ascoltando Stefano Giaccone

ecco un musicista poco conosciuto e molto bravo

Il francescano della canzone d’autore – Giorgio Maimone

La povertà dei dischi di Stefano Giaccone è sconcertante. Qualcosa che mette addosso malinconia. Una chitarra, una voce, programmi craccati e niente microfoni per 13 canzoni che definire artigianali è già un pregio. Eppure Stefano è un grande e non fa mai mancare notizie discografiche di sé. I dischio sono abborracciati, sporchi, imprecisi, difettati (la traccia 6 e la 10, informa la copertina, sono registrate a un volume più basso. Per sentirle bisogna alzare il volume dello stereo). Insomma, cose che neanche in un demo casalingo. Eppure il personaggio è di grosso spessore e la domanda vera da porsi è perché uno come lui, pur avendo scelto di stare fuori dal sistema, non riesca a garantirsi condizioni di registrazione più decenti.

A meno che anche questo francescanesimo discografico non sia una scelta di una personalità che, dai tempi dei Franti in poi (ma anche prima) né si spezza, né si piega. E’ difficile fare una recensione seria di questo disco, che non è né bello né brutto. E’ un disco estremo, da ascoltare solo perché lo si vuole e perché si ama nel profondo Giaccone. Ci sono pure quattro cover (Ligabue, Dylan, Silvio Rodriguez e Eddie Vedder), ma non sono di sicuro per assicurarsi passaggi radiofonici. Stringe il cuore.

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Come poteva essere bello il cielo sopra Torino! – Leon Ravasi

“Dal vivo, in studio, da bastardi” è il sottotitolo di questo disco che parte da subito per essere un’imperdibile del 2006. E l’imperdibile del 2006 è un album che in realtà viene da molto lontano, dopo un viaggio imprecisato nello spazio-tempo, ritornando a noi da una dimensione parallela che è quella di dove dormono gli eroi. Ci sono esperienze troppo belle per poterle perdere per sempre: come tutte le cose belle è normale che si frammentino ed esplodano in pulviscolo minuscolo. Ma è destino che dal caos primigenio debba sempre riemergere qualcosa che sembra avere a che fare con la vita o che è la vita stessa. I Franti ci piombano addosso da anni compresi tra il 1981 e il 1985, grazie a un paziente lavoro si Stefano Giaccone e Marco Pandin.

Non è un disco nuovo. E nemmeno potrebbe: i Franti si sono sciolti in qualche modo nel 1988 dando vita a una miriade di altri progetti-pulviscolo: dagli Environs (due Lp più un antologico, sempre a cura di Marco Pandin e della sua Stella Nera), agli Orsi Lucille (due Lp), dagli Howth Castle (2 Lp e 2 Cd) alla Banda di Tirofisso (3 ep), da Kina (solo Stefano) agli Ishi (solo Lalli), fino ai progetti solisti di Stefano Giaccone e Lalli, per l’appunto sassofono-voce e voce solista dei Franti. Gli atlri erano Massimo D’Ambrosio (basso elettrico), Vanni Picciolo (chitarra elettrica) e Marco Ciari (batteria). 

In totale i Franti hanno inciso quattro Lp, di cui uno in coabitazione con i Contrazione, ma questo è bastato per consacrarli come band di culto, un culto che è cresciuto rapidamente dopo la loro prematura “dipartita” dal novero delle band punk rock (ma il termine era riduttivo: Giaccone dice che la musica dei Franti poteva definirsi bene come “zibaldone, una raccolta di varie cose per noi indispensabili”).

Essenziale riportare quanto dicono loro stessi (I Franti) di questo disco: “due brevi parole per chiarire i contenuti di questo cd. franti, da sempre, si trova meglio sul versante della negazione piuttosto che su quello della descrizione positiva e formale di ciò che, in realtà, è più processo che fatto compiuto, statico, assoluto. tra sei mesi potremmo dire, di questo album, l’esatto contrario o “pensarlo” con un taglio di luce assai differente. perciò restiamo alla negazione, al ciò che “non è”:

– non è un album dal vivo – non si vogliono “resuscitare” ore, odori, tempeste e tiramenti di allora. da “gates of eden” a “white rabbit” c’è un tunnel del vento, il senso ludico e primitivo di stare dentro la tua pelle, per un sogno grande di lotta estrema, di vita, di esserci insieme. qui non si consuma nulla, non ci si diverte a pagamento. questa musica brucia come allora; questo, positivamente, il senso del nostro proporvela.

– non è un album di alternate takes – escludendo (forse) quelli di charlie parker, i cd con decine di versione alternative ci appallano a morte. roba per studiosi o collezionisti. qualche volta il tuo produttore artistico (colui che è pagato dagli uomini in poltrona per farti fare un disco che si venda) massacra una take o la lascia fuori; qualche volta anche l’artista di-fuorista (come amava dire demetrio stratos) deve preferire una versione all’altra. noi qui si è messo “elena 5 e 9” come omaggio al nostro fratello paolo regis e perchè questa versione ci piace quanto quella pubblicata su “il giardino delle quindici pietre”

– non è un album rimasterizzato – mai avuto i soldi per comprare le bobine multitraccia a fine sessione. per cui i mix sono quelli di allora, ripuliti un po’ da software utilmente servizievole. una scopa elettronica per ragnatele, niente altro. potete trovare così la primissima bordata di franti, la cassetta “a/b” per la prima volta nello spolvero del digitale… e, ancor più sorprendente, due dei tre brani registrati come demo dal gruppo luna nera, incarnazione mediana tra il primo franti strumental-fintojazz (post-rock!?) del ’79-’80 e il secondo del 1982, quello di “a/b”, appunto.
luna nera fu storia vera, con tre esibizioni vive, intense prove e energia. coglie l’esatto momento in cui musicisti cresciuti con il rock anni ’70 si avventurarono nei suoni new wave e punk dei primi ‘80, felicemente confondendo siouxsie, gianna nannini, martha and the muffins e stormy six.

– non è un album di ricordi – nel box “non classificato” (vinile nel 1987 e cd dal 1992 in avanti) potete ascoltare “gloria” di van morrison, dagli studi di radio torino popolare. qui abbiamo aperto un altro spiraglio con “voghera” e “l’uomo sul balcone di beckett” ma, zappa docet, insertando altri live e interviste. quindi niente è più in “quel luogo del tempo” ma solo qui, presente, mentre lo ascolti.

– non è un album celebrativo – nonostante una fama alcune volte opposta, noi si è fatto festa, assai spesso. festa della nostra vita, con le unghie e con i denti. non c’era alcun luogo in cui arrivare, se non al centro della propria rivolta e della propria poesia in musica”.

Insomma è un album “sporco, cattivo e incazzato”. E’ un album di “allora” da ascoltare ora. E proprio per questo ci piace tanto. E proprio per questo non ne possiamo fare a meno! C’è stato, c’è e ci sarà di meglio. I lavori di Lalli da solista e di Stefano Giaccone in comitiva o solitario mi piacciono di più. Ma prima c’erano i Franti! Partiamo da lì e difficilmente potremo sbagliare nel farci un’idea.

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Disco pulito, lineare e coraggiosoGiorgio Maimone

Sarebbe un album di cover, ma non spaventatevi: tranne un passaggio dai dintorni di Tenco, Guccini, De André, Fossati, De Gregori e Jannacci, peraltro sui versanti meno conosciuti, quasi un viaggio sulla faccia nascosta della luna, per il resto le cover sono di Lalli, Mario Congiu, i Truzzi Broders, i primi Perturbazione, Paolo Manera e lo stesso Stefano Giaccone

Quando si parla di faccia nascosta della luna si parla di una scelta che privilegia “Da mae riva” di De André, ultimo episodio in coda a Creuza de Ma“Canzone della triste rinuncia” di Guccini dall’ahimé misconosciuto Stanze di Vita Quotidiana. Per Jannacci si tratta di una mai coverta “Il monumento” (nel senso duplice che non ne hanno mai fatto cover e che finora non l’avevo mai sentita). Stringendo, stringendo di un album di cover gli unici pezzi noti sono “Vedrai vedrai” di Tenco, “Lindbergh” di Fossati” e “Le storie di ieri” di De Gregari, cantata anche da De André e dagli ultimi Yo Yo Mundi.

Una scelta inconsueta se è vero che, nel giro della musica italiana, le cover servono per garantirsi passaggi radiofonici (vedi il bel libro curato da John Vignola e scritto da metà redazione del Mucchio “Su la testa”. Ma un po’ tutta la carriera di Stefano Giaccone non ha seguito i binari tracciati: personaggio volutamente marginale e quindi intimamente seminale della scena torinese, ha sulle spalle una parte del fenomeno Franti e molte contribuzioni al movimento musicale sviluppatosi all’ombra della Mole. Un percorso quasi analogo a quello seguito del suo co-equipier e co-intestatario del disco Mario Congiu che in questi anni abbiamo avuto il piacere di vedere e sentire (dietro o davanti alla consolle) con Carlo Pestelli, Federico Sirianni, la stessa Lalli e anche in proprio (forse il lavoro meno convincente tra quelli citati).

Il disco è un disco povero e raccolto, ma non per questo scarno: un violoncello qua, un violino là, un clarinetto ancora un passo oltre, una fisarmonica, un’organo, percussioni qua e là, spruzzate di basso e batteria, ne esce un disco di musiche pacate, dove grande rilevanza viene dato al testo e alle storie narrate. Tra le cover note da applausi “Da mae riva” e “Lindberg”, sufficienti “Le storie di ieri” e “Vedrai vedrai”, un tono sotto la “Canzone della triste rinuncia”.

Tra gli episodi a me meno noti “La corda di vetro” dei Perturbazione, “Fabbrica” di Congiu e “T’ho visto in piazza” dei Truzzi Broders. Non lasciano tracce particolari i brani di Lalli e di Giaccone, ma la sensazione finale è di un disco di assoluta onestà e pulizia, dal piacevolissimo mood di fondo lento e suadente, ben accompagnato dagli strumenti (produzione e arrangiamento di Congiu) e ben cantato. Un velluto morbido su cui stendere sogni di ascolti già affrontati

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Echi di DeAndré ed empito civile: una cannonata alla mediocrità – Leon Ravasi

Questo è uno di quei magnifici dischi che ogni tanto capita di sentire ed ascoltandoli si resta turbati di fronte alle possibilità non sempre esplorate della musica e delle canzoni. E non esplorate per voglia o per errore, ma comunque volontariamente. Sì, lo so: è inevitabile che si alzerà qualcuno, l’idiota di turno, a dire “sì, bello, ma che palle!”. Sbaglierà due volte: una per essersi alzato, l’altra per non aver capito che parlare di politica si può, parlare di società si può e contemporaneamente si possono fare canzoni valide, interessanti, intense e dotate di una forza interiore che altri se le scordano! Insomma Stefano Giaccone ha fatto l’ennesimo bel disco, questo ancora più centrato delle sue ultime e sempre dignitosissime prove: un disco che emoziona, interessa, fa pensare. E scusate se è poco …

Sono 11 brani, per la maggior parte sua, ma con l’ospitalità ad un brano di Marco Peroni ed Edoardo Cerea (“Senza sicura”), un’altro dei 24 Grana (“La neve”) e uno che è la versione italiana di un brano di John Doe (“Tuo per sempre”). Il disco è eminentemente chitarristico, con piccoli interventi di sax e di piano che afferrano l’anima e la trascinano sull’asfalto fino a farla sanguinare. Stefano Giaccone non va preso né a piccole dosi, né con animo leggero. Non è tra noi per cantarci storie consolatorie o tranquille, ma il suo ruolo è quello dell’agitatore di anime. Un ruolo che gli pare ritagliato addosso.

L’album è stato registrato in Galles e l’arrangiamento dei brani è stato curato dal compositore, arrangiatore, chitarrista e polistrumentista Dylan Fowler, un nome noto nel campo folk-jazz internazionale. Il disco è stato sostanzialmente registrato in presa diretta in un vecchio mulino immerso nella foresta delle Black Mountains. L’idea, ampiamente realizzata si può dire a posteriori, era quella di dare l’idea di un suono da piccola stanza, da piccolo club. Pochi strumenti, ma qua e là emerge ora un violino, ora una tromba e poi, sempre presente il contrabbassistaNathan Thomson, australiano. A rafforzare la magia de brani ogni tanto si aggiunge, sullo sfondo la voce eterea ma presente di Tea Hozdic.

Un dato che colpisce nel disco, e positivamente, è la sua unitarietà. Non è un concept e non ha neppure temi comuni, ma è un disco che ha un “tono” comune, un suono e un mood unitari. Tempi rilassati e spazio tra i suoni per capire bene le parole che meritano sempre di essere ascoltate. E’ come un lavoro classico dei cantautori storici: i brani vanno ascoltati e le storie vanno vissute, a partire dalla prima “Canzone per Bea“, dedicata a un amica suicida, fino all’ultima “Se guardo bene” che ha tutta l’aria di una poesia musicata. Stefano Giaccone parla di cose pesanti, ma, in effetti il mondo, se lo guardiamo bene, è un luogo difficile. “Se guardo bene / il quadro è sempre stato lì/ un po’ storto e un po’ sbiadito / e forse anche le bandiere / erano fine, dipinte. // Se guardo bene / c’è che non posso spostarmi sempre / per scansare i delfini naufragrati / che se l’autunno ha preso piede / si faccia solo quello che ci conviene“.

Non c’è remissione, non c’è pietà lungo gli undici brani: se il calice è amaro, sarà necessario che ce le vuotiamo tutto fino in fondo. “Quel giorno” è una lucida analisi del mal di vivere, espressa con una maestria di suoni disidratati degni dei Green on red o del migliore James McMurtry. Ballata lenta su testo lirico per una sofferenza a portata di dita, in cima a ogni corda di chitarra: “E arriva quel giorno in cui capisci il silenzio / giorni bruciati e il colore rimasto è il nero / E arriva quel male di alzarsi il mattino / e pensare che il numero è zero”. Basta averlo provato per sapere che è vero e che è dolore allo stato puro.

“Canzone con dito medio” è puro De André; è la sua personale “Domenica delle salme”. Ce n’è per tutti. E la voce spazia davvero tra quei toni bassi e caldi che fanno tanto Fabrizio. L’empito civile e l’urgenza del dire fanno il resto. “La parola “Pace” offesa ai balconi / si fa ricordo di un verso / si fa ricordo di un monito oscuro”. Essenziale. Necessaria.

“Nessuno chieda” è canzone politica fino al midollo. Lungo una tradizione che va da Joe Hill a Woody Guthrie a Ivan Della Mea: “Nessuno chieda il permesso di entrare / in una morte a vent’anni / nè sbirri né targhe o canzoni / solo quel corpo tra gas e gipponi / e quell’anima nera di noi italiani / l’impero del duceo l’impero delle televisioni”.Carlo Giuliani, Genova e tutti quelli che c’erano ringraziano ancora. Pregnante. Militante. Orgogliosa. Resistente.

Potrebbe sembrare che “Ridere” si conceda davvero una pausa, ma non è così. Stefano Giaccone è cantante che non sorride. Come Massimiliano Larocca è uno che ci crede, come Alessio Lega è uno che vuole schierarsi e dalla parte giusta. La musica concede però sì una pausa, un piccolo spostamento verso ritmi più rock e meno blues, per quanto si possano applicare queste categorie elementari: “Oggi c’è caldo, oggi c’è vento / le strade son piene di speranze malspese / di immondizia e di cuori, di bestemmie e sirene”. Pausa, ma col coltetto tra i denti.

“Morecambe bay” è ancora pura canzone politica, dedicata a un fatto di cronaca: la morte il 9 febbraio 2004, quando 21 immigrati di origine cinese muoiono affogati in Gran Bretagna, a Morecambe Bay, mentre raccolgono i frutti i mare per i ristoranti di lusso della costa. “La vita di un uomo, la vita di una donna è leggera / la trovi in silenzio / la trovi annegata / nel più svenduto dei giorni /e va a picco come sasso gettato / come miseria”. Triste. Di cartavetra. Scabrosa e limpida.

La quinta scusa / segue il terzo addio tra i denti/ la grammatica del vento / gioca nel tuo cortile d’assente“. E’ tutto testo la “Falsa cronaca dell’abbandono“. La musica è appena un accenno. Un piano languido si appoggia alla notte, la voce raddoppia. E nello sfumare del ritornello “Semplice, se ne vuoi / tenebre te ne vai” sale il pieno orchestrale, fino alla fine dei 5 minuto della canzone.

Le tre cover vivono tutte sotto lo stesso tetto: tra l’ottava e la decima posizione. “Senza sicura” è forse il brano che meno convince. Tutto sommato un po’ risaputo sia nella musica che nel testo. Passiamo oltre? No, perché comunque ha una sua dolcezza e una tranquillità di fondo che si fanno seguire. “Tuo per sempre è invece su un’altro piano. E’ una cover, ma, meglio, la traduzione di una canzone di John Doe. Ed è bellissima! Una delle perle del disco. La canzone da cui non si può solo passare senza fermarsi. E’ un viale a due corsie da percorrere in macchina, da un capo all’altro, coi finestrini abbassati a guardare i piccoli fiori che iniziano ad aprirsi sugli alberi. Fiori bianchi e fiori rosa che sfidano la pioggia per mostrarsi al meglio. Violini d’acqua e armonie di pianto: “Scrivimi cara / due parole per me / fami un disegno / dimmi dove sei / ti penso dove sei / tuo per sempre / risponderò”.

“La neve” è invece incredibilmente Luigi Tenco, più tenchiana di Luigi Tenco. E’ un brano dei 24 Grana che Giaccone fa suo con totale aderenza. “Mi sono innamorato di queste canzoni, diversissime tra loro e le ho interpretate” dice Giaccone, come se fosse facile o naturale. Ma bisogna crederci e qui il sax e il sapiente tocco degli altri strumenti sanno creare un’atmosfera che potrebbe anche essere oggi, più facilmente un ieri. La foto della neve, in ogni caso è naturalmente un bianco e nero.

Sono canzoni emotivamente intense, intime, raccolte. “Tras os montes“, titolo sibillinamente in portoghese (Pessoa?) che segue di poco il disco dei Franti dal titolo in spagnolo (“Estamos en todas partes”) per questo apolide della musica. Canzoni da ascoltare in silenzio, pensandoci, prendendosi 49’27” di pausa per darsi tutto il tempo necessario per farsi pervadere da musica e parole, per lasciare entrare le emozioni e per trovare la strada e la mappa del cuore di Giaccone. Canzoni da sorseggiare, che richiedono tempo, che richiedono calma e attenzione e la voglia di capire. Fatelo. Non ve ne pentirete. E’ uno dei migliori dischi che potrete ascoltare quest’anno.

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Nessuno chieda – Stefano Giaccone

“Nessuno chieda” è canzone politica fino al midollo. Lungo una tradizione che va da Joe Hill a Woody Guthrie a Ivan Della Mea: “Nessuno chieda il permesso di entrare / in una morte a vent’anni / nè sbirri né targhe o canzoni / solo quel corpo tra gas e gipponi / e quell’anima nera di noi italiani / l’impero del duceo l’impero delle televisioni”. Carlo Giuliani, Genova e tutti quelli che c’erano ringraziano ancora. Pregnante. Militante. Orgogliosa. Resistente. (Leon Ravasi,)

 

Nessuno chieda il permesso di entrare
in una morte a vent’anni
a questo sangue in comune
a questo morire da cani
un salto veloce dai compagni
una parola dolce nel cuore
a quella lurida piazza
dove un ragazzo muore

Nessuno chieda il permesso d’entrare
in una morte a vent’anni
né sbirri né targhe o canzoni
solo quel corpo tra gas e gipponi
e quell’anima nera di noi italiani
l’impero del duce o l’impero delle televisioni
quell’infame scordare di noi italiani
quel resistere sempre di noi italiani

Nessuno chieda il permesso di entrare
in una morte a vent’anni
per ricordare un volto o una voce
per il mestiere o per posare la croce
di quell’anima nera di noi italiani
l’impero del duce o l’impero delle televisioni
quell’infame scordare di noi italiani
quel resistere sempre di noi italiani

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stefano l’ho¨ conosciuto, più che per la sua produzione da solista (una dozzina tra singoli, dischi e cd) per aver fatto parte dell’open group franti, attivo negli anni ottanta e recalcitrante alle definizioni di stile come alle influenze, riconosciuto come l’espressione più libera ed originale del rock indipendente italiano di allora. a un certo punto franti è scomparso, ma  è rimasto vivo in altre formazioni, incroci e collaborazioni che perdurano tutt’oggi. stefano, che di franti era una delle teste oltre che voce e sassofonista, dopo una collaborazione con gli anarcopunks aostani kina, ha continuato a percorrere una strada musicale tutta sua, tracciata in grande parte nei territori della canzone d’autore e con una voglia addosso di sperimentare che s’è spesso trasformata in necessità espressiva primaria.
a volte, stefano s’è fermato sul ciglio della strada a raccontare le sue storie personali di ieri e, volentieri, a mettere addosso la sua voce e le sue mani a canzoni scritte da altri. per quel che conosco, non me la sento di dire che stefano si trova a suo agio davanti a un microfono e con una chitarra in mano: direi piuttosto che questa situazione spinge a tavoletta il pedale dell’acceleratore delle sue nevrosi e serve a far prendere alle sue parole una certa temperatura. quel che viene fuori dalle sue canzoni è un continuo girovagare agitato tra i versi, un intermittente sentirsi mal sintonizzato con tutto il mondo intorno, un sentirsi “spostati” e a disagio tra occasioni sprecate e cose che non s’è trovato modo di dire, o che si è arrivati a dire troppo tardi, o troppo male, con le parole sbagliate. molte canzoni di stefano danno fastidio perché incapaci a offrire poesia tradizionale, o un sogno di speranza, o un qualche cosa di sentimentalmente commestibile. i suoi versi sono immagini reali in cui specchiarsi, e rimandano indietro un quadro complessivo di indecisione e precarietà, di sbagli e meschinità perché parlano di cose che succedono e che era meglio non fossero successe. altre sono dialoghi con gli spettri, da victor jara a carlo giuliani all’amico ritrovato all’innamorata forse mai stata tale. altre sono sogni ad occhi aperti, sogni non realizzati né realizzabili che fanno riassaporare il gusto amaro della sconfitta, della frustrazione, della lontananza.
questa sua essenziale fragilità, perché¨ di questo alla fine si tratta, a volte si veste di aggressività, e allora ecco che stefano pesta la grancassa e fa la voce grossa, ecco che stefano scrive usando la penna come una lama tagliente come se avesse sulle spalle tutto il peso del mondo, ecco che stefano s’incazza e ti manda affanculo e ti volta le spalle e se ne va via per poi richiamarti due giorni dopo, la voce mista di sorrisi e nebbiolo e amicizia vecchia (quell’amicizia che profuma di casa, che non si scioglie neanche con la grande distanza geografica, o con una diversa opinione, o con un prestito mai restituito). E’ per tutto questo che gli voglio bene: per il suo modo così incasinato di essermi assieme amico/compagno e controparte, per il suo giocherellare con i sentimenti così distante dalla mia pratica eppure così ossessivamente familiare come il susseguirsi delle stagioni, per il come sa mettere in fila le parole una dietro l’altra in una collana dentro una poesia o un testo qualsiasi facendogli prendere fuoco (ed è¨ questa la qualità che più gli invidio).
il giardino dell’ossigeno

stefano giaccone va e viene, spirito inquieto e problematico in questÂ’ultima dozzina d’anni in viaggio altalenante perenne tra torino e il galles. e non è solo il casino personale sempre arruffato e abbottonato storto nelle piogge battenti della vita o unÂ’indecisione geografica, la sua, che lasciano il segno, un segno profondo sulle cose che scrive e che canta. è un sentirsi con le radici ficcate nel posto sbagliato “come se il mio copione fosse tutto da rifare” -come a poche frasi dall’inizio della prima canzone canta lui proprio qui dentro- oppure no, è un sentirsi fondamentalmente a posto quando il mondo tutt’attorno ha qualcosa di strano che non va. qualche mese di fuga forse, o una pausa dagli affetti, o un’avventura corsara in sardegna andata com’é andata e finita quando doveva finire ed ecco che è nata una manciata di canzoni. stefano lo conoscete: raccoglie parole come pietre e mette insieme mosaici, e in questo suo mosaico di inizio 2010 mischia pensieri affilati e pozzi di stanchezza, ragionamenti lucidi e sogni deliranti e psichedelici, amori persi e sperduti, inservibili come un ombrello rotto ed altri così belli da schiacciare il respiro e accendere l’invidia, flash da viaggi veri e da altri solo immaginati ma dategli tempo e fortuna che verranno, tracce di rabbia a grana grossa anche, ma soprattutto voglia di sfidare il tempo e la sorte e la folla, e rimettersi in gioco. è il tempo di fissare in forma di strofa e suono ricordi e cose di ieri e forse e soprattutto di raccontare lo stupore di fronte all’allontanamento di ieri da oggi, due rive sempre più lontane sì, ma assolutamente nessun rimorso, che qua davanti c’è¨ un domani nuovo tutto da aggredire. una ventina di pezzi registrati in maniera economica, cito dalle note tecniche: con due programmi craccati sul pc, senza microfoni né niente”, in questi ultimi tempi sui giornali di settore si dice una raccolta lo-fi, vent’anni fa si sarebbe chiamato un demo casalingo. di questi, stefano ne ha scelti dodici a comporre il cd “il giardino dell’ossigeno”, con dentro anni tormentati, vissuti e guardati penzolare come fossero pesci d’argento e azzurro presi all’amo, e un assaggio della vita che verrà, bellissima e stupefacente. ci trovate dentro lo stefano giaccone cantante di strada e giocoliere, un po’ illusionista e un po’ fanfarone, quello che racconta con distacco gli incontri di ieri mentre ne porta le schegge ancora calde conficcate in fondo al cuore, quello che lavora di fino con la fantasia e riesce a trasformare l’immaginazione in ricordi quasi veri da condividere, quello che a starlo a sentire -complice il vino, magari, e sotto l’assalto serrato della tristezza- convince che la sua vita sembra adatta per ricalcarci un film, o un libro, o tutt’e due. non sono tutte canzoni originali: qui dentro tra gli altri stavolta tocca al cubano silvio rodrigues e all’americano eddie vedder essere rivisti, perché da sempre stefano offre anche riletture personali di cose scritte da altri cercandoci dentro il buco giusto per far passare il suo lunghissimo filo rosso, filo rosso che tiene saldamente in mano da quando i franti erano i franti.

da qui

 

 

https://www.youtube.com/watch?v=oQzFppZpc9E

redaz
una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere 'uno' che fa parte a sé, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un'illusione, peraltro ingenua, di un'unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone.

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