Attacco al cuore dell’Iran

Nuova sfida per il presidente Rouhani

di Marina Forti (*)

Per alcune ore la capitale iraniana è sembrata tornare ai primi anni ’80, i tempi turbolenti seguiti alla rivoluzione e alla nascita della Repubblica islamica. È successo la mattina di mercoledì 7 giugno, quando uomini armati hanno attaccato il parlamento nazionale, nel centro di Tehran, e il mausoleo dell’ayatollah Khomeini a sud della capitale. Il duplice attacco ha lasciato 17 morti e una quarantina di feriti, secondo l’ultimo bilancio diffuso giovedì dal governo iraniano. E l’impatto simbolico è ancora più alto, considerato che sono stati attaccati due pilastri della Repubblica islamica.

L’attacco è stato rivendicato dallo Stato Islamico, o Daesh, che ha diffuso un video proveniente dall’interno del parlamento mentre l’azione era ancora in corso: vi si riconosce l’ufficio di un deputato, un corpo a terra, e un attaccante che urla, in arabo: “pensate che ce ne andremo? Resteremo qui, se Dio vuole”.

L’esistenza di questo video è uno degli elementi che danno credibilità alla rivendicazione. Il ministero dell’Intelligence iraniano inoltre ha annunciato di aver identificato gli attentatori, che sarebbero cinque e tutti morti (due si sono fatti esplodere). In un comunicato spiega che erano giovani iraniani che avevano combattuto con Daesh in Iraq e Siria, ed erano rientrati in Iran l’estate scorsa “con l’intenzione di compiere attentati in città religiose del paese”. La rete però era stata scoperta, e il loro comandante ucciso.

Molti dettagli su come si sono svolti gli attacchi vanno ancora chiariti. L’assalto al parlamento è durato diverse ore, anche se gli attaccanti non sono mai arrivati nell’aula (che infatti ha proseguito i suoi lavori). Il ministero dell’Intelligence aggiunge che un terzo commando è stato bloccato prima di poter entrare in azione. Resta da capire come gli attentatori siano potuti entrare in due luoghi ben sorvegliati.

Certo è che l’attacco ha lasciato sotto shock gli iraniani. Su Telegram e Instagram circolano appelli a unirsi contro il terrorismo, dichiarazioni di condanna, foto di artisti e atleti con la scritta “Pray for Tehran”. Nel cuore di una regione attraversata da turbolenze e conflitti armati – l’Afghanistan a est, l’Iraq e la Siria a ovest – l’Iran è apparso finora un’isola di stabilità e sicurezza. Il duplice attacco di mercoledì ha colpito innanzitutto quel senso di sicurezza.

Se la rivendicazione sarà confermata, sarà la prima volta che lo Stato Islamico riesce a colpire in Iran, cioè nel territorio del suo principale nemico nel mondo musulmano: e questa è la seconda notizia.

Che l’Iran fosse nel mirino di Daesh era noto. In marzo lo Stato Islamico aveva diffuso un raro video in lingua farsi, in cui faceva appello alla minoranza sunnita iraniana a unirsi alla sua guerra contro i dominatori sciiti, “conquistare l’Iran e ristabilire la nazione sunnita di una volta”. D’altra parte, Daesh è in difficoltà sul piano militare, sotto pressione a Mosul in Iraq e ora anche a Raqqa, in Siria, la sua “capitale”. Così, da tempo ha fatto appello ai suoi seguaci a colpire il nemico ovunque sia: Manchester, Kabul, Baghdad, Londra. E ora Tehran.

Per Daesh, l’Iran  è un avversario militare, oltre che politico, fin dalla prima ora. Nell’estate del 2014, quando le milizie dello Stato islamico sono avanzate tra Siria e Iraq settentrionale senza quasi trovare ostacoli, l’Iran si è mobilitato: in parte aiutando i propri alleati, in parte con i suoi stessi uomini. Molti considerano che l’intervento iraniano sia stato decisivo per impedire a Daesh di arrivare a Baghdad. In via ufficiosa ma abbastanza esplicita, in quelle settimane diplomatici e dirigenti iraniani dicevano che difendere Kerbala e le altre città sciite irachene era una “linea rossa” a cui Tehran non avrebbe rinunciato. Da allora l’Iran combatte lo Stato Islamico, in Iraq e in parte in Siria. In via ufficiale Tehran non ha mai ammesso un intervento armato: fornisce solo consiglieri, addestramento, aiuti ai propri alleati per “combattere il terrorismo”. Il coinvolgimento iraniano sul terreno però è ormai innegabile, ed è anche qualcosa di cui in Iran si parla sempre più apertamente.

Dunque non è una sorpresa che l’organizzazione jihadista erede di al Qaeda volesse colpire l’Iran. Casomai stupisce che finora non ci fosse riuscita.

Non che non ci avesse provato. Da tempo le fonti di sicurezza iraniane lasciano filtrare notizie di attentati sventati e “reti terroristi” sgominate. Giovedì il ministro dell’Intelligence Mahmoud Alavi ha detto che le forze di sicurezza iraniane hanno sventato oltre un centinaio di potenziali attentati negli ultimi due anni. In agosto lo stesso ministro aveva detto che le autorità avevano impedito a 1.500 giovani iraniani di unirsi allo Stato islamico.

Gli attacchi a Tehran contribuiscono a alzare la tensione regionale, questo è chiaro. Ma tralasciamo per un momento le accuse all’Arabia Saudita e i toni duri degli Stati uniti. Che impatto avranno gli attentati sull’Iran stesso? Il mese scorso il presidente Rouhani è stato rieletto con un forte mandato popolare a continuare sulla via della distensione internazionale, rilanciare l’economia, e garantire più libertà pubbliche, che significa anche alleggerire gli apparati di controllo. Gli attentati però fanno suonare un allarme ed è facile prevedere che lo stato risponderà rafforzando gli apparati di sicurezza, con tutto ciò che questo comporta.

Bombe e attentati non sono una novità assoluta in Iran. Però bisogna risalire ai primi anni ’80, quando l’organizzazione dei Mojaheddin del Popolo (Mojaheddin-e Khalq, Mek) ha lanciato una campagna violenta, con centinaia di attentati in pochi anni – tra cui quello che nel 1981 uccise il presidente e il primo ministro in carica (e l’attuale Guida suprema, Khamenei, perse allora l’uso della mano destra). Il Mek è stato infine sconfitto (e si è rifugiato in Iraq sotto la protezione di Saddam Hussein, diventando una sorta di setta). L’Iran intanto ha costruito un apparato di sicurezza ferreo, fatto di servizi di intelligence e di forze paramilitari. È anche questo che ha garantito agli iraniani anni di tranquillità.

Oggi in Iran c’è un ampio consenso sul fatto che l’estremismo jihadista all’opera in molti paesi vicini sia una minaccia. “Non vogliamo vedere il nostro paese dilaniato come la Siria”, si sente dire sempre più spesso a Tehran: ed è un sentire che accomuna gli iraniani attraverso lo spettro politico. Il generale Soleimani, comandante delle forze di élite delle Guardie della rivoluzione, spopola sui social media ritratto durante le sue missioni in Iraq, ed è considerato un eroe nazionale. Naturalmente la “guerra al terrorismo” ha un risvolto meno glamour. Centinaia di giovani sono stati mandati a combattere con le forze speciali iraniane in Iraq o in Siria, e molti sono caduti. C’è notizia di afghani reclutati con il miraggio della cittadinanza iraniana, o di giovani arruolati tra gli strati sociali più depressi del paese. Negli ultimi due anni nei cimiteri iraniani sono comparse nuove tombe, “martiri” della guerra contro Daesh. Caduti in una guerra combattuta fuori casa per permettere all’Iran di restare in pace? Molti ne sono convinti. La minaccia di attacco esterno ha sempre unito il paese.

Non più di un mese fa un noto commentatore vicino al governo Rouhani (e ai suoi esponenti riformisti) notava che in fondo gli iraniani sono disposti a scambiate sicurezza con controllo. “Garantiscono la sicurezza, e tutti gli sono grati. In cambio impongono la loro presa sul paese”.

Riuscirà il governo Rouhani a rafforzare la sicurezza salvaguardando le libertà civili? Il rischio è che in nome della sicurezza arrivi invece una nuova ondata di repressione interna contro il dissenso. Un altro rischio è un’ondata di repressione verso le minoranze sunnite, guardate con sospetto come potenziale serbatoio di reclutamento per lo Stato islamico.

In realtà, finora Daesh è penetrato solo con difficoltà in Iran. In parte per l’opera degli apparati di sicurezza, ma anche perché contro le previsioni non ha dimostrato un grande appeal presso i sunniti iraniani. È vero che le regioni iraniane a maggioranza sunnita covano rimostranze verso lo stato centrale, dal Kurdistan alla provincia del Sistan-Baluchistan confinante con il Pakistan (dove esiste anche un’organizzazione estremista armata, Jundullah, che in passato ha compiuto attentati: l’ultimo nel 2010, in una moschea, con 39 morti). Ma non bisogna trarne conclusioni affrettate: il Baluchistan e il Kurdestan non hanno dato grande sostegno ai movimenti estremisti. Invece sono tra le regioni dove la partecipazione al voto è stata più alta, alle ultime presidenziali, e dove il presidente Rouhani ha un consenso massiccio. In Balucistan ha fatto notizia tra l’altro per aver eletto una maggioranza schiacciante di donne nel governo locale.

Nel frattempo le Guardie della Rivoluzione hanno mandato messaggi inequivocabili. “I terroristi saranno puniti duramente ovunque si trovino”, ha commentato l’ex comandante delle Guardie, Moshen Rezai, sul suo canale Instagram. Mentre un comunicato ufficiale sottolinea che “le Guardie hanno dimostrato che sapranno rispondere al sangue versato (…) e non esiteranno nel proteggere la sicurezza nazionale e le vite del nostro popolo”.  La tensione è destinata a salire.

Credit: AP Photo/Ebrahim Noroozi 

(*) ripreso da «Reset», http://www.reset.it/reset-doc/forti-iran-daesh

alexik

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