1985. In Venezuela Paoli risiedeva prima a Monte Carmelo, poi alla periferia di Caracas. Dal Venezuela di tanto in tanto si spostava in Colombia, Brasile, Messico. All’inizio degli anni Ottanta visitò anche il Nicaragua sostenendo apertamente la rivoluzione sandinista, avvenuta nel 1979 (tre preti erano entrati a far parte del governo rivoluzionario), nonostante la forte opposizione del Vaticano e di papa Giovanni Paolo II. Poi, dal 1983, Paoli decise di stabilirsi in Brasile. Prima a São Leopoldo, nello Stato del Rio Grande, a contatto con la realtà femminile, in particolare con quella, drammatica, delle donne costrette a prostituirsi nei bordelli (alla comprensione dell’alterità femminile Paoli ha dedicato, tra l’altro, molte delle sue pagine; a partire dal dialogo con la giovane Gaudy alla base di Camminando s’apre cammino, del 1977; fino a Il sacerdote e la donna, del 1996) e in seguito, dal 1987, a Boa Esperança, un barrio della periferia di Porto Meira, nella città di Foz do Iguaçu: una favela caratterizzata da miseria e degrado civile all’interno della quale fratel Arturo organizzò l’Associazione Fraternità e Alleanza, che promuove tuttora progetti di sviluppo rivolti alla comunità locale.

Dal 2006 Arturo Paoli è tornato stabilmente a vivere in Italia, a Martino in Vignale,sulle colline di Lucca (prima di allora tornava ogni anno, per brevi periodi – specie durante l’estate – nel nostro Paese, risiedendo soprattutto presso la comunità fondata da Carlo Carretto a Spello, in Umbria, e partecipando alle attività dei Piccoli Fratelli, rivolte particolarmente ai giovani). In quest’ultima parte della sua vita si è particolarmente impegnato in attività di incontri e testimonianze, proseguendo la pubblicazione di libri. Mantenendo un atteggiamento sempre piuttosto schivo, specie nei confronti di quell’aurea di celebrità e consenso che attorno a lui, man mano che si avvicinava alla fatidica soglia dei cento anni, si stava formando attorno a lui.

(Fonte: Adista)

da qui

 

 

 

redaz
una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere 'uno' che fa parte a sé, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un'illusione, peraltro ingenua, di un'unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone.

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