Aspettando il midterm della guerra

articoli, video, disegni di Mike Whitney, Charles Kupchan, Enrico Tomaselli, Vittorio Rangeloni, Angelo Baracca, Pino Arlacchi, Noam Chomsky, Jonathan Cook, Movimento Nonviolento, PeaceLink, Centro di ricerca per la pace i diritti umani e la difesa della biosfera, Mario Agostinelli, Fulvio Scaglione, Manlio Dinucci, Mauro Biani, Domenico Gallo, Pepe Escobar, Stefano Orsi, Ascanio Celestini, Daniele Novara, Enrico Euli, Danilo Tosarelli

IL PIANO DI WASHINGTON PER FRANTUMARE LA RUSSIA – Mike Whitney

“L’obiettivo occidentale è indebolire, dividere e infine distruggere la nostra nazione. Stanno affermando apertamente che, dopo che erano riusciti a smantellare l’Unione Sovietica nel 1991, ora è il momento di dividere la Russia in molte regioni separate che si scanneranno a vicenda.” Il presidente russo Vladimir Putin

“Cheney ‘voleva vedere lo smantellamento non solo dell’Unione Sovietica e dell’impero russo, ma anche della Russia stessa, in modo che non potesse mai più essere una minaccia per il resto del mondo.’… L’Occidente deve completare il progetto iniziato nel 1991…. Fino a quando l’impero di Mosca non sarà rovesciato, tuttavia, la regione, e il mondo, non saranno al sicuro…” (“Decolonizzare la Russia,” The Atlantic)

L’ostilità di Washington nei confronti della Russia ha una lunga storia che risale addirittura al 1918, quando Woodrow Wilson aveva dispiegato oltre 7.000 soldati in Siberia come parte di uno sforzo alleato per annullare le conquiste della rivoluzione bolscevica. Negli Stati Uniti, le attività dell’American Expeditionary Force, che era rimasta nel Paese per 18 mesi, sono svanite da tempo dai libri di storia, ma i Russi continuano a ricordare l’incidente come un altro esempio dell’incessante intervento dell’America negli affari dei propri vicini. Il fatto è che le élite di Washington si sono sempre immischiate negli affari della Russia nonostante le forti obiezioni di Mosca. In effetti, moltissimi rappresentanti dell’élite occidentale non solo pensano che la Russia dovrebbe essere divisa in unità geografiche più piccole, ma il popolo russo dovrebbe addirittura accogliere con favore un simile risultato. I leader occidentali nell’Anglosfera sono talmente consumati dall’arroganza e dal loro stesso senso di diritto, che, in tutta onestà, credono davvero che la popolazione russa vorrebbe vedere il proprio paese frantumato in piccoli stati aperti allo sfruttamento vorace dei giganti petroliferi occidentali, dell’industria mineraria e, naturalmente, del Pentagono. Ecco come la mente geopolitica di Washington, Zbigniew Brzezinski, lo aveva riassunto in un articolo su Foreign Affairs:

“Date le dimensioni e la diversità (della Russia), un sistema politico decentralizzato e un’economia di libero mercato potrebbero liberare il potenziale creativo del popolo russo e delle vaste risorse naturali della Russia. Una Russia blandamente confederata, composta da una Russia europea, una Repubblica siberiana e una Repubblica dell’Estremo Oriente, troverebbe anche più facile coltivare relazioni economiche più strette con i propri vicini. Ogni entità confederata sarebbe in grado di sfruttare il proprio potenziale creativo locale, soffocato per secoli dalla pesante mano burocratica di Mosca. A sua volta, una Russia decentralizzata sarebbe meno suscettibile alla mobilitazione imperiale.” (Zbigniew Brzezinski,“A Geostrategy for Eurasia,” Foreign Affairs, 1997)

La “Russia blandamente confederata,” immaginata da Brzezinski, sarebbe una nazione sdentata e dipendente, che non sarebbe in grado di difendere i propri confini o la propria sovranità. Non sarebbe in grado di impedire ai Paesi più potenti di invadere, occupare e stabilire basi militari sul suo territorio. Né sarebbe in grado di unificare i suoi disparati popoli sotto un’unica bandiera o perseguire una visione “unita” positiva per il futuro del Paese. Una Russia confederata, frammentata in una miriade di parti più piccole, consentirebbe agli Stati Uniti di mantenere il loro ruolo dominante nella regione senza minacce o interferenze. E questo sembra essere il vero obiettivo di Brzezinski, come aveva sottolineato in questo passaggio nel suo opus magnum The Grand Chessboard. Ecco cosa aveva scritto:

“Per l’America, il principale premio geopolitico è l’Eurasia… e il primato globale dell’America dipende direttamente da quanto tempo e quanto efficacemente verrà mantenuta la sua preponderanza nel continente eurasiatico.” (“THE GRAND CHESSBOARD – American Primacy And It’s Geostrategic Imperatives”, Zbigniew Brzezinski, pagina 30, Basic Books, 1997)

Brzezinski riassume in modo sintetico le ambizioni imperiali degli Stati Uniti. Washington prevede di stabilire il suo primato nella regione più prospera e popolosa del mondo, l’Eurasia. E, per farlo, la Russia deve essere distrutta e spartita, i suoi leader devono essere rovesciati e sostituiti e le sue vaste risorse devono essere trasferite nella morsa ferrea delle transnazionali globali che le utilizzeranno per perpetuare il flusso di ricchezza da est ad ovest. In altre parole, Mosca deve accettare il suo umile ruolo nel nuovo ordine, di fatto come compagnia mineraria e del gas di proprietà dell’America

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scrive Charles Kupchan:

Sarà un brutto risveglio in Ucraina e nei paesi occidentali più guerrafondai! Perché non aver promosso delle consultazioni delle popolazioni locali PRIMA del l’ignobile invasione? Chi è responsabile di queste chiusure?

Charles Kupchan, professore di affari internazionali alla Georgetown University e ricercatore presso il Council on Foreign Relations, scrive su New York Times e chiede un accordo di pace basato sulla promessa dell’Ucraina di non aderire alla NATO e di rinunciare alla Crimea e alle aree filo-russe del Donbass. (Se l’Ucraina fosse stata disposta ad attuare gli accordi di Minsk, avrebbe mantenuto tutto il Donbass).

“La Russia nutre legittime preoccupazioni in merito alla sicurezza della NATO che apre negozi dall’altra parte del suo confine di oltre 1.000 miglia con l’Ucraina. La NATO può essere un’alleanza difensiva, ma mette in atto una potenza militare aggregata che Mosca comprensibilmente non vuole parcheggiare vicino alla sua territorio.”

“Se la difesa dell’Ucraina non vale gli stivali statunitensi sul campo, allora il ritorno di tutto il Donbas e della Crimea al controllo ucraino non vale la pena rischiare una nuova guerra mondiale”.

A maggior ragione, aggiungerei, dato che la stragrande maggioranza della Crimea è filorussa.

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Zelensky e il drone: le nuove frontiere della propaganda – Enrico Tomaselli

Già ai tempi di Eschilo, in guerra, la verità è la prima vittima. Ma indubbiamente, il livello di sofisticazione oggi raggiunto dalle tecnologie ha reso questo assunto ancora più vero. Il confine tra realtà e finzione si è fatto estremamente fluido, e non solo in virtù della naturale propensione alla mistificazione ed alla menzogna, che ogni guerra porta con sé, ma anche perché – proprio in virtù dello sviluppo tecnologico – esse sono sempre più simili. Nel corso di questi mesi di guerra in Ucraina, e soprattutto nella sua fase iniziale, è capitato spesso di vedere nelle tv mainstream spezzoni di videogiochi spacciati per video reali; al di là della buona o cattiva fede, ciò è stato possibile perché effettivamente le due cose sono indistinguibili, soprattutto ad un occhio profano. La grafica dei moderni videogiochi, infatti, è tratta precisamente dalla realtà bellica, che a sua volta è oggi altamente tecnologizzata. I video di obiettivi militari colpiti dal fuoco nemico e ripresi da droni, ed ancora di più quelli ripresi e trasmessi in soggettiva dagli stessi droni mentre si lanciano contro l’obiettivo, sono identiche a ciò che potremmo vedere giocando a Call of Duty.

Ma non c’è soltanto una questione di similitudine visiva, che può ingenerare equivoci, se non veri e propri inganni. Le moderne tecnologie consentono di spingersi molto più in la, ed offrono alla propaganda – ma anche alle psy-ops – incredibili opportunità, con un livello di attendibilità tale da essere pari al vero. Chi non ricorda Wag the Dog (in Italia, Sesso e Potere), il film di Barry Levinson del 1997 (!), una commedia nera sul tema della manipolazione dell’opinione pubblica attraverso il controllo dei mass media. Nel film, lo scopo dell’operazione messa in piedi dal team dei protagonisti è convincere il pubblico americano che ci sia stata una guerra lampo (in perfetto stile yankee), che nella realtà non è avvenuta, per distoglierne l’attenzione da alcuni problemi del Presidente. In chiave ovviamente paradossale, rappresenta esattamente una psy-ops, una operazione di guerra psicologica.

La guerra in Ucraina, come possiamo vedere tutti, è una guerra ad un tempo convenzionalmente sanguinosa ed iper tecnologica. In particolare, l’Ucraina ha potuto contare sin dal primo momento sull’appoggio incondizionato degli Stati Uniti, che si è concretizzato non soltanto nell’invio di armi e denaro a fiumi, né solo in un determinante supporto d’intelligence, ma anche in un massiccio supporto propagandistico. Di fatto, la gigantesca macchina mediatica americana ha fatto in breve tempo il miracolo di trasformare il semisconosciuto leader d’un paese dell’est europeo in una star internazionale. Zelensky è divenuto il simbolo della lotta del suo paese, attraverso una massiccia ed abilissima campagna di promozione, in tutto e per tutto uguale a quelle che si realizzano ad Hollywood per lo star system

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Mariupol, nuove case e nuove speranze – Vittorio Nicola Rangeloni

Un paio di giorni fa sono tornato nella città dei contrasti. A distanza dalla mia ultima visita di un mese e mezzo fa sono cambiate molte cose. I cantieri si sono moltiplicati, molte palazzine pericolanti e semi-distrutte non ci sono più, laddove c’erano ancora operai ed impalcature ora ci vivono centinaia di famiglie.

Nel cuore di uno dei quartieri più impressionanti a causa degli intensi combattimenti è spuntato un nuovo complesso residenziale e il 4 novembre le prime 15 famiglie hanno ricevuto le chiavi dei loro nuovi appartamenti. Si tratta di persone che erano rimaste senza un tetto sopra la testa. Questi nuovi appartamenti si aggiungono alle centinaia già consegnati. Il percorso per riportare la città ad una totale normalità è ancora lungo e difficile, ma la volontà non manca.

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La lunga gestazione della Postura nucleare di Biden ha partorito un . . . TOPOLONE NUCLEARE! – Angelo Baracca

I membri del Science and Security Board del Bulletin of the Atomic Scientists, Robert Rosner e Suzet Mckinney rivelano la posizione delle lancette sull’orologio dell’apocalisse: è ancora fermo a 100 secondi dalla mezzanotte (Foto di Bulletin of the Atomic Scientists/Thomas Gaulkin)

Le premesse c’erano tutte, proprio un anno fa avevo diffuso la notizia dell’aria mefitica che tirava negli ambienti militari statunitensi (https://www.pressenza.com/it/2021/11/il-pentagono-sbarra-a-biden-la-revisione-della-strategia-nucleare/): quando ancora non c’era la guerra in Ucraina e l’opinione pubblica non aveva i riflettori accesi sulla minaccia di una guerra nucleare. Che peraltro pendeva sulle nostre testa da 20 anni, come il Doomsday Clock del Bollettino degli Scienziati Atomici non si stanca di predicare! (https://www.pressenza.com/it/2022/01/doomsday-clock-2022-a-che-punto-e-la-notte-lalba-sembra-ancora-lontana/). Ma fino a pochi mesi fa la gente non sembrava percepire l’allarme! L’opinione pubblica sembra procedere per ondate emozionali più che per motivi razionali.

Vale la pena osservare che appena un paio di giorni fa Biden aveva denunciato il pericolo dell’arsenale nucleare cinese (https://www.defenseone.com/policy/2022/10/chinas-nuclear-arsenal-will-become-existential-threat-us-biden-administration-declares/379013/): <<Per sette decenni, la politica degli Stati Uniti in materia di armi nucleari si è concentrata in gran parte su una sola nazione il cui arsenale rappresentava una minaccia esistenziale: La Russia. Giovedì, l’amministrazione Biden ha aggiunto la Cina a questo elenco. … Nei prossimi anni per la prima volta dovremo dissuadere due grandi concorrenti dotati di armi nucleari, la Russia e la Cina.>>

E questo allarme sul fronte nucleare faceva il paio con il circostanziato contenuto di un articolo dello scorso 27 ottobre sull’edizione online di Foreign Affairs, la più influente rivista di geopolitica americana, a firma di Thomas Mahnken, che siede nell’attuale National Defense Strategy Commission: “Può l’America vincere una nuova Guerra Mondiale?”1. L’articolo traccia il programma concreto e preciso della prossima guerra contro Russia e Cina, indicando le forme del riarmo necessario per affrontarla e delineandone le strategie sul teatro europeo e del Pacifico.

Ma, guarda ancora le coincidenze, il 29 ottobre vi è stato il ferale annuncio che la Polonia si è offerta di ospitare testate nucleari USA, e sostiene che la NATO dovrebbe rinunciare a quanto fu stabilito nell’accordo NATO-Russia del 19972: cioè che non si potessero schierare ulteriori forze permanenti della NATO in Europa orientale.

Si può aggiungere un quarto elemento di allarme: la decisione di anticipare entro quest’anno la sostituzione delle testate B61 schierate in Europa (in Italia nelle basi italiana di Ghedi e americana di Aviano) con le più moderne ed efficienti B61-12, che era programmata per il 2023…

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L’Onu e la “trappola della guerra”: proprio sicuri che l’isolato sia Putin? – Pino Arlacchi

Siamo in molti oggi a domandarci qual è il posto del conflitto tra Russia e NATO-Ucraina rispetto alla long durèe di Braudel, ai megatrends del mondo contemporaneo.

La guerra in corso rappresenta una inversione della tendenza di lungo periodo verso il declino delle guerre e della violenza che si è accentuata nel pianeta dopo il crollo del Muro di Berlino nel 1989 e che ha quasi eliminato la guerra come strumento di risoluzione delle controversie tra Stati?

L’attuale scontro è destinato ad allargarsi ed approfondirsi inaugurando un nuovo ciclo di instabilità e di conflitti suscettibile di portare ad una nuova Guerra fredda, alla rottura del tabù nucleare e alla Terza guerra mondiale?

Questa guerra sta avvenendo nel segno del mantra di Mackinder secondo cui la frattura tra Europa occidentale e Russia garantisce la permanenza dell’Impero americano?

Le ostilità militari in corso nell’Europa orientale sono in grado di interrompere per un tempo indefinito il trend plurisecolare dell’integrazione eurasiatica?

Ho riflettuto a lungo su questi interrogativi, e sono pervenuto ad una risposta univoca. Non credo che lo scontro in atto sbocchi nello scenario catastrofico dipinto, e segretamente auspicato, dai media e da alcuni leader occidentali.

Non ci sarà una nuova Guerra fredda né una Terza guerra mondiale perché:

1) Il 90% dei Paesi membri dell’ONU non ha alcuna intenzione di schierarsi con la NATO, contro la Russia, o anche contro l’Ucraina. La lettura dominante del conflitto da parte del “Global South” è quella di una questione sub-regionale come altre, da affrontare e risolvere tramite i soliti strumenti del cessate il fuoco, del negoziato e dell’accordo di pace. Gli unici a porre la questione in termini apocalittici – di scontro tra valori supremi e tra democrazia e tirannia, sono i Paesi dell’Unione europea e gli Stati Uniti.

2) La diversità multipolare del pianeta è già operante. Essa preclude la formazione di due grandi schieramenti stile Seconda guerra mondiale e Guerra fredda. Ciascun polo, ciascuna grande e piccola potenza tendono a seguire la traiettoria dei propri interessi, dettati in parte dalle esigenze delle proprie popolazioni. L’ultima cosa a cui pensano i cittadini del mondo è di finanziare una corsa agli armamenti a scapito della lotta alla povertà e alla crescita del benessere. Ciò spiega perché tutti i principali Paesi extra-europei eccetto il Giappone – dal Messico all’Indonesia, dal Pakistan al Brasile all’India, al Sudafrica e perfino a Israele e all’Arabia Saudita – hanno rifiutato di mobilitarsi a fianco della NATO in una crociata antirussa. All’Assemblea dell’ONU hanno condannato, certo, l’invasione di uno Stato sovrano, ma hanno invitato le parti in causa a negoziare al più presto la pace.

3) Il declino degli Stati Uniti, del loro impero e del loro sistema di alleanze si trova nella sua fase terminale, e non sarà certo questa guerra a cambiarne il corso. L’obiettivo americano dichiarato è di espandere una coalizione politica e militare volta ad indebolire la Cina e la Russia.

4) È un’idea pericolosa e fallimentare. Gli USA detengono solo il 4,2% della popolazione mondiale e solo il 16% del PIL mondiale. Il PIL dei BRICS (Cina, Brasile, Russia, India e Sudafrica) supera ormai quello dei G7, la cui popolazione è solo il 6% di quella globale, contro il 41% dei BRICS. Secondo i dati 2022 del Fondo Monetario Internazionale, i Paesi “emergenti e in via di sviluppo” hanno ormai raggiunto il 58% del PIL globale misurato in termini di potere di acquisto, contro il 30% di quelli G7.

5) Il tentativo di dividere di nuovo il mondo tra due campi – questa volta si tratta delle democrazie liberali pro-USA contro i regimi illiberali pro – Cina e pro-Russia – è una operazione politica votata alla sconfitta. Ciò è dimostrato dagli stessi parametri stabiliti da chi adotta questa prospettiva. È il caso dell’Università di Cambridge, che ha appena pubblicato uno studio sui sondaggi mondiali di opinione (https://www.bennettinstitute.cam.ac.uk/…/A_World…).

6) Lo studio è ardentemente fazioso, ma non può fare a meno di informarci che questa polarizzazione si risolve in una sconfitta nettissima del campo cosiddetto “liberaldemocratico”: il 70% dei 6,3 miliardi di persone che vivono nei 137 paesi “illiberali “considera la Cina in maniera positiva, e il 66% degli stessi concorda nel vedere favorevolmente la Russia. L’opposto accade nel mondo delle cosiddette “democrazie liberali”, dove il 75% non ama la Cina, e l’84% la Russia. Ma si tratta di 1,2 miliardi di individui contro 6,3. La proporzione, quindi, è di 5 a 1 a favore della Russia e della Cina.

Questo dato è coerente con i risultati di un sondaggio del 2021, commissionato da una fonte ultra-atlantista quale l’Alliance of Democracies Foundation: quasi la metà (44%) degli interpellati di 53 Paesi consideravano gli Stati Uniti come una minaccia alla democrazia del loro paese più grave di quella cinese (38%) o russa (28%). (cfr. P. Wintour, US seen as bigger threat to democracy than Russia or China, global poll finds, in “The Guardian”, 5 May 2021).

La guerra in corso, quindi, non è in grado di arrestare il cammino dei megatrends verso la pace, la distensione, la multipolarità e l’integrazione eurasiatica. La sua radice più profonda è il tentativo degli USA di rallentare la fine del proprio impero attirando la Russia in uno scontro sulla linea di confine dell’unificazione eurasiatica.

È interesse della Russia, dell’Ucraina, e di tutti noi, uscire dalla “trappola della guerra” al più presto possibile, e in maniera pacifica. Rimango convinto, in ogni caso, che il conflitto in corso può solo rallentare e non interrompere la marcia della long durèe.

* Intervento al XV Forum Economico Euroasiatico, tenutosi a Baku il 27 e il 28 ottobre

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NOAM CHOMSKY DICHIARA A RUSSELL BRAND CHE GLI STATI UNITI VIVONO IN UNA “CULTURA TOTALITARIA”, PEGGIORE DELL’UNIONE SOVIETICA – Candice Ortiz

Noam Chomsky crede che gli Stati Uniti siano su una strada insidiosa e avverte che il paese sta peggiorando rispetto all’ex Unione Sovietica.

Una clip che circola su Twitter dal sito conservatore The Post Millennial mostra Chomsky in una recente intervista con Russell Brand sul suo podcast Under the Skin .
Chomsky ha affermato che gli Stati Uniti oggi “vivono in una sorta di cultura totalitaria, che non è mai esistita in vita mia ed è molto peggio in molti modi rispetto all’Unione Sovietica prima di (Mikhail) Gorbaciov “.

Ha attribuito questo cambiamento alla mancanza di informazioni attualizzate a disposizione degli americani.

“Tornando agli anni ’70, le persone nella Russia sovietica potevano accedere a BBC, Voice of America, televisione tedesca, se volevano scoprire le notizie”, ha continuato, “Se oggi negli Stati Uniti, vuoi scoprire cosa Il ministro (Sergey) Lavrov della Russia sta dicendo è cosa che non puoi fare. È sbarrato. Agli americani non è permesso ascoltare quello che dicono i russi”.

“Non posso avere la televisione russa, non posso accedere a fonti russe. Ciò significa anche che i bravi giornalisti americani come Chris Hedges , uno dei migliori, sono tagliati fuori – esclusi anche gli americani, perché gli è proibito di accedere a un programma in onda su RT, come sulle altre televisioni russe”, ha aggiunto.

“Vuoi scoprire cosa dicono gli avversari, il che è della massima importanza … Ma gli Stati Uniti hanno imposto vincoli alla libertà di accesso alle informazioni, che sono sorprendenti e che in realtà vanno oltre quanto avveniva dopo (Joseph) Stalin e Russia sovietica”.

Chomsky ha affermato che, nonostante gli Stati Uniti siano uno dei paesi più liberi al mondo, vengono imposte ulteriori restrizioni alla libertà di parola stessa.
Questo va ben al di là di chiunque osi rompere la linea del partito sulla questione dominante di oggi, l’Ucraina, è semplicemente demonizzato, diffamato. Non può essere mandato nel gulag, è ancora un paese libero, ma riesci a malapena a parlare. E questo ha implicazioni molto pericolose per la situazione attuale e oltre”, ha aggiunto Chomsky.

Fonte:
https://www.mediaite.com/politics/noam-chomsky-tells-russell-brand-the-united-states-is-living-in-totalitarian-culture-worse-than-the-soviet-union/

Traduzione: Luciano Lago

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Gli occidentali vivono nella negazione, convinti di essere bravi ragazzi – Jonathan Cook

…Gli occidentali, ad esempio, stanno attualmente acclamando le proteste in Iran, dove donne e ragazze sono scese in piazza e hanno dato vita a proteste di massa nelle scuole. Le loro proteste sono state scatenate dalla morte di Mahsa Amini dopo che è stata arrestata per aver indossato l’hijab troppo liberamente.

I media occidentali celebrano queste giovani donne che si tolgono l’hijab a dispetto dei religiosi irresponsabili che le governano. L’Occidente si lamenta delle percosse e degli attacchi che ricevono da una tirannica teocrazia patriarcale iraniana.

Eppure non c’è solidarietà paragonabile con i palestinesi quando sfidano collettivamente un irresponsabile esercito di occupazione israeliano che li governa. Quando marciano per protestare contro la recinzione che Israele ha costruito intorno a Gaza per imprigionarli, impedendo loro di partire per lavoro o per visitare la famiglia all’estero, o per raggiungere ospedali molto meglio attrezzati del loro che sono stati sotto il blocco israeliano per anni, vengono uccisi dai cecchini israeliani.

Dov’è l’applauso per quei coraggiosi manifestanti palestinesi che si oppongono ai loro oppressori? Dove sono le denunce di Israele per aver costretto i palestinesi a sopportare un tirannico esercito israeliano che impone l’apartheid?

Perché è del tutto irrilevante che i palestinesi – giovani e vecchi, uomini e donne – siano regolarmente picchiati o uccisi da Israele, mentre la morte di una sola donna iraniana è sufficiente per ridurre i media occidentali a parossismi di indignazione?

E perché, altrettanto pertinentemente, l’Occidente si preoccupa così tanto della vita delle giovani donne iraniane e delle loro proteste per l’hijab quando sembra non fregarsene della vita di queste donne, o di quella dei loro fratelli, quando si tratta di imporre decenni di sanzioni occidentali? Tali restrizioni hanno fatto precipitare parti della società iraniana in una povertà profonda e prolungata che mette a rischio le vite iraniane.

Tale è l’ipocrisia riflessiva, che le donne israeliane che non hanno mai mostrato alcuna solidarietà con le donne palestinesi maltrattate e uccise dall’esercito israeliano, si sono mostrate la scorsa settimana a tagliarsi i capelli in un atto pubblico di sorellanza con le donne iraniane.

I dettami occidentali

Non c’è niente di nuovo in questi doppi standard. Sono radicati nel pensiero occidentale, basato su una visione del mondo profondamente razzista e coloniale, che vede “l’Occidente” come i buoni e tutti gli altri come moralmente compromessi, o irrimediabilmente malvagi, se si rifiutano di piegarsi ai dettami occidentali.

Ciò è evidenziato dall’attuale battaglia di un uomo d’affari palestinese di 88 anni, Munib al-Masri, per ottenere le scuse dalla Gran Bretagna.

Su suo incarico, due eminenti avvocati – Luis Moreno Ocampo, ex procuratore capo presso la Corte penale internazionale, e Ben Emmerson, ex esperto delle Nazioni Unite sui diritti umani – hanno esaminato le prove dei crimini commessi dalle forze britanniche negli anni precedenti al 1948, quando il Regno Unito ha governato la Palestina su mandato.

Quando la Gran Bretagna si ritirò, permise alle istituzioni sioniste di prendere il suo posto e creare uno stato ebraico di Israele autodichiarato sulle rovine della patria dei palestinesi.

Le prove documentate da Ocampo ed Emmerson – che descrivono come “scioccanti” – includono crimini come uccisioni e detenzioni arbitrarie, torture, uso di scudi umani e demolizioni di case come punizioni collettive.

Tutto ciò dovrebbe suonare familiare. Israele ha terrorizzato i palestinesi con queste stesse esatte politiche negli ultimi 74 anni. Questo perché Israele ha incorporato le “norme di emergenza” del mandato britannico che consentono tali crimini nei suoi codici legali e amministrativi. Ha semplicemente continuato ciò che la Gran Bretagna aveva iniziato.

Masri spera di presentare il dossier di 300 pagine al governo del Regno Unito entro la fine dell’anno. Secondo i media, sarà “esaminato a fondo” dal ministero della Difesa. Ma non trattenete il respiro in attesa di scuse.

La realtà è che Ocampo ed Emmerson non avevano bisogno di condurre le loro ricerche. Niente di quello che dicono al governo del Regno Unito sarà una rivelazione. I funzionari britannici sono già a conoscenza di questi crimini. E non c’è rimorso, come dimostrato, se non altro, dal fatto che la Gran Bretagna continua a sostenere Israele fino in fondo anche mentre l’esercito israeliano continua con lo stesso regno del terrore di stato.

Il compito di Israele era rinominare come ”democrazia in stile occidentale” il brutale dominio coloniale del mandato britannico sulla popolazione palestinese. È il motivo per cui Israele riceve miliardi di dollari di aiuti dagli Stati Uniti ogni anno, e il motivo per cui non subisce mai conseguenze per nessuno dei crimini che commette.

La brutta verità è che gli occidentali risiedono permanentemente all’interno della loro stessa bolla di disinformazione, gonfiata dai loro leader e dai media, che permette loro di immaginarsi come dei bravi ragazzi, qualunque cosa dimostrino effettivamente le prove.

Il doppio standard nel trattamento dell’Ucraina nei confronti della Palestina da parte dell’Occidente, dovrebbe essere un momento in cui finalmente si possa prendere coscienza della realtà. Purtroppo, il pubblico occidentale sembra sprofondare sempre più nella confortante illusione dell’ipocrisia.

 

Jonathan Cook è l’autore di tre libri sul conflitto israelo-palestinese e vincitore del Premio speciale per il giornalismo Martha Gellhorn. Il suo sito Web e il suo blog possono essere trovati su www.jonathan-cook.net

Traduzione di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali” -Invictapalestina.org

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Preveniamo le guerre di domani, siamo contro le guerre di oggi, non dimentichiamo le guerre di ieri

4 NOVEMBRE. Non festa ma lutto. Proposta del Centro di Ricerca per la Pace, i diritti umani e la difesa della biosfera di Viterbo, Movimento Nonviolento e PeaceLink.

«Non festa ma lutto» è il grido accorato che ogni anno associazioni e movimenti pacifisti lanciano in occasione del 4 novembre. Giornata in cui ufficialmente si «festeggiano» le Forze Armate e l’Unità nazionale.

Data scelta in epoca fascista per celebrare quella che veniva considerata la «vittoria» nella prima guerra mondiale. La guerra definita «inutile strage» da Benedetto XV, un conflitto a cui non conveniva per l’Italia partecipare secondo Giolitti (non certo un socialista anarchico anti-militarista!).

Le vittime, militari e civili, furono circa 40 milioni: 21 milioni di feriti, 19 milioni di morti – di cui 9,7 milioni di militari, 8,8 milioni di civili – (4,2 nell’Impero ottomano e 1,5 in Russia), tra gli Alleati rimasero uccisi oltre 5 milioni di soldati (Russia 1,8 – Francia 1,4 milioni) e tra gli Imperi centrali circa 4 milioni (la Germania 2 e l’Austria-Ungheria 1,1 milioni), (5 milioni furono i feriti in Russia; 4,3 in Francia e in Germania; 3,6 in Austria-Ungheria.

«Giornata dell’Unità Nazionale e delle Forze Armate» è la denominazione ufficiale della «festa» del 4 novembre, istituita nel 1919 a tributo della «vittoria» nella prima guerra mondiale, considerata dai governanti dell’epoca completamento del processo risorgimentale. La scelta della data cadde sul 4 novembre in quanto entrò in vigore l’armistizio di Villa Giusti Padova tra Italia e impero austro-ungarico.

Dal 1922 il regime fascista la denominò «Anniversario della Vittoria» e tornò alla denominazione ufficiale dal 1947, negli anni duemila l’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi le diede nuovo impulso, con il ritorno a celebrazioni diffuse e poderose.

È consegnata alla storia la definizione che diede alla «Grande Guerra» papa Benedetto XV di «inutile strage», i libri di storia riportano che solo l’Italia ebbe 650 mila morti e un milione di mutilati e feriti, molti di più di quanti erano gli abitanti di Trento e Trieste, in una guerra che – secondo Giolitti –  doveva essere evitata.

I bilanci drammatici della prima guerra mondiale portano pacifisti e movimenti per la nonviolenza a criticare la retorica e l’idea che il 4 novembre sia considerata come una festa. Anche quest’anno, come già negli anni scorsi, ancor di più con la guerra tornata nel cuore dell’Europa e il rischio di una guerra mondiale nucleare, il Centro di Ricerca per la Pace, i diritti umani e la difesa della biosfera di Viterbo, il Movimento Nonviolento e PeaceLink propongono sia giornata di lutto e di impegno contro tutte le guerre.

Questo il testo dell’appello pubblicato nei giorni scorsi.

Vogliamo prevenire le guerre di domani. Siamo contro le guerre di oggi. Non dimentichiamo le guerre di ieri.
Le guerre di oggi sono combattute con le armi costruite ieri. Le armi costruite oggi alimenteranno le guerre di domani.
Il disarmo, a partire da noi stessi (disarmo unilaterale), è la strategia per costruire la pace.
Fare memoria delle guerre del passato è doveroso per non ripetere gli stessi tragici errori.

Sabato 5 novembre si terrà a Roma una grande manifestazione per la pace, promossa dal cartello “Europe for Peace”, alla quale parteciperemo. Sarà una manifestazione popolare e di popolo che chiede: “Cessate il fuoco subito – Negoziato per la pace – Mettiamo al bando le armi nucleari – Solidarietà con le vittime di tutte le guerre”.
Il giorno precedente, 4 novembre, ricorre l’anniversario della fine della Prima guerra mondiale, una “inutile strage” come disse il Pontefice di allora.
Tante altre “inutili stragi” seguirono, fino alla odierna strage in Ucraina. È  la guerra nel cuore dell’Europa, che prosegue da allora.

La data del 4 novembre viene celebrata con continuità dal fascismo fino ad oggi, per richiamare l’unità dell’Italia sotto il segno della guerra e dell’esercito. “Giornata dell’Unità Nazionale e delle Forze Armate” nell’anniversario della fine di un tragico conflitto che costò al nostro paese un milione e duecentomila morti (600.000 civili e 600.000 militari): per la prima volta nella storia a morire a causa della guerra non furono solo i militari al fronte, ma in pari numero i civili vittime di bombardamenti o di stenti, malattie, epidemie causate dalla guerra stessa.
Vogliamo ricordare e onorare quei morti rinnovando l’impegno contro ogni guerra e la sua preparazione, dunque contro le guerre di oggi, contro le armi costruite per le guerre di domani. Solo opponendosi a tutte le guerre si onora la memoria delle persone che dalle guerre sono state uccise.
Meno armi più difesa della vita, ridurre drasticamente le spese militari e devolvere i fondi per abolire la fame, la povertà, l’inquinamento del pianeta.
Per questo chiediamo una drastica riduzione delle spese militari che gravano sul bilancio dello stato italiano.
Per questo sosteniamo la richiesta che l’Italia sottoscriva e ratifichi il Trattato Onu per la messa al bando delle armi nucleari.
Per questo sosteniamo la Campagna “Un’altra difesa è possibile”, che prevede l’istituzione di un Dipartimento per la difesa civile, non armata e nonviolenta.
Pace, disarmo, smilitarizzazione. Tutela della vita degli umani e della Terra.

Proponiamo che il 4 novembre si svolgano commemorazioni nonviolente delle vittime di tutte le guerre, commemorazioni che siano anche solenne impegno contro tutte le guerre e le violenze. Queste iniziative di commemorazione e di impegno morale e civile devono essere rigorosamente nonviolente.
Occorre quindi che si svolgano in orari distanti e assolutamente distinti dalle ipocrite celebrazioni dei poteri armati, quei poteri che quelle vittime fecero morire.
Ed occorre che si svolgano nel modo più austero, severo, solenne: depositando omaggi floreali dinanzi alle lapidi ed ai sacelli delle vittime delle guerre, ed osservando in quel frangente un rigoroso silenzio.

Ovviamente prima e dopo e’ possibile ed opportuno effettuare letture e proporre meditazioni adeguate, argomentando ampiamente e rigorosamente perché le persone amiche della nonviolenza rendono omaggio alle vittime della guerra e perché convocano ogni persona di retto sentire e di volontà buona all’impegno contro tutte le guerre, e come questo impegno morale e civile possa concretamente limpidamente darsi. A tutte le persone amiche della nonviolenza chiediamo di diffondere questa proposta e contribuire a questa iniziativa.

Contro tutte le guerre, contro tutte le uccisioni, contro tutte le persecuzioni.
Per la vita, la dignità e i diritti di tutti gli esseri umani.
Ogni vittima ha il volto di Abele.
Solo la nonviolenza può salvare l’umanità.
Solo la pace salva le vite. Salvare le vite è il primo dovere.

Movimento Nonviolento
per contatti: via Spagna 8, 37123 Verona, tel. e fax: 0458009803, e-mail: an@nonviolenti.org, siti: www.nonviolenti.org e www.azionenonviolenta.it
PeaceLink
per contatti: e-mail: info@peacelink.itabruzzo@peacelink.it, sito: www.peacelink.it
“Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera” di Viterbo
per contatti: e-mail: centropacevt@gmail.com, web: mailing list nonviolenza@peacelink.it

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Con la guerra prosperano carbone e metano La nuova ‘transizione’ è verso i fossili? – Mario Agostinelli

…C’è un legame tra la guerra, la procrastinazione dell’uso del gas, il brusco cambio del clima da una parte e le manifestazioni di insofferenza degli studenti, la coscienza sicura e diffusa del degrado della biosfera e del pericolo nucleare dall’altra, che vanno a sostegno della mobilitazione razionalmente non violenta e senza bandiere dei pacifisti. Si incomincia ad intendere, anche sotto le atrocità della guerra e alle minacce della bomba, che c’è un “taglio militare” che sostiene la “sicurezza energetica e climatica” contrapponendola alla “giustizia climatica” .

Ho la speranza che cominci a manifestarsi un bisogno di democratizzazione del processo decisionale e l’emergere di nuove forme di sovranità che richiederebbero necessariamente una riduzione del potere e del controllo dei militari e delle corporazioni e un aumento del potere e della responsabilità nei confronti dei cittadini e delle comunità. La crescita dell’astensionismo recente significa anche questo e la politica dovrebbe rendersene conto.

Ora che stiamo avviandoci a convivere con la “terza guerra mondiale” domandiamoci: che impatto hanno i fossili, il militarismo e la guerra sull’ambiente e la crisi climatica, nel momento in cui stiamo valicando il limite di 1,5 °C per attestarci oltre 2,5°C? E’ ancora accettabile l’annientamento di popoli, territori, coltivazioni, animali, in oltre 200 territori in armi nel mondo, uno dei quali dentro l’Europa?

La sicurezza energetica e climatica che i governi continuano a perseguire è un concetto a carattere prevalentemente nazionale che rafforza le dinamiche a favore della militarizzazione dei confini e descrive la migrazione su larga scala come “il problema più preoccupante associato all’aumento delle temperature e del livello del mare”.

I piani di sicurezza climatica si nutrono di narrazioni di paura e di un mondo a somma zero in cui non tutti possano sopravvivere. Ad essa, purtroppo, ritengo si possa orientare l’attuale governo in carica, se non ci sarà un’opposizione sociale e politica all’altezza.

La giustizia climatica, al contrario, non contempla la guerra e adotta un approccio incentrato su forme pacifiche e non violente di risoluzione dei conflitti. Alla ricerca urgente di soluzioni praticabili come le energie naturali e le comunità energetiche, che ci permettano di prosperare in pace e di proteggere i più vulnerabili. La manifestazione del 5 novembre avrà al centro anche queste riflessioni.

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Se l’Europa taglia i ponti con la Russia – Fulvio Scaglione

I sabotaggi del Nord Stream e del Ponte di Crimea, al di là dell’identità dei loro esecutori materiali, certificano uno scollamento sempre più rapido e violento tra la Russia e il nostro continente. Ma si possono cancellare secoli di storia e appartenenza identitaria in pochi mesi?

Anche nel linguaggio di ogni giorno, “tagliare i ponti” indica una rottura totale e definitiva. E questo, un taglio dei ponti, simbolico e concreto insieme, è proprio ciò che è avvenuto nelle ultime settimane tra la Russia e l’Europa. Prima l’attentato contro i gasdotti Nord Stream, l’ultimo e più importante collegamento tra la Russia degli estrattori e l’Europa dei trasformatori. Poi il Ponte di Crimea, legame (oltre che legaccio) tra la Russia e il territorio dell’Ucraina. C’è chi affronta tutto questo come un derby, come una manifestazione di tifo per questo o quel contendente. E chi almeno vive tutta l’angoscia del conflitto di cui questi atti sono espressione. Ma c’è di più, se guardiamo in prospettiva: la drammatica spaccatura all’interno di uno stesso continente, di una stessa civiltà, di una stessa storia.

Le necessità dell’economia ci portano a valutare con frequenza le conseguenze pratiche della guerra in Ucraina. Qualunque sia la ragione, e chiunque ne abbia la colpa, è una situazione assurda quella per cui il cancelliere tedesco Scholz va a cercare il gas nel lontanissimo Canada e non può più riceverlo dalla vicina Russia. Ma il dramma vero, profondo, sta nella lacerazione continentale che si è prodotta e che segnerà, ormai è chiaro, il secolo che stiamo vivendo. E che anche nelle pure questioni economiche segnala tutte le possibili conseguenze ultra ed extra economiche: proprio nei giorni dell’attentato contro i gasdotti Nord Stream, e quindi nei giorni immediatamente precedenti quello contro il Ponte di Crimea, le statistiche hanno sancito che la Cina, ora, compra più idrocarburi (per 220 milioni di dollari al giorno) dalla Russia dell’intera Europa occidentale (150 milioni al giorno).

Non è un caso che il conflitto coinvolga direttamente l’Ucraina e la Russia, e indirettamente la Bielorussia, la Polonia e i Paesi Baltici, ovvero l’enorme regione che ha sempre fatto da cerniera tra l’Europa dell’Ovest e l’Europa dell’Est e che proprio per assolvere a questa funzione ha scontato infiniti cambi di confine, regime e padrone, arricchendosi di infinite influenze e assorbendo, spesso in modo traumatico, infinite differenze.

Fino al 1989 l’Europa era artificialmente divisa da un Muro ideologico alto e potente ma, nella sostanza, incapace di spezzare l’intima coesione del continente. L’arcipelago sovietico, dalla Mosca dell’ucraino Vasilyj Grossman alla Praga di Milan Kundera, produceva intellettuali e artisti che sarebbero stati di casa a Parigi o a Berlino, e la tomba di Immanuel Kant, il più europeo dei filosofi, spiccava miracolosamente intatta nella Kaliningrad-Koenigsberg del feroce assedio del 1945. Dal 24 febbraio è risorto un muro di ferro e di fuoco che l’invasione russa dell’Ucraina ha battezzato, ma che era stato in qualche modo preparato negli anni dall’incapacità e dalla non volontà di troppi attori continentali di pensarsi come parte di un tutto, di un insieme. Oggi assistiamo a una duplice torsione. Quella dell’Europa dell’Ovest, che gira le spalle a un Est che ha avuto la fondamentale colpa di non adottare fino in fondo (e come avrebbe potuto?) i suoi valori e i suoi criteri. E quella dell’Europa dell’Est, in gran parte territorialmente abitata da russi e russofoni, che rinuncia all’ancoraggio occidentale e intraprende un viaggio pieno di incognite nel tentativo di agganciarsi al suo Est, all’Asia, principalmente alla Cina.

Certo, si è sviluppato, in Russia, un movimento culturale teso a rivalutare il contributo storico delle province lontane dalla parte europea del Paese. Ma la grande letteratura, come la musica, la pittura, l’architettura e la filosofia della Russia sono europee e l’Europa non sarebbe ciò che è senza di esse. Esiste, in Russia, uno scrittore influenzato dall’humus asiatico che possa reggere il confronto con Dostoevskij? E qualcuno, dalle nostre parti, potrebbe mai dire che Josip Brodskij è uno scrittore sovietico e non uno scrittore europeo? O che Nikita Mikhalkov, oggi fanatico sostenitore del putinismo e dell’operazione speciale in Ucraina, non è un regista pienamente, tipicamente e magnificamente europeo?

Le torsioni cui stiamo assistendo sono movimenti contro natura, che non porteranno beneficio ad alcuno. E sono movimenti contro una storia che, a dispetto delle attuali narrazioni, è stata nel complesso più convergente che divergente. Il grande studioso Sergej Soloviov faceva notare che mentre il re Ferdinando il Cattolico (Ferdinando II d’Aragona, marito di Isabella di Castiglia) conquistava Granada e poneva fine alla presenza degli arabi nel capo Sud-Ovest dell’Europa, lo zar Ivan il Terribile affermava l’espansione della Moscovia ortodossa contro i khanati eredi dell’Orda d’Oro mongola, nel capo Nord-Est dello stesso continente. Andare contro la storia è sempre una pessima idea.

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Come e quando la guerra finirà? – Domenico Gallo

Il Presidente ucraino Zelensky ci ha fatto sapere che: “Solo quando la bandiera ucraina sventolerà di nuovo sulla Crimea liberata il mondo potrà sentirsi sicuro e dire che la guerra è finita.”

Ormai abbiamo superato gli otto mesi di guerra, senza che vi sia stato un solo giorno di tregua. Se alla controffensiva ucraina la Russia ha risposto mobilitando da trecentomila a un milione di coscritti e riprendendo bombardamenti in larga scala su Kiev ed altre città, diretti soprattutto contro le infrastrutture elettriche, l’Ucraina, dopo il ponte di Kerch, il 29 ottobre ha colpito un’altra volta in Crimea, con l’attacco alla base della flotta russa a Sebastopoli. Si è trattato dell’attacco più massiccio dall’inizio del conflitto, portato con armi particolarmente sofisticate, come i droni subacquei (forniti dalla Royal Navy), che ha provocato danni a quattro unità, compresa la nave ammiraglia. I russi hanno reagito sospendendo l’unico accordo negoziato con Kiev durante il conflitto, quello relativo alla creazione di un canale sicuro per l’esportazione del grano via mare. E’ evidente pertanto che il conflitto sta virando verso un’escalation incontrollabile, capace di provocare sofferenze inaudite alle popolazioni coinvolte e di avvicinare lo scontro diretto fra la NATO e la Federazione Russa.

In questi giorni, grazie alla crescente insofferenza dell’opinione pubblica europea ed italiana e ai ripetuti appelli del Papa, tutti invocano – a parole – la pace ma nessuno ci lascia intravedere come e quando questa guerra finirà. Intervenendo alle assise “il grido della pace” convocate dalla Comunità di Sant’Egidio, il Presidente francese, Emanuel Macron ha dichiarato che “la pace è possibile” ma sarà “quando e quella che loro decideranno (riferendosi agli ucraini) e che rispetterà i diritti del popolo sovrano (..) Non lasciamo che la pace oggi sia catturata dal potere russo. Oggi la pace non può essere la consacrazione della legge del più forte, né il cessate il fuoco che definirebbe uno stato di fatto”.

Dal momento che -secondo la dottrina NATO-UE – dovranno essere gli ucraini a decidere quando e quale pace sarà possibile, è al Presidente Zelensky che dobbiamo guardare per capire quale sia la sua disponibilità a porre termine al conflitto. Ebbene Zelensky ce lo ha fatto sapere il 25 ottobre rivolgendosi ai partecipanti al vertice interparlamentare della “piattaforma di Crimea” svoltosi a Zagabria con la partecipazione di una quarantina di delegazioni, inclusa la speaker della Camera dei Rappresentanti del Congresso americano, Nancy Pelosi. Il Presidente dell’Ucraina si è espresso così: “Solo quando la bandiera ucraina sventolerà di nuovo sulla Crimea liberata il mondo potrà sentirsi sicuro e dire che la guerra è finita.”

Orbene è fin troppo chiaro che per il Governo ucraino la guerra non deve limitarsi alla difesa, vale a dire a respingere le truppe d’invasione della Federazione russa ma deve spingersi oltre e ribaltare uno status quo consolidato dal 2014, consentendo alle forze armate ucraine di prendere possesso di un territorio che costituisce una Repubblica autonoma inserita nella Federazione russa. La penisola di Crimea fa parte della Russia da oltre 200 anni, nel 1954 Kruscev la “donò” all’Ucraina, ma si trattava di una mera unificazione amministrativa poiché l’Ucraina continuava a far parte dell’URSS. Nel 2014, dopo il traumatico cambio del regime politico a Kiev, il Consiglio Supremo della Repubblica di Crimea votò all’unanimità la dichiarazione d’indipendenza dall’Ucraina e chiese l’annessione alla Russia. Il 16 marzo del 2014 un referendum popolare approvò l’annessione alla Russia con il 96,77% di voti favorevoli, con la partecipazione dell’83,1% degli aventi diritto al voto. L’Ucraina non accettò l’annessione della Repubblica di Crimea alla Federazione russa. Anche l’Unione Europea rifiutò di riconoscere l’annessione ed applicò delle sanzioni commerciali alla Russia. Per la Crimea si verificò, a parti invertite, lo stesso processo che aveva portato all’indipendenza del Kossovo, che la NATO distaccò dalla Jugoslavia a seguito di un’azione di bombardamento durata 78 giorni. Quando il Kosovo, ormai separato di fatto, votò la propria indipendenza dalla Serbia il 17 febbraio 2008, quest’ultima dichiarò immediatamente di non riconoscerla. L’indipendenza del Kosovo è stata riconosciuta soltanto da una metà degli Stati membri dell’ONU, mentre l’altra metà non l’ha riconosciuta. Attualmente esiste una controversia internazionale sullo status del Kosovo, così come esiste una controversia internazionale sullo status della Repubblica di Crimea. La Costituzione italiana “ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Non v’è dubbio che se la Serbia decidesse di invadere il Kosovo per annullarne l’indipendenza, l’Italia dovrebbe “ripudiare” quest’azione perché non si possono risolvere le controversie internazionali con l’uso della forza. Lo stesso discorso vale per l’Ucraina, se volesse – come lascia intendere il suo governo – riprendere manu militari il controllo del territorio della Repubblica di Crimea per staccarla dalla Federazione russa, si tratterebbe di un’aggressione pura e semplice. Il fatto che gli ucraini siano stati aggrediti dalla Russia, che ha invaso una parte del loro territorio, giustifica la resistenza all’azione in corso, ma non può essere un valido pretesto per legittimare un’altra aggressione. Un’azione di forza per staccare la Crimea dalla Federazione russa, oltre ad essere inammissibile sul piano del diritto internazionale e ripudiabile, dal punto di vista della Costituzione italiana, rappresenta una provocazione che renderebbe la pace impossibile perchè la Russia, se non altro per ragioni strategiche, mai potrebbe rinunciare alla Crimea, se non a prezzo di una completa disfatta sul piano militare.

Quanto sangue si deve ancora versare per consentire all’Ucraina di “vincere” la guerra con la Russia e risolvere tutte le controversie in corso? Quanti nuovi cimiteri si devono costruire? Siamo proprio sicuri che devono essere gli ucraini a decidere come e quando porre fine alla guerra?

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Putin: “La situazione è, in una certa misura, rivoluzionaria” – Pepe Escobar

Putin ha centrato il punto in cui ci troviamo: sull’orlo di una rivoluzione

In un discorso onnicomprensivo tenuto alla sessione plenaria del 19° incontro annuale del Valdai Club, il Presidente Putin ha lanciato una critica devastante e a più livelli dell’unipolarismo.

Da Shakespeare all’assassinio del generale Soleimani; dalle riflessioni sulla spiritualità alla struttura dell’ONU; dall’Eurasia come culla della civiltà umana all’interconnessione tra BRI, SCO e INSTC; dai pericoli nucleari a quella penisola periferica dell’Eurasia “accecata dall’idea che gli Europei siano migliori degli altri,” il discorso ha evidenziato, in stile Brueghel, un quadro della “pietra miliare storica” che abbiamo di fronte, nel bel mezzo del “decennio più pericoloso dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.”

Putin si è persino spinto a dire che, secondo le parole dei classici, “la situazione è, in una certa misura, rivoluzionaria,” poiché “le classi superiori non possono e le classi inferiori non vogliono più vivere così.” Quindi tutto è in gioco, perché “il futuro del nuovo ordine mondiale si sta delineando davanti ai nostri occhi.”

Al di là di uno slogan accattivante sui giochi dell’Occidente, “sanguinosi, pericolosi e sporchi,” il discorso e gli interventi di Putin alla successiva sessione di domande e risposte dovrebbero essere analizzati come una visione coerente di passato, presente e futuro. Qui proponiamo solo alcuni dei punti salienti:

“Il mondo sta assistendo al degrado delle istituzioni mondiali, all’erosione del principio della sicurezza collettiva, alla sostituzione del diritto internazionale con le ‘regole.’”

“Anche all’apice della Guerra Fredda, nessuno negava l’esistenza della cultura e dell’arte dell’avversario. In Occidente, ora, ogni punto di vista alternativo è dichiarato sovversivo.”

“I nazisti bruciavano i libri. Ora i padri occidentali del ‘liberalismo’ mettono al bando Dostoevskij.”

“Esistono almeno due ‘Occidente.’ Il primo è tradizionale, con una ricca cultura. Il secondo è aggressivo e colonialista.”

“La Russia non si è mai considerata e non si considera un nemico dell’Occidente. La Russia ha cercato di costruire relazioni con l’Occidente e la NATO – per vivere insieme in pace e armonia. La loro risposta a ogni cooperazione è stata semplicemente un ‘no.’”

“Non abbiamo bisogno di un attacco nucleare all’Ucraina, non ha senso – né politico né militare.”

“In parte” la situazione tra Russia e Ucraina può essere considerata una guerra civile: “Quando avevano creato l’Ucraina, i Bolscevichi l’avevano costituita con territori primordialmente russi – le avevano dato tutta la Piccola Russia, l’intera regione del Mar Nero, l’intero Donbass. L’Ucraina si è evoluta come uno Stato artificiale.”

“Ucraini e Russi sono un unico popolo – questo è un fatto storico. L’Ucraina si è evoluta come uno Stato artificiale. L’unico Paese che può garantire la sua sovranità è quello che l’aveva creata: la Russia.”

“Il mondo unipolare sta per finire. L’Occidente non è in grado di governare il mondo da solo. Il mondo si trova ad una tappa storica prima del decennio più pericoloso e importante dalla Seconda Guerra Mondiale.”

“L’umanità ha due opzioni: o continuiamo ad accumulare il fardello di problemi che sicuramente ci schiaccerà tutti, o possiamo lavorare insieme per trovare soluzioni.”…

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Stop alle armi sui salari. Verso lo sciopero generale.

INTERVISTA ALLA RAPPRESENTANZA USI NEL COORDINAMENTO DEI SINDACATI DI BASE E CONFLITTUALI

  1. – Quale fase sta attraversando il coordinamento dei sindacati di base e conflittuali?
  2. – Possiamo affermare che nella fase attuale il coordinamento dei sindacati ha nuovamente raggiunto quel traguardo dal quale si era partiti. Infatti con la proclamazione dello sciopero generale del 2 dicembre c’è stata di nuovo quell’ampia unità dell’area del sindacalismo conflittuale con cui si era iniziato il percorso circa un anno fa con lo sciopero riuscito dell’11 ottobre 2021, con tante manifestazioni attivate in tutto il territorio italiano.

Non neghiamo che nel percorso del coordinamento dei sindacati di base, continuato ininterrottamente nel corso dell’anno, ci sono stati momenti bassi e alti, basso soprattutto nel periodo dell’invasione dell’Ucraina, in cui il coordinamento in principio si è assottigliato, soprattutto per le divergenze sull’interpretazione iniziale degli avvenimenti. Come USI CIT siamo stati presenti in tutte le fasi del coordinamento, soprattutto di fronte ai drammatici eventi, convinti che l’unità dei sindacati di base e conflittuali, nell’obbiettivo del coordinamento su punti comuni, potesse solo rafforzare la protesta e animare in concreto il dibattito e l’opposizione sociale.

Nelle condizioni attuali, non certo favorevoli, è stato proclamato il primo, unico in Europa, sciopero contro la guerra, l’economia di guerra e il conseguente attacco alle condizioni di vita e di lavoro già precarie da tempo, il 20 maggio. Nel percorso della preparazione dello sciopero hanno avuto una funzione importante le due Assemblee Nazionali che si sono svolte a Milano e a Roma, in cui hanno partecipato e dato la propria adesione molte associazioni dell’opposizione sociale e dell’antimilitarismo. Soprattutto vanno rilevate le importanti adesioni avvenute, nella fase finale, da parte di quelle organizzazioni di base assenti all’inizio del percorso, probabilmente per le pressioni delle proprie aree militanti. Lo sciopero del 20 maggio è stato un momento importante poiché ha concretizzato la possibilità per lavoratori e lavoratrici di astenersi dal lavoro e usare questo strumento come forma effettiva, collettiva di lotta e conflitto. In un Paese in cui la libertà di sciopero è attaccata da varie delibere sempre più restrittive e la libertà di rappresentanza sindacale non è adeguata è stato un modo concreto e autorganizzato dal basso che ha dato visibilità e spazio all’opinione di lavoratori e lavoratrici, di analisi e reazione all’escalation bellica e al peggioramento delle condizioni economiche in atto. Molte sono state le mobilitazioni contro la guerra, l’invio di armi, il carovita, la devastazione ambientale, le lotte intersezionali importanti messe in piedi dal basso in questi ultimi mesi. Siamo convinti che il percorso unitario dei sindacati di base e conflittuale sia tra quelle realtà stabili che, in coerenza e in continuità, hanno avuto l’ambizione di mettere a nudo la complessità della situazione e delle rivendicazioni sindacali fuori dai sindacati concertativi CGIL CISL UIL. Mettersi in gioco e gestire l’unità nella diversità tra lavoratori e lavoratrici riuscendo a mettere in campo soluzioni comuni possibili in una fase, per varie ragioni, di disgregazione sociale è un progetto ambizioso e non certo facile . La proclamazione dello sciopero generale del 2 dicembre da parte dei sindacati di base e conflittuali tra cui l’USI, è già un’azione importante e concreta di lotta per le migliaia e migliaia di lavoratori e lavoratrici che vorranno, con l’astensione dal lavoro, dare corpo e voce alla loro protesta.

  1. – Che aspettative ci sono nello sciopero generale del 2 dicembre?
  2. –Durante le iniziative della preparazione dello sciopero generale dell’11 ottobre e del 20 maggio avevamo già fatto presente che non sarebbero stati dei punti di arrivo ma delle tappe da intraprendere, in quanto le condizioni sociali interne e la guerra in corso allargavano progressivamente le loro prospettive nefaste. L’economia di guerra, seguita a quella della pandemia, ha aggredito sempre più le condizioni di sopravvivenza dei lavoratori, lavoratrici, pensionati e disoccupati attraverso un meccanismo di aumento dei prezzi e delle bollette, frutto anche delle speculazioni dei monopoli energetici, producendo anche l’effetto di chiusura di attività lavorative, mettendo letteralmente sul lastrico interi nuclei familiari.

Siamo di fronte ad un’inflazione in Europa che è già arrivata a sfiorare il 10% e abbiamo raggiunto il record dalle spese militari. Pensiamo alla Germania che ha avuto una spesa per l’esercito e il riarmo che non aveva dalla fine della Seconda guerra mondiale. In Italia l’invio di armi in Ucraina e dunque la reale spesa militare è stata anche secretata, l’aumento dei prezzi di prima necessità è oltre il 20%, la chiusura delle imprese sta causando ulteriori licenziamenti, e non si sta facendo nulla per l’indicizzazione dei salari e il loro adeguamento al costo della vita. Ricordiamo che la scala mobile è stata cancellata nel 1992 quando CGIL CISL UIL siglavano con il governo D’Amato e Confindustria la sua abolizione producendo nel corso degli ultimi decenni un vero e proprio collasso della capacità di acquisto dei nostri salari.

Sarà la strategia messa in campo dalle aziende della shrinkflaction, cioè il confezionamento con meno prodotto contenuto in pacchetti più piccoli venduti però allo stesso prezzo, a combattere l’inflazione galoppante o a nascondere a noi consumatori che ci stiamo impoverendo?

Saranno forse i fittizi bonus di 150, 200 euro miserevolmente elargiti sugli stipendi a coprire gli aumenti del costo della nostra vita di almeno 2000 euro l’anno mentre l’industria delle armi sta facendo profitti da record con le guerre?

Per quanto ci riguarda nello stesso tempo si sono aggiunti due aspetti estremamente allarmanti: la prospettiva di una guerra senza più controllo con la possibilità di un ricorso all’utilizzo di armi nucleari e, per stare alla situazione italiana, la costituzione di un governo di estrema destra, a guida Fratelli d’Italia. Una formazione politica di cui conosciamo la chiara provenienza poiché da sempre ha manifestato alleanza e sudditanza alle associazioni padronali, vanta una retorica patriottarda e guerrafondaia che da sempre ha sostenuto l’aumento delle spese militari e favorevole al loro impiego, molto pericoloso, soprattutto in questa fase. Sono già all’ordine del giorno emendamenti di restringimento nei confronti dei diritti civili nel nostro paese e, in tale circostanza, saremo ancor più vigili sulla libertà di sciopero e sulla rappresentanza sindacale, sui diritti delle lavoratrici, dei/delle migranti, delle libere soggettività LGBTQ+. La coalizione attuale Fratelli d’Italia, Forza Italia e Lega Nord inoltre conta al suo interno personaggi con note amicizie mafiose e stragiste.

In questo quadro disastroso e di certo peggioramento delle nostre condizioni economiche, dove le famiglie non riescono ad arrivare a fine mese, e di attacco alle libertà sociali riteniamo di fondamentale importanza la proclamazione di uno sciopero generale nazionale nella giornata del 2 dicembre da parte dell’intero arco del sindacalismo di base e conflittuale. E’ un atto di responsabilità, un percorso diretto e chiaro.

  1. – Quali sono i passaggi necessari per arrivare alla buona riuscita dello sciopero generale?
  2. – Come sindacato di base ci teniamo a mettere in campo le nostre modalità di lotta attivate, consolidate e nuove, nei luoghi di lavoro e nei territori favorendo e supportando la partecipazione di lavoratori e lavoratrici. Sarà importante sottolineare e supportare le rivendicazioni nelle lotte di lavoratori e lavoratrici che arrivano dai territori già in atto e anche quelle nuove come, tra le altre, quella della Rovagnati, una lotta che abbiamo in atto da giorni contro il mancato pagamento di ore di lavoro e di straordinari e contro i licenziamenti di chi si ribella. Supportare le lotte territoriali e specifiche è imprescindibile ma stiamo lavorando anche per trovare quei momenti e quei punti comuni tra tutti i settori del pubblico e del privato che riguardano le condizioni di lavoro e di vita per tutte e tutti. Sarà importante lavorare al miglioramento e tutela delle condizioni di lavoro, di salario, di pensioni, di reddito minimo ma anche di salvaguardia della sanità, dell’istruzione gratuita per tutte e tutti e dell’ambiente. In questa fase di attacco alle condizioni di vita e sindacali dobbiamo però allargare ancor di più il perimetro dei nostri interventi e investire nell’intersezionalità delle lotte comprese quelle contro le spese militari a favore delle urgenti necessità sociali. Ci teniamo come USI alla chiarezza dei nostri metodi, spazi e passaggi decisionali in coerenza e in continuità con la struttura federalista libertaria che il nostro sindacato possiede e pratica sia nella forma che nella sostanza. Dunque il contesto in cui ragioniamo e decidiamo i percorsi di lotta da intraprendere al nostro interno hanno origine dal basso e per il basso. Le organizzazioni sindacali che partecipano al percorso unitario sono diverse nei metodi, nelle strutture e nelle modalità decisionali, a volte anche negli obbiettivi e pertanto sono state necessarie continue riunioni di confronto affinché il percorso di sciopero fosse davvero costruito in modo condiviso. A volte aggiornamenti arrivati da singole sigle sindacali hanno messo in discussione alcune proposte già condivise ma non hanno spostato di un millimetro la volontà di unità del sindacalismo di base e conflittuale. Questo ci ha dato il polso anche dell’importanza di organizzare le Assemblee nazionali messe in campo dove le organizzazioni sindacali di base e conflittuali che hanno proclamato lo sciopero si sono aperte al confronto con altre organizzazioni, associazioni, comitati, collettivi attivi anche in altre lotte non solo sindacali.

Nel mese di settembre abbiamo attivato inoltre un forum dei sindacati alternativi europei a Roma per un confronto e una possibile occasione di lotta. Porteremo le ragioni dello sciopero generale nelle mobilitazioni attivate nel nostro paese contro il carovita e il caro bollette, nelle assemblee cittadine e regionali, nella manifestazione del 22 ottobre a Bologna, del 5 novembre a Modena, Roma e Napoli e oltre, tradurremo l’appello e la proclamazione in varie lingue e le diffonderemo perché tale condizione è vissuta anche in altri paesi europei. In Spagna ad esempio il 15 ottobre a Madrid c’è stata una manifestazione del movimento dei pensionati che ha visto una larga partecipazione da parte di tutti i sindacati alternativi e di base.

Dunque un percorso, quello dello sciopero generale del 2 dicembre in Italia, articolato e in costruzione attraverso il confronto continuo nei luoghi di lavori e oltre.

  1. – Quali sono gli obbiettivi principali da perseguire in questa fase e con questo sciopero generale?
  2. – Il blocco delle spese militari e dell’invio di armi in Ucraina, nonché gli investimenti per la scuola, per la sanità pubblica, per i trasporti, per il salario garantito per disoccupati e sottoccupati sono gli obbiettivi di questo sciopero insieme all’adeguamento dei salari e delle pensioni al costo della vita. Riteniamo inoltre che per un concreto intervento di contrasto al carovita si dovranno inoltre congelare e calmierare i prezzi dei beni primari e dei combustibili, incamerare gli extra-profitti maturati dalle imprese petrolifere, di gas e carburanti con la relativa cancellazione degli aumenti delle tariffe dei servizi ed energia. Per contrastare la povertà sono necessarie inoltre soluzioni che abbiano un riscontro concreto e immediato, un vero e proprio cambio radicale di paradigma, nelle scelte dei governi ma dubitiamo fortemente che questo avvenga, realisticamente parlando, senza un’opposizione sociale, decisa e partecipata, partendo dai luoghi di lavoro e dalla società in generale. Un altro degli obbiettivi dello sciopero generale del 2 dicembre è la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario e l’introduzione del salario minimo a 12 euro l’ora. Non occorre essere esperti di economia per capire che la precarizzazione dei contratti, i licenziamenti e la chiusura delle imprese incrementerà ancor di più la disoccupazione e la mancanza di reddito. Il taglio alle spese sociali e l’incremento delle privatizzazioni dei servizi tra le quali la sanità e l’istruzione peggiorerà ancor di più le condizioni economiche e di vita di chi ha già un basso reddito o per varie ragioni non ce l’ha. Siamo convinti che l’ulteriore restrizione degli spazi di libertà, la militarizzazione dei territori e dei confini, come è nel programma dell’attuale governo, sarà causa di ulteriore allargamento della povertà nel nostro paese.

Questi sono solo alcuni punti delle rivendicazioni contenute nella proclamazione dello sciopero ma riteniamo che siano essenziali.

  1. – Quale mobilitazione ci sarà nella giornata dello sciopero generale?
  2. – Il dibattito in merito è ancora aperto. Al momento stiamo lavorando all’ appello di tutti i sindacati di base e conflittuali e all’organizzazione dell’Assemblea nazionale del 6 novembre a Roma. Dunque un percorso articolato quello di costruzione dello sciopero generale nazionale del 2 dicembre, un’altra tappa determinante e importante per i lavoratori e le lavoratrici. Ancora una volta i sindacati di base e conflittuali sono in pista e scommettono che, per quanto e laddove è possibile, la diversità può diventare ed essere usata e gestita consapevolmente come un valore aggiunto nelle lotte sindacali e non uno strumento divisivo. Attraversare la diversità in modo orizzontale e non egemonico può essere a nostro avviso il salto e la spinta propulsiva per superare una realtà asfissiante ed è il nostro modo di vivere il mutuo appoggio, la solidarietà fianco a fianco, nella volontà e nella pratica di un cambiamento effettivo non solo estetico.

A cura di Norma Santi

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Alimentano il fuoco della guerra – Ascanio Celestini

“Oggi ho ricucito la bandiera della pace che avevo comprato a Napoli qualche tempo fa quando andai a trovare padre Alex Zanotelli. Era appena cominciata la guerra in Ucraina e sono andato da lui per capire cosa dovevamo fare, cosa non avevamo fatto. Con mia figlia avevamo appesa al balcone la bandiera della pace, ma s’era scucita. Con mia figlia l’abbiamo rimessa al suo posto. La bandiera… non la pace” (A.C.)

Il governo del presidente Meloni è partito male prima ancora di mettersi in moto. Ma riesce a peggiorare anche le peggiori aspettative. È il governo che vuole la flat tax e il blocco navale. Lo sappiamo da anni. Poi è arrivata la proposta di Gasparri sull’aborto, quella che la docente di diritto, Marilisa D’Amico, ha commentato dicendo che “i regimi fascisti appena prendono il potere intervengono contro l’interruzione di gravidanza”.

Al Ministero degli Interni pensavamo che tornasse Salvini, Rambo 2 – la vendetta, e invece c’è andato quello che gli scriveva i decreti. Infatti ha subito bloccato le Ong e adesso ci sono quasi mille naufraghi che non possono entrare in porto. E chissà quanti altri che affogano perché tre navi non li possono andare a salvare.

Sorvolo sull’estensione dell’uso del contante a 10 mila euro. Girare coi rotoli di soldi in tasca fa piacere a certi amici degli amici.

Ma c’è un macabro elemento di continuità che pochissimi avrebbero avuto il coraggio di interrompere: continuare a gettare benzina sul fuoco della guerra. E soprattutto alimentare il giro delle armi. Lo faceva un politico di razza come Guerini, figuriamoci uno come Crosetto che si occupa di armi per lavoro!

 

La guerra, sosteneva Machiavelli, “è un impiego col quale il soldato, se vuole ricavare qualche profitto, è obbligato ad essere falso, avido e crudele”. Infatti parliamo tanto del bisogno che le navi ucraine portino il grano ai paesi che stanno morendo di fame e invece si dirigono soprattutto verso i porti occidentali lasciando a pancia vuota i più poveri del mondo, mentre la Turchia quintuplica i dazi per farle passare da Bosforo e Dardanelli (fonte M. Mussetti, Limes).

La Germania è legata da anni al gas russo. Legame che piace poco ai Polacchi, avanguardia Nato verso est, tanto che lo chiamano “patto Ribbentrop-Molotov”. E mentre la Polonia spende per le armi più di quanto viene richiesto dalla Nato, la Germania comincerà a riarmarsi mettendo a disposizione più di cento miliardi. Anche in Italia aumentano le spese per gli armamenti, così stiamo un passo indietro in questa guerra, ma ci prepariamo per la prossima. Magari in Libia dove ritroveremo russi e turchi.

La maggior parte delle armi e degli addestratori sono americani, ma insieme alle bombe raddoppia anche la quantità di gnl che gli Usa vendono all’Europa. Secondo l’EWI, Istituto dell’università di Colonia, nei prossimi anni il gas americano arriverà a coprire il 90 per cento del buco creato dall’assenza di quello russo. E c’è da aggiungere che già lo stiamo pagando un prezzo altissimo.

Anche la nostra Eni è tra i grandi che si muovono. Sul sito ufficiale è scritto che a “marzo e ad agosto 2022, l’Amministratore Delegato di Eni, Claudio Descalzi, ha incontrato il presidente della Repubblica Araba d’Egitto, Abdel Fattah al-Sisi, per discutere delle attività di Eni nel Paese e delle aree di comune interesse e collaborazione”. Chissà se Descalzi e il “dittatore preferito di Trump” hanno parlato dell’uccisione di Giulio Regeni. In fondo stiamo partecipando alla guerra in Ucraina proprio perché ci teniamo tanto alla libertà e alla giustizia, o no? “Attualmente, Eni produce circa il 60 per cento del gas del Paese” dice il documento. Forse è sembrato un buon motivo per non parlare di diritti umani.

Eni è stata scelta da QatarEnergy come nuovo partner internazionale, dopo la francese TotalEnergies, per l’espansione del progetto North Field East (Nfe) e lo sviluppo del più grande giacimento di gas naturale al mondo. Anche da quelle parti hanno qualche problema coi diritti umani. Secondo The Guardian e Amnesty sono migliaia i lavoratori morti “mentre costruivano le infrastrutture della Coppa del Mondo sotto l’effetto di condizioni di lavoro spaventose. Una cifra sottovalutata secondo il quotidiano britannico che non ha potuto raccogliere dati da diversi altri paesi che riforniscono decine di migliaia di detenuti, come le Filippine o il Kenya”. Lo racconta Rachida El Azzouzi in un tremendo reportage.

Questi sono frammenti di una storia sporca. Ma sono solo frammenti. Se ne potrebbero aggiungere migliaia.

Raccontare la guerra come se fosse una lite tra bulli iniziata il 24 febbraio non è solo infantile, ma è soprattutto una pericolosa menzogna che nasconde grandi interessi politici e economici. Ecco perché sabato 5 novembre anche io sarò in piazza per chiedere al mio paese una politica di disarmo, per costringere seriamente Russia e Ucraina a cessare il fuoco e per interrompere il flusso di armi verso Kiev.

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campagna di propaganda anti-Russia

Invece della propagazione delle fake news, campo fasullo, questo è uno studio molto interessante che spiega molto della dinamica dei socials.

Un team di ricercatori dell’Università di Adelaide ha scoperto che ben l’80% dei tweet sull’invasione Russia-Ucraina del 2022 nelle prime settimane facevano parte di una campagna di propaganda segreta originata da falsi account “bot” automatizzati.

Una campagna di propaganda anti-Russia originata da un “esercito di bot” di falsi account Twitter automatizzati ha inondato Internet all’inizio della guerra. La ricerca mostra che degli oltre 5 milioni di tweet studiati, il 90,2% di tutti i tweet (sia bot che non bot) provenivano da account pro-Ucraina, con meno del 7% di account classificati come filo-russi.

I ricercatori universitari hanno anche scoperto che questi tweet automatizzati sono stati usati di proposito per incutere paura alle persone che ne sono state oggetto, aumentando un alto livello di “angoscia” statisticamente misurabile nel discorso online…

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Non è come quando litigate – Daniele Novara

Soprattutto a partire dagli ultimi decenni, il termine «conflitto» viene usato al posto del più legittimo «guerra» nelle tante situazioni drammatiche e disperate di morte, distruzione e violenza che si registrano nel mondo. Guerre a volte non dichiarate, ma che esprimono una crudeltà particolare. Ricordo un articolo dal titolo “In Siria oltre centomila civili sono stati uccisi durante due anni di conflitto”. Questa sovrapposizione semantica ha un che di angosciante, che crea un blocco emotivo profondo. Anche nel caso della guerra Russia-Ucraina, i media hanno continuato a usare il termine «conflitto», mentre il numero di morti e feriti aumentava di giorno in giorno.

L’idea di usare per queste catastrofi lo stesso termine che si usa nella vita comune per descrivere un dissapore con il compagno o la compagna che vuole andare in vacanza in un posto che non ti piace, con i figli adolescenti che giocano troppe ore alla PlayStation, con il vicino di casa che taglia l’erba in giardino alle 7 del sabato mattina, con un amico o amica che non ti ha invitato per un appuntamento importante risulta sconvolgente, a dimostrazione che sta prevalendo un linguaggio poco attinente alla realtà. Sempre più si preferiscono le iperboli, le giravolte semantiche, le locuzioni azzardate, se non l’uso di un vero e proprio discorso hater, basato sulla negazione e sull’odio.

Il termine «conflitto» deriva dal latino e significa soffrire insieme, contiene il prefisso latino cum che porta parole come comunicazione, compagnia, coinvolgimento, contatto, comunità, convegno, anche complicazione. Come si può usare questa parola come sinonimo di ogni sorta di nefandezza? Non si tratta di cercare una assoluta correttezza, ma di evitare quelle forzature che poi agiscono sul sentire comune. Di distinguere ciò che va distinto: una cosa è la guerra, quella catastrofe immane che vediamo nelle immagini che arrivano dalle fonti mediatiche – e che ho avuto l’opportunità di vedere personalmente in Kosovo appena dopo l’invasione di questo piccolissimo Paese da parte della Serbia –, e altro è la divergenza che puoi avere con il barista che non ti ha servito il cappuccino esattamente all’italiana… O con tuo figlio quattordicenne che alle 11 di sera non ha ancora finito di studiare per l’interrogazione di domani… O con il barbiere che tu avevi regolarmente fissato e adesso ti dice che non c’è prenotazione a nome tuo.

Davvero assurdo quando si arriva a dire ai bambini: «Vuoi sapere cos’è la guerra? È come quando tu litighi con i tuoi amici». Il bambino non può provare un odio così forte nei confronti dell’altro da volerlo ammazzare, come invece succede in guerra. Non sono suoi nemici, sono compagni di gioco con cui ha vicissitudini conflittuali. È tutto un altro mondo…

Proviamo quindi a liberare il linguaggio dalla frenesia bellica e a restituirlo alla realtà che la vita di tutti i giorni ci offre. Purtroppo sembra più facile lavorare sui litigi tra i bambini che non sull’acquisizione della differenza semantica tra conflitto e guerra negli adulti.

Usare i termini «conflitto», «violenza» e «guerra» come sinonimi genera angoscia. Il nostro cervello inserisce la violenza nell’area della sopravvivenza. Il conflitto si trova invece nell’area della manutenzione relazionale. Se li confondiamo, rischiamo di introdurre anche il conflitto nell’area della sopravvivenza. A un certo punto, nella violenza – come dice Rita Levi Montalcini – si attiva il cervello rettiliano, quello che si trova nello strato più profondo e che ci garantisce la reazione di sopravvivenza. Quando abbiamo iniziato a lavorare sui litigi fra bambini, ci siamo sentiti dire da qualche maestra: «Se non interveniamo si ammazzano! Lo sta morsicando! Gli sta staccando un orecchio!». Cose incredibili ma comprensibili perché, se alla base c’è questa confusione, un semplice diverbio infantile ci provoca la stessa angoscia di una situazione di violenza vera e propria (leggi anche Decalogo del buon conflitto).

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senza pace – Enrico Euli

I pacifisti sono finiti proprio male.

La pace si è manifestata  ieri per quel che è: ostaggio definitivo dei politici di professione e dei loro traffici.

Convocata da Conte, leader opportunista di un partito ondivago, il corteo ha visto la risposta delle solite sigle di comodo (sindaca(la)te-le-braghe, Arci-marci, Acli-chic, Tavolate-cavolate per la pace…) e dei soliti professionisti del dissenso consentito, più o meno preteschi.

E poi il bieco Letta ed il tristo PD, che non sanno più dove andare e non andare, ma che continuano ad essere desiderati da chi vorrebbe ancora votarli (e, spesso, -incredibile a dirsi- li vota proprio…!).

Ma sono così tanto desiderati che si preferisce togliere dalla piattaforma ogni riferimento all’invio delle armi, accontentandosi di generici richiami a negoziare e a cessare il fuoco, pur di averli a passeggiare insieme per strada.

E a passeggiare impunemente, subendo solo qualche strillo estremista, e a blaterare gli uni contro gli altri, Roma contro Milano: finte opposizioni che si oppongono tra loro per raccattare voti.

Non c’erano bandiere di partito, perchè non ce n’era bisogno: la colonizzazione della pace è gestita dai media, attraverso interviste incrociate dei leaders che si provocano tra di loro su chi è più o davvero pacifista, senza che nessuno lo sia in alcun modo nei fatti e nelle scelte concretamente assunte.

E tanta piccola gente , ingenuamente partecipe, che vorrebbe solo stare tranquilla a casa sua -e qualche volta l’anno ama perciò uscire a farsi un bel corteo, tanto per celebrare i suoi appuntamenti liturgici sul calendario sacro della laicità- strumentalizzata e presa per il culo come sempre.

I pacifisti sono riusciti infatti ad organizzare una manifestazione per dare ancora una volta spazio ai partiti e alle loro beghe ed autorappresentazioni, in barba alla pace, ai poveri ucraini bombardati (dei quali continua a non fregar nulla a nessuno) ed ai poveri russi anti-putiniani, abbandonati a se stessi.

I pacifisti oggi? Solo utili idioti che coprono e accolgono per strada veri falchi camuffati da colombe, infiltrati della guerra mascherati dall’inquietante serenità di chi sa farsi gli affari suoi.

Rattrista davvero assistere a questa ennesima svendita del pacifismo nelle mani dei peggiori.

E rattrista vedere come anche gli stessi movimenti che si dicono ‘nonviolenti’ ci caschino sempre e ancora come polli, aderendo a vere e proprie mistificazioni di massa, mere (auto)manipolazioni di regime.

Così si collabora a quel che accade, alla cultura ed alla politica di guerra, anche se apparentemente si sfila contro di esse.

Ecco come e perchè siamo e resteremo senza pace.

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A Roma il 5 novembre, una grande manifestazione di popolo – Danilo Tosarelli

Oltre 100mila persone per chiedere la pace subito.
Tregua delle ostilità e spazio totale alle trattative diplomatiche.
Tutto ciò ha un senso, se si dice NO all’invio di armi.
Il popolo della pace aveva al suo fianco centinaia di associazioni.
Tra i partiti, Unione Popolare, Sinistra Italiana e il M5stelle.
Un Conte ringalluzzito, che spero sia definitivamente schierato.
Non dimentico le sue passate dichiarazioni favorevoli all’invio.
Conte, Errare humanum est, ma basta capriole…
A Milano in contemporanea, altra manifestazione sul tema.
Organizzata da Calenda e Renzi. Presente anche Letizia Moratti.
Presenti forse 2mila persone, per rivendicare un altro principio.
La libertà va difesa senza arrendersi. La pace non può essere una resa.
SI all’invio di nuove armi, per sostenere la resistenza dell’Ucraina.
Il Partito Democratico era presente sia a Roma che a Milano.
Una scelta paradossale e grottesca. Un insulto al buonsenso.
Mi chiedo come Letta possa conciliare,  posizioni contrapposte.
Il popolo della pace chiede lo STOP all’invio di armi in Ucraina.
Il terzo polo di Calenda, ne rivendica invece la necessità.
Qualcuno mi spieghi, cosa vuole fare il PD da grande…
Il governo italiano, ha già inviato per 5 volte armi in Ucraina.
Il governo Meloni si sta preparando al sesto invio.
Non solo sistemi di difesa aerea.
Anche i MLRS, che sono armi a lunga gittata. Una scelta scellerata.
Può solo favorire un’escalation, che ci avvicina al conflitto mondiale.
La maggioranza degli italiani è contraria all’invio di armi.
Il Partito Democratico continua a sostenere questa scelta.
Lo ha fatto anche il 6 ottobre 2022 al Parlamento Europeo.
Con che faccia, Letta si è presentato alla manifestazione di Roma?
Credo che questo PD vada svelato al più presto, senza reticenze.
In questo momento non lavora per la pace, anzi la preclude.
Questa sua strutturale subalternità politica, lo rende complice.
Calenda da una parte e Conte dall’altra, lo stanno stringendo all’angolo.
Considero il PD un ostacolo alla rinascita di una sinistra in Italia.
Amaro doverlo ammettere, ma oggi rappresenta un partito della guerra.
E se qualcuno di loro non è d’accordo con l’invio di armi, lo espliciti. Occorre il coraggio di smarcarsi da subito. Un dissenso dichiarato.
I tempi del Congresso sono lontani, mentre i tempi della guerra corrono.
Redazione
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