ascoltare Marco Ongaro

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ecco un cantautore bravissimo, ma quasi sconosciuto, ascoltare le sue canzoni non è tempo perso, almeno per me non lo è mai.

(a cura di Francesco Masala)

Una recensione di Leon Ravasi

Il nuovo disco di Marco Ongaro è un buon disco di solido rock e di verace impasto cantautorale. Uno di quei solidi prodotti medi di cui c’è tanto bisogno, con alcuni brani che si staccano nettamente dalle media, come la title track. Le sonorità sono volutamente e in modo ricercato occhieggianti ai sixties, con grande uso di organo hammond, svisate chitarristiche alla Hendrix, riff alla Elvis Presley e armoniche alla Neil Young, citazioni tutte quante volute e dichiarate in quanto tali. La voce di Ongaro è poi la parte più convincente: scura naturale, arrochita al punto da far pensare a una vita vissuta, ma non bruciata, è una voce che convince e affascina. Un buon disco.

Insomma non sarà il caso di gridare ogni volta al miracolo! Qualche volta ci si può accontentare delle cose fatte bene. E Dio è altrove?, forsse approfittando della distrazione del Dio in questione, è fatto come Dio comanda. Insomma Dio non è morto, ma è altrove, o almeno guarda altrove.

Lo spunto è letterario (Ongaro cita Potocki), ma lo svolgimento è dilaniano. Così come un po’ tutto il disco occhieggia a Dylan, tra citazioni e tributi d’autore: l’assolo di “All along the watchtower” in Ligabue, il suono dell’organo così Like-a-rolling-stoniano (quasi un omaggio ad Al Kooper da parte di Moreno Piccoli), la voce e la scelta dei temi e lo spirito, disingannato ma non annichilito, disposto ad ascoltare e a mettersi in discussione, che lo caratterizza.

Dieci canzoni che escono dopo un lungo periodo di silenzio da parte di Ongaro: un silenzio rumoroso, in realtà il suo, perché se è vero che non esce con dischi a suo nome dal 1995 (Certi sogni non si avverano), è altrettanto vero che nel 2000 ha composto e prodotto un intero cd per Grazia De Marchi – Lasciatemi vivere – e nel 2002 è uscito conShakespeariana, una ricca e interessante galleria di personaggi femminili tratti dalle opere di Shakespeare, interpretata da Giuliana Bergamaschi e tra le opere più votate all’ultimo Club Tenco. Oltre a numerose collaborazioni per recital ed eventi teatrali.

Fatto sta che per vedere uscire un uovo disco a nome Marco Ongaro si è dovuto attendere la nascita dell’etichetta D’Autore di Edoardo De Angelis. Ongaro canta molto bene, con una vocalità calda e profonda, capace di dare solennità e spessore, mentre, musicalmente, la direzione artistica e gli arrangiamenti sono di Roby Ceruti, che ha buona parte di “responsabilità” in questo ritorno alle atmosfere dei sixties.

Sotto questo aspetto il disco è addirittura rigoroso: spartano e vivido, suona forte come una roccia, senza concessioni alle mode di tendenza, ma con quel tanto di anacronistico che rende il prodotto gradito alle orecchie più gravate di anni. Sognare, dormire, forse svegliarsi, Ginevra, Tutto è secondario, assieme alla già più volte citata Dio è altrove sono i punti più alti del disco, ma il dato più rilevante è la qualità media che non scende mai sotto il livello di guardia.

da qui

 

Una recensione di Alessio Lega

“…singolare sorte per questi due album (Archivio postumia ed Eptalogia), che interamente arrangiati e registrati, non sono a tutt’oggi stati pubblicati. Per qualcuno è filtrato il contenuto, dal momento che Ongaro ne ha proposto, dal vivo, le scalette complete in più d’un occasione; alcuni estimatori dell’artista poi li posseggono in copie fortunosamente scippate all’autore sotto minaccia di torture e vessazioni. Rimangono però due opere sospese nel limbo, incredibilmente, visto che oltre ad essere due dischi di valore artistico assoluto, sono una chiave di volta fondamentale per capire l’evoluzione di questo cantautore; mi scuserete quindi se ne parlo, pur consapevole del fatto di parlare di opere che molto difficilmente potranno in qualche modo arrivare a chi mi legge, a meno che la Rosso di sera, che le ha prodotte e ne detiene i diritti, non decida di renderle pubbliche…”.

Così scrivevo 3 anni fa in un libro cominciato e mai finito, e di cui l’opera di Marco Ongaro era uno degli oggetti di studio più lungamente approfonditi. Passatemi questo vezzo iniziale… ma mi sembrava così terribilmente ongariano iniziare con la citazione di un proprio inedito, che non ho saputo resistere oggi che finalmente, a quindici anni di distanza dalla loro registrazione, le due opere vedono la luce.

Un problema: io conosco questi dischi perfettamente, li ho ascoltati dal vivo, li posseggo, come dicevo, in copia. Sono convinto che siano complessivamente un capolavoro, e non è l’impressione dettata dalla scoperta subitanea, dal sorgere dell’entusiasmo per una novità inaspettata. È piuttosto una convinzione meditata e perfettamente formata in me, solo che questo atteggiamento poco si addice al concetto di recensione… però non sono in grado di recensire questo disco più di quanto sarei in grado di recensire Le nuvole, The Wall o Dias y flores.
Ecco che dunque, più che recensire, mi proverò a manifestarvi le mie riflessioni su queste due opere raccolte in un solo CD.

Iniziamo dal titolo. Un’archivio dunque, un repertorio: repertorio di personaggi e situazioni. Ma perché postumia? O meglio perché l’autore sin dalle prime interviste ha adoperato per se la definizione di “cantautore postumo”?

Tutti i personaggi di Ongaro sono non vivi, a partire dall’autore, che parla appunto postumo, come la luce di una stella che ci giunge quando essa è spenta da chissà quanto, ma non per questo brilla meno. Non confondiamo però il postumo col morto, Ongaro parla da classico, dunque immortale, perciò fuori dalla storia. La sua è una riflessione sul sacrificio che la vita fa alla parola per divenire qualcos’altro. Un qualcos’altro che è Storia, storie o forse solo avanspettacolo, ma che non è più vita. L’arte, o in fin dei conti la comunicazione, inizia dopo la vita, appunto, postuma. Questa è l’amarissima riflessione che nutre l’opera ongariana. Finchè si vive è impossibile comunicare.

A noi, posterità vivente, l’autore invia bagliori da chissà quale altrove, da chissà quale pianeta, segnali di fine corsa, mappe, giornali di bordo. La sua poetica per questo deve rinunciare a possedere il senso, tutt’al più può affiancarlo, ci si può confondere senza intrappolarlo; per questo la sua parola è chiara ma imprecisa, la sua musica è evocativa, ma laddove sembra vertere a un crescendo viene a mancare.

Il procedimento compositivo di Marco Ongaro rifugge l’originalità bizzarra, il passaggio che lascia increduli. La sua cifra è nella perfetta comprensione dei meccanismi mitici della canzone, quelli fuori dal tempo, per riportare ogni parola a una casa/trappola, una casa dolce casa incantata e pericolosa, una casa di bambola risaputa e inquietante.
Questi dischi di Ongaro sono una sorta di casa di Hansel e Gretel, dove si sgranocchierà la dolcezza retrò al gusto di rosolio dei confetti, dei muri di marzapane, ma chissà, vi si potrà anche attendere la trappola di una profondità stregata.

Tutte le canzoni di questo CD appaiano frammentarie, come pezzi di un puzzle fra i relitti di un naufragio, che galleggiano suggerendo l’idea di un antica visione d’insieme irrimediabilmente perduta. Tutti i punti di vista proposti non trovano l’unità di fini, pur in qualche modo suggerita, Marco Ongaro sembra anzi compiacersi del binomio chiarezza/mistero che propone continuamente in questa tappa d’arrivo del suo stile ironico e swingante, in seguito abbandonato per il Rock di Dio è altrove e di Esplosioni nucleari a Los Alamos.
Tappa d’arrivo, dicevamo, ma anche mappatura di una crisi: non una crisi creativa ovviamente, le canzoni sono molto belle, ma il loro risolversi nel giro di pochissimi versi, il loro fare quasi sempre riferimento a topos letterari consolidati (a volte precisi: LolitaLandru; a volte generici: La signora Russa), pone falsi paletti in una sabbia mobile di informazioni, fa intravedere un’uscita che non esiste, promette una comprensibilità che non arriverà.
Emblematica la politicamente scorretta e avarissima di parole Lolita:

Forse c’è un bambino in me / ed è lui che ama te.
Ma se c’è un bambino in me / certo è lui che ama te (sempre se c’è!).
Lolita / finisci la tua pasta al burro
Lolita / quel telefono è un po’ troppo azzurro, mettilo giù
Se mi prometti, mi prometti che non lo farai più
Io ti prometto, ti prometto che non lo farò più.

nell’affrontare uno dei temi più scottanti e repressi della sessualità ecco che Ongaro non cerca la deflagrante sfida e passione della stupenda canzone di Léo Ferré Petite (Allora tu non mi andrai / perchè sotto la gonna non avrai più / il codice penale), sussurra piuttosto all’orecchio turbato dell’ascoltatore una tenerezza incoffessabile e affida ogni commento alla melodia che, retta dal sax e scossa dal contrabasso, si avvolge come un serpente sulle parole, e rabbrividisce strascicando la voce su quell’ineffabile e torbidissima pasta al burro (si suppone proveniente dallo stesso panetto usato da Brando in Ultimo tango a Parigi).

Arrangiato in maniera talvolta trionfalisticamente fastidiosa Eptalogia, pur meno unitario di Archivio, contiene brani stupendi, a partire dal primo Demian, di derivazione Herman Hessiana, questo personaggio rappresenta lo struggimento senza fine della memoria dell’antica amicizia, di un alleanza perduta.
Il sosia è un altro dei brani chiave del disco per il gioco di sovrapposizioni multiple, per la schizofrenia evidente del tema, per la bella invenzione che ricorda il famosissimo doppio perverso inventato da Gainsbourg nei suoi ultimi anni (Gainsbarre).

Sospesi così perfettamente, come fra le pagine mancanti di una rivista, questi pezzi rappresentano l’esito ultimo del gioco di rimandi e travestimenti iniziato dall’autore col suo primo disco AI: Ongaro è partito facendo canzoni che sembravano le Songs di un musical di cui non conoscevamo trama e dialoghi, ma a cui eravamo richiamati dai luoghi comuni, dagli spazi stabiliti per tacito accordi fra ascoltatore e narratore.
In questi due dischi però quel Musical è diventato la vita stessa, le paillettes si sono sbiadite e i confini fra vita e cultura, fra futuro e passato son diventati inestricabili.
Nella straordinaria L’hai voluto tu la crisi della coppia è tutta sancita da giochi con le (e non di) parole che si affiancano e si contraddicono, che restano le stesse per dire l’opposto:

Tu mi parlavi / io non capivo
probabilmente ti tradivo / poi te l’ho detto
che ti ho tradito / mi hai perdonato
mi son pentito

specularmente, nella seconda strofa rimane quasi tutto uguale, cambiando completamente il significato:

poi me l’hai detto / che mi hai tradito
ti ho perdonato / mi son pentito.

Cioè: mi son pentito d’averti perdonato, quando la prima volta il tuo perdono m’aveva fatto pentire d’averti tradito!
La conclusione della canzone scivola su una doppia citazione, anch’essa speculare, di due autori speculari e leggendari (che fra l’altro, racconta la leggenda, un giorno litigarono per una stessa donna):

mi lascerai / non che non ti lascerò
io si, io si / tu no, tu no.

la prima (Io si) è una canzone di Tenco, la seconda (Tu no) è una canzone di Piero Ciampi.

A giocare troppo col fuoco delle parole si rischia però di rimanere bruciati…raschiato il fondo del barile della comunicazione può cominciare l’afasia. Forse per questo l’autore trattò con le pinze questo materiale, lasciandolo alla fuggevole attenzione di qualche concerto, ma non premendo troppo per farlo pubblicare, annunciandolo postumo sin dal titolo.
Ongaro aveva intuito di aver toccato il fondo e che la risalita non sarebbe stata cosa facile: il suo linguaggio ha poi dovuto necessariamente riverginarsi attraverso la purezza popolare di Lasciatemi vivere. Ma per questo sarebbe dovuta passare una nottata di quasi dieci anni (giusto interrotta da quella sorta di autoantologia che fu Certi sogni non si avverano).

Oggi una delle più belle opere della canzone italiana, una delle più profonde riflessioni sul suo linguaggio, è finalmente disponibile. Come dissero Cafiero e Malatesta ai contadini del Matese: “I forconi li avete, i coltelli ve li abbiamo dati, se volete fate, se no vi fottete”.

da qui

 

Un’intervista di Giorgio Maimone

Marco Ongaro ha un viso schietto e sincero, di quelli che fanno subito simpatia e ispirano fiducia. E una bella stretta di mano salda. È vero che questo non basta, soprattutto in campo musicale, ma aiuta molto. È una persona con cui si può parlare della “sensualità dei cibi” e di “piatti di assoluta autorevolezza”. Se poi aggiungiamo che queste caratteristiche si traducono in un modo di far musica altrettanto schietto, abbiamo il disegno a tutto tondo di un cantautore anomalo, un cantautore “su commissione” come ama definirsi, in questa chiacchierata tutta vissuta con un sorriso sotto i (reciproci) baffi.

“Lavoro su commissione, sì. Come stimolo, scrivere per qualcuno che ti ordina una cosa è intrigante. È quasi uno spunto rinascimentale. Non mi sento pittore ma pennello e tavolozza. Se scrivo per Grazia De Marchi scrivo cose mie che parlano di lei. L’idea di “Shakespeariana”, invece me l’ha data il regista Paolo Valerio che più di me aveva .in testa Shakespeare. Cleo, l’ultima canzone, l’ho scritta a luglio dello scorso anno e prima di partire mi telefona questo chitarrista di Verona, Roberto Cerutti. Mi chiama e mi fa: “Senti io vorrei farti fare un disco. La formazione è questa: chitarra, basso, batteria, organo hammond. Il gruppo si chiama La Scorta”. Benissimo – gli ho detto – troviamo una cantante e io ti scrivo le canzoni. E lui mi ha detto voglio: “No, io voglio la tua voce “rovinata”. Queste esatte parole. E li mi ha convinto. Lui voleva la mia voce “rovinata”, quindi mi sono sentito tranquillo sul tornare a cantare. Ma ho scritto “Dio è altrove” come se fossi un autore. Ho scritto per “quella formazione” e per “questa voce”. Ero di nuovo un autore.Non un cantautore. Poi io sono la voce della Scorta…..”

È un caso?
“Non è proprio un caso, ma è un approccio differente. Una sfumatura”.

Ma sei tu nelle cose che scrivi.
“Sì sono io, ma mi piace la sfida. Esistono dei margini di sfida. È quello che mi piace. Il fatto che ci siano dei limiti. Il fatto che debba scrivere qualcosa su quello che Shakespeare ha già scritto. O su un episodio della vita della De Marchi. O sull’ecologia. Tra 10 anni non ci sarà più acqua sul pianeta. Io svolgo il tema, li c’è la sfida”.

Come se fossi un giornalista?
“Ho dei limiti. Mi piace aver dei limiti. Poter vincere la sfida all’interno di quei limiti è la sfida, quello mi stimola. Quando mi propongono un nuovo lavoro, come primo impulso dico no. Poi torno a casa e l’ho già scritta. Così funziona”.

E, a parte tutto, quando scrivi sei un autore molto prolifico. 
“Questo disco nuovo ha questa nascita su commissione ma devi sapere che c’è già pronto un nuovo lavoro con Grazia de Marchi, che ho scritto lo scorso luglio e in agosto me n’è stato commissionato un altro, simile a Dio è altrove, su tema ecologico, sempre dallo stesso chitarrista della Scorta. Ho scritto 16 brani per Grazia e 13 per lui, perché quando mi si chiede qualcosa io sono febbrile. Altrimenti il pianoforte resta chiuso, la chitarra nella custodia.

Ne esce fuori un mosaico a molte facce, ma quali sono le musiche di Marco Ongaro?
“Se compongo alla chitarra è impossibile che non esca Dylan. Se compongo al pianoforte ecco Paolo Conte. Se scrivo per la De Marchi mi ritrovo tra il De Andrè e il Branduardi. Sono forse l’ultimo in grado di definire il mio stile vocale; credo di avere varie sedimentazioni che vengono fuori a seconda delle occasioni. Il motivo per cui mi piace fare l’autore è che non devo pormi problemi di questo tipo. Devo pormi il problema di far cantare gli altri”.

Ti piace il tuo nuovo disco?
“Sì, mi piace, riconoscendo anche quello che non sono io di quel disco. Il lavoro che ho fatto su commissione mi piace. Sono io nei testi e nelle musiche; negli arrangiamenti non sono io, mai. Però ne sono contento: ero appena reduce da “Shakespeariana” in cui, sotto questo aspetto, ho sofferto moltissimo. Incidere un quartetto d’archi con quattro archi che non si sono mai incontrati tra loro è stata un esperienza terribile. Ci sono musicisti che non si sono mai conosciuti in quel disco e che suonano nella stessa canzone!”

“Dio è altrove” è tutta un’altra cosa. A parte che in certi momenti suona come se fosse in presa diretta. Addirittura in certi momenti ti dà l’idea del work in progress, di qualcosa non rifinita, interrotta a un certo punto. Sbozzata, ma non ultimata, ma forse questo è un po’ nel tuo stile. E lo dico come pregio del lavoro, sia ben chiaro, non come critica.
“Dio è altrove”, la canzone, a parte il fatto che è ovvio che per me è perfetta così (sorride mentre si brinda con un bicchiere di Ripasso dal titanico splendore), aveva lo spunto più che altro nell’emozione. Questa sorta di eresia nel fatto che Dio se ne sia andato altrove. L’inizio è una storia ebraica di un rabbino in Polonia che nella sua sinagoga trova Dio seduto. “Signore cosa fai qui? Gli chiede. “Non ti immagini quanto io sia stanco”.Il concetto dell’eresia è che Dio sia andato in un luogo così disperso dell’universo in modo da non sentire niente di quello che succede qui e che i messaggeri ci mettano così tanto ad arrivare e a riportare le notizie che qualcosa sarebbe inevitabilmente cambiato nel frattempo, ma lui non se ne preoccupa più.

E la “title track” è infatti il brano più di presa di tutto il disco,
“Ho imparato dopo molti anni ad aprire il disco con un pezzo “forte”.
Il motivo dei ringraziamenti del disco ha a che fare proprio con la scrittura in quel mese. Sono passato prima da Lecce dove c’era Max Manfredi, mi sono fermato a casa di Alessio Lega, abbiamo suonato per tre giorni poi sono andato in Calabria, sono arrivato caricatissimo. La prima canzone che ho scritto è stata Il Conte Max da Genova”

Quello con le dita insanguinate…
“Esatto. Gandalf Foschini è chi mi trascrive le musiche perché io possa depositarle in SIAE, Ferdinando Dolfo è l’autore del primo progetto di copertina (bocciato). George Steiner ha scritto “Morte della tragedia” che stavo leggendo in quel mese, il libro in cui si parla dell’eresia del Dio che è altrove. Nicola Nicolis è un cantautore veronese decano, “nonno” lo chiamano, che mi ha prestato il libro “Morte della tragedia”. Iole e Gaetano Mazzone mi hanno ospitato in Calabria. Poi c’è mio fratello: il fratello del cantautore come ha detto Micocci. Mi fa: “Tu come campi?” “Ho un fratello che mi aiuta”. “Il fratello del cantautore! Anche Tenco ne aveva uno!”. Ora fa il fotolito e mi prepara tutti gli impianti delle copertine.

Quindi ora sei soprattutto un autore. Ma nei primi dischi ti sentivi cantautore?
“Sì, li scrivevo senza un progetto. Apparentemente le cose che mi venivano fuori da sole. Vado al Tenco nell’82 ottengo un discreto successo. Il fatto è che il Tenco allora aveva un paio di giornali che scrivevano sulla manifestazione. Soprattutto la prima sera. Poi mi sono reso conto che effettivamente la discografia non era aperta a nuovi dischi di cantautori emergenti. Lucio Quarantotto ha vinto nell’84 e poi fino all’87 non è esistita una targa per opera prima. Perché non esistevano opera prime! Però c’era questa dance-music, disco-music. Anni ’82-83. Mi ricordo che anche qui è partito tutto con una commissione (eccoci che ci risiamo con le commissioni). Il tizio che me l’ha commissionata mi ha dato una cassetta e mi ha detto “Tu sapresti fare un brano come questo”. Era un brano dei Twins, un gruppo tedesco. Dopo un’ora gliel’ho consegnata la canzone. Arrangiata in modo identico. Ma la mia era più bella e cercava di dire cose intelligenti. E così è nato il mio alter-ego: O’gar, l’autore di disco-music. Ma cercavo comunque di dire cose intelligenti. Per questo poi O’gar è morto a Parigi nell’86. Per quanto cercasse di dire cose intelligenti le diceva in inglese a gente che l’inglese non capiva. Ha avuto successo in Spagna!

E a quel punto sei partito coi dischi a tuo nome.
“Sì, il primo disco è dell’87. Che ho dovuto forzare, perché ancora c’era questo blocco ai nuovi cantautori. Figurano tutti nei ringraziamenti del primo disco; tutti quelli che non mi hanno preso. Vincenzo Micocci, Lilli Greco, Sandro Colombini … Per cui ho detto a Venturiero che prima era il mio agente che cercava di procurarmi una casa discografica e che nel frattempo aveva fondato una sua etichetta, di farmi fare il disco. Venturiero era rimasto fuori alla mia esperienza di O’gar che sarebbe stata l’unica avventura in comune che gli avrebbe fruttato dei soldi in tutta la nostra carriera unità. Con me ci ha solo rimesso. Però è un collezionista privato. È una questione affettiva. Lui deve avere tutto quello che faccio. È una questione maniacale. Del primo disco mi ha detto: “Di questo disco non verrà mai trasmessa una canzone in nessuna radio” E il giorno stesso l’ha pubblicato. Se non è collezionismo questo!”

Ma dopo l’esordio più o meno faticato ci sono stati i sette anni di silenzio. Perché?
“Nel ’90 a fatica, quando cominciavano di nuovo ad uscire i cantautori, con lentezza terribile siamo riusciti a buttar fuori “Sono bello dentro”. Che è coinciso con l’incisione del Vino di Ciampi al Teatro Argentina, forse il massimo successo che abbia avuto. Da lì ho inciso “Archivio Postumia” nello stesso anno, con un gruppo, ed è l’unico disco che ho arrangiato completamente io.
Nel ’91 “Eptalogia” che è un altro progetto che avevo in mente. E la Rosso di Sera non li ha pubblicati. “Archivio Postumia” lo sapevo che non sarebbe potuto essere pubblicato prima di 10 anni. Per questo gli ho dato quel titolo. Suona ’90, ma con strumenti non datati. Poi ho fondato un gruppo: Le vittime del sesso, una rock-band con cui ho girato un paio di mesi. A quel punto non avevo più voglia neanch’io di pubblicare “Eptalogia” che era di stampo più jazzistico. Nel ’95 finalmente riesco ad uscire con il disco successivo: “Certi sogni non si avverano” ma a quel punto ero stufo dell’ambiente e mi sembrava un modo di concludere perfetto. Esce il disco e io invece di promuoverlo mi ritiro, altra prova di affetto del mio editore”.

Ma gradatamente, a forza di dischi su commissione, sei tornato.
“Questo disco è più rock dei precedenti perché mi è stato commissionato da un chitarrista rock. Ha una fender del ’68 in casa! Mentre Luca Olivieri ha vinto a Memphis la gara per i migliori Elvis”.

Si respira un aria vintage tra i solchi del tuo disco
“Ce l’hanno detto. L’arrangiatore fa a Cerutti: “Hai fatto bene a stare fermo trent’anni perché adesso sei tornato di moda!”. I ragazzi cresciuti coi suoni di plastica non li sopportano più e adesso riscoprono la chitarra di Hendrix.

Ogni disco una storia, completamente diversa.
“E paradossalmente abbiamo cercato di allontanarci dai riferimenti . Ma Dio è altrove suona come Like a Rolling Stone. La chitarra e l’hammond fanno lo stesso gioco. Così come Ginevra richiama Neil Young e così abbiamo inserito l’armonica a bocca, perché non ci nascondiamo. Lo facciamo proprio così, come deve essere il riferimento. È un disco ricco anche di citazioni italiane. L’assolo in mezzo a L’infermiere è degno di Solieri, il chitarrista di Vasco Rossi. Una canzone che ho scritto la De Marchi, Colombo, diceva: “ho passato metà della mia vita a cercare di non somigliare”, ma è quasi impossibile. Se non somigli a uno somigli all’altro. L’importante è rivendicarlo, non nasconderlo.

da qui

 

qui una pagina su Marco Ongaro

 

qui il suo sito

 

 

 

 

 

 

 

https://www.youtube.com/watch?v=_DCnxpLlRb0

 

redaz
una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere 'uno' che fa parte a sé, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un'illusione, peraltro ingenua, di un'unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone.

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