Attilio Brilli, Sara Rattaro, Remo Bassini con…

…Andrea Graziosi, Guido Barbujani, Simon Mason, Pietro Spirito, Andrea Zannini, Luca Mercadante, Mauro Varotto – 10 recensioni di Valerio Calzolaio

Le vie del Gran Tour – Attilio Brilli

Il Mulino Bologna – 2025

Pag. 253 euro 16

 

Europa. Fra la metà del Cinquecento e il primo Ottocento. Secoli fa viaggiatrici e viaggiatori, giovani e non più giovani, calcarono le strade europee con finalità diverse (cultura, piacere, svago) a seconda dell’età, del paese d’appartenenza e dell’identità culturale. Tale rito di formazione e di accrescimento culturale è stato una pratica assai diffusa presso le classi aristocratiche e alto-borghesi, con caratteristiche variabili a seconda della mentalità o della religione dominante del singolo paese, della relativa situazione storica e politica, delle lingue conosciute o da imparare, di alleanze e guerre. Già nel secondo Cinquecento l’umanista fiammingo Giusto Lipsio faceva presente che il viaggio in Italia doveva essere compiuto “non cum voluptate solum, sed cum fructu”. L’aver esaltato il rilievo dell’Italia come meta esclusiva, in molti casi ha lasciato in ombra diversificate rilevanti esperienze perseguite nei paesi transalpini o in quelli mediterranei, esperienze ricostruibili percorrendo le strade, ascoltando anche altri viaggiatori, verificando percorsi e tragitti, sostando nelle città, frequentandone i salotti e interrogando istituzioni culturali come le università, i collegi e le accademie nelle quali vennero in vario modo vissute. Istituita per la formazione organica del giovane gentiluomo destinato a diventare consigliere di corte, a intraprendere la carriera diplomatica, o quella politica, a gestire con oculatezza proprietà fondiarie e beni di famiglia, la pratica del Gran Tour ben presto si è trasformata e arricchita, per rispondere via via a esigenze di aggiornamento professionale di una più vasta compagine adulta di intellettuali, artisti, scienziati, filosofi, oltre che di studenti di varie discipline e arti.

 

L’anglista, critico letterario e traduttore Attilio Brilli (Sansepolcro, Arezzo, 1936) è stato a lungo docente universitario di letteratura angloamericana e da decenni è un grande storico della letteratura di viaggio. In questo colto documentato testo di una bella fortunata collana editoriale (Ritrovare l’Europa; alcune vie indispensabili, dalle monete alle capitali gotiche), dopo una lunga introduzione sulla pratica antica del Gran Tour “per una formazione europea” (da cui il titolo). Il termine compare per la prima volta nel volume dell’inglese Richard Lassels del 1697, sebbene dovesse figurare come locuzione d’uso da diverso tempo. L’autore ci guida attraverso diciotto itinerari (capitoli, ciascuno di una decina di pagine, esaminando in alcuni paragrafi le città principali insieme a tante altre): Londra e il mito della cultura classica; Parigi, il piacere dei sensi e della mente; Lione, dove s’incrociano tutte le strade (anche quelle verso Tolosa); Amsterdam, “la perla d’Olanda”; Bruxelles e l’eredità dei viceré spagnoli; Ratisbona e le diete dell’impero; Berlino e le arti della guerra; Vienna, baluardo del mondo cristiano; Lisbona, tramonto di un impero coloniale; Madrid, cassiera d’Europa; Torino e Milano, primi contatti con l’Italia; Firenze e la sindrome di Stendhal; Roma, crogiuolo della storia; Napoli, “qui ha termine il continente”; Venezia, alcova d’Europa; Mosca guarda a occidente; Larissa, il Gran Tour guarda a oriente; La Valletta e le rotte del Mediterraneo (utili a comprendere quel che accade anche oggi, necessariamente). In fondo una pertinente nota bibliografica (gli studi sulla pratica e viaggiatori o viaggiatrici citate nel testo), ma non un indice di nomi e luoghi.

 

 

Gli eroi della Shoah. Storie dei Giusti tra le Nazioni – Cura e prefazione di Sara Rattaro

Morellini Milano – 2025

Pag. 249 euro 20

 

Italia ed Europa. Periodo del nazifascismo antisemita. Dal 1962 esiste un’onorificenza ufficiale conferita dall’Ente nazionale per la Memoria della Shoah dello Stato di Israele (Yad Vashem) a tutti i non ebrei riconosciuti come “Giusti”, coloro che hanno salvato anche un solo ebreo dal genocidio nazista della Shoah (molti solo se rintracciati, ovviamente, in vario modo). Ciò accadde soprattutto in Germania e in Italia, alleate prima e dopo la dichiarazione di guerra, e in vari paesi invasi o occupati: alcune persone o famiglie “comuni” compirono esemplari atti segreti di notevole coraggio e altruismo, mettendo a repentaglio la propria vita per salvare quella degli ebrei perseguitati. Il racconto delle loro vicende arricchisce di continuo la conoscenza dei complessivi eventi storici o degli articolati contesti sociali più noti e ci consente di conoscere la piccola biografia di grandi uomini e donne, insegnanti, sacerdoti, medici, ufficiali militari, talora di piccole comunità familiari o civili. Ecco qui diciannove di loro: Teresa Bandini (a Milano), Oberdan Bardoni (a Roma), Moshe Bejski (in Polonia, poi magistrato in Israele e direttore della Commissione dei Giusti dal 1970 al 1995), Padre Marie-Benoit (in Francia), Nella Bichi, don Vincenzo Boni Baldoni, Giovanni Borromeo, don Eugenio Cesare Bussa, Attilio e Jole Cornini (a Parma nel 1943 e nel 2012), Gilleleje (villaggio danese), Adélaide Haas Hautval, Le Chambon-sur-Lignon (villaggio francese), Carl Lutz, Nino Marchetti, Jane Mathison Hainting, Clotilde Roda Boggio, Angelo Giuseppe Roncalli (poi eletto papa nel 1958, proposto ma ancora non nominato Giusto), consolato di Salonicco (Grecia, invasa dall’Italia nell’ottobre 1940, zona di influenza tedesca nel 1942-43, Giusto di fatto), Adele Zara. Per alcuni di loro esiste una bibliografia, per altri esiste scarsa documentazione (finora), persone e fatti che meritano di essere narrati.

La scrittrice genovese Sara Rattaro (1975), laureata prima in biologia poi in scienze della comunicazione, ha pubblicato vari romanzi e tiene corsi di scrittura. Ha chiesto a diciannove colleghe scrittrici (sedici) e scrittori (tre), più o meno giovani e collaudati, di realizzare una narrazione biografica di altrettante personalità storiche (“eroi”) collegate alla Shoah e ai Giusti tra le Nazioni (da cui titolo e sottotitolo). Si tratta quindi di una serie di racconti, alcuni con una parte rilevante di fiction, raccolti nell’ordine alfabetico dei “salvatori” giusti. Sia i singoli protagonisti che la dimensione narrativa (tempi, dialoghi, occasioni, titolo e titoletti, frasi in esergo) sono stati scelti autonomamente dagli autori, che li firmano e hanno in fondo una breve nota biografica (residenti e operativi in tante diverse città italiane): Federica Sportelli (nel 2022 corso di scrittura la Fabbrica delle Storie con Rattaro), Alessandra D’Alessandro, Marco Contraffatto, Giovanni Mandruzzato, Chiara Valseschini, Cristiana Melli, Francesca Nonaco, Antonella Miloro, Connie Bandini (romanzo d’esordio nel 2024), Margherita Firpo, Marcella Manca, Franca Pellizzari, Claudio Righenzi, Grazia Riggio, Marta Carestini, Emilia Covini, Cristiana Mantovani, Maria Cristina Bombelli, Maura Hary. Nella prefazione Sara Rattaro sottolinea l’utilità di “uno sguardo profondo e commovente sulle vicende di coloro che, senza mai cercare riconoscimenti o ricompense, hanno seguito un imperativo morale che li ha spinti a opporsi al male assoluto … tassello di una storia più grande, quella della resistenza morale che ha attraversato l’Europa”. Gesti poco noti, mai banali, fra paure dubbi sofferenze travagli, per nascondere, proteggere, far fuggire, salvare altri. Attuali.

 

 

Bastardo Posto – Remo Bassini

Golem Torino – 2025 (1° ed. 2010, Perdisa)

Pag. 149 euro 15,90

 

Una cittadina del Nord Italia. Primi anni duemila. Una notte di marzo, mentre diluvia, il giornalista 43enne Paolo Limara fissa la vetrina di un negozio chiuso da quattro anni sotto i portici, c’è un manichino nudo, riflette tra ricordi e fantasmi. La svolta era avvenuta quasi sei mesi prima: una notte come quella aveva visto una donna che dormiva in auto, si erano messi a parlare. Moglie e figlio erano in viaggio, l’aveva invitata a casa per un caffè, era scoppiato un amore intenso e disperato. Lei ora è morta da quattro giorni, si chiamava Marina Castori, dovrebbe essere stato un incidente (anche il figlio piccolo di lei era morto così anni prima, investito da una moto), lui ha sospetti. Marina era una dottoressa e gli aveva confidato una brutta storia di pedofili accaduta nove anni prima, nessuna aveva davvero indagato e i corpi degli scomparsi (tre ragazzini e un’assistente sociale) non erano stati mai trovati, alcuni preti erano coinvolti in vario modo (per esempio come confessori). Lei conosceva il responsabile di tutto, Filippo Tuddia, l’intoccabile potente mafioso che vive lì, gestendo attività criminali e facendo assistere da badanti l’anziano padre. Quando a gennaio aveva iniziato a crederle, un amico poliziotto gli aveva fatto vedere, rammaricato, un video in cui lei se la faceva con altri uomini, era quasi impazzito, ma forse era pure quella una manovra di Taddia. Ora c’è il funerale di Marina e si fa vedere lo stesso elegante mafioso, il quale, fra l’altro, attraverso debiti del videopoker, si era fatto vendere il negozio dalla 48enne Viola Rodesi, che una di quelle notti incrocia Paolo sotto i portici, entrambi tristi e disillusi. Nasce un’altra possibile reciproca attrazione, anche se una Volvo nera continua a girare lì intorno (l’uomo che guida legge gialli e noir) e vi sono varie telecamere fatte piazzare da Taddia in angoli strategici (la badante bada pure ai monitor). Disperazioni si intrecciano e si accavallano, Loro tramano nell’ombra, i potenti vogliono uscirne (tramite i giornalisti, un po’).

Il bravo giornalista e scrittore (già operaio e portiere di notte) Remo Bassini (Cortona, 1956) fin da piccolo si è trasferito a Vercelli, collaborando come redattore e direttore di testate locali, e pubblicando dal 2002 via via vari romanzi, un’esperienza letteraria sempre più orientata al genere noir meditabondo ed esistenziale. Questo libro ha una storia editoriale quasi ventennale e abbastanza travagliata: doveva uscire nel 2007 con la Newton Compton (proprio il giorno della stampa l’uscita fu rinviata a data da destinarsi, nonostante centinaia di prenotazioni); successivamente il manoscritto arrivò a vari editori e il primo (non il solo) a rispondere positivamente risultò il grande Luigi Bernardi (1953-2013); il testo uscì quindi per Perdisa fra 2010 e 2011 (mille copie, ben presto esaurite). L’opportuna riedizione (riveduta e corretta) avviene ora con Golem, un vero noir sofferto e disfattista, caratterizzato dall’incidere volutamente zoppicante ed egocentrico (pure rispetto alle singole famiglie) di più individui solitari e ormai titubanti rispetto alla vita. Attraverso le confidenze e le confessioni, durante cinque fredde notti invernali si ripercorrono gli eventi cruciali e i segreti del resto di quei giorni e, attraverso salti e rimandi a vari mesi e anni precedenti, gli intrecci sentimentali o criminali di molteplici parallele esistenze nelle cronache di quella stessa cittadina, apparentemente tranquilla e laboriosa. L’iniziale notte davanti al manichino, Limara vorrebbe correggere il titolo appena scelto dai capi del suo giornale per la prima pagina a caratteri cubitali, Gente per bene, con Bastardo posto (da cui il titolo del romanzo, invece). Scriverà il medesimo concetto all’interno di un brutto necessario articolo qualche giorno dopo, e il senso è ovviamente diverso da quello della canzone di Guccini. Capricci d’atmosfera con tanti liquori, comunque l’azionista offre Passito di Pantelleria al direttore del quotidiano: le notizie bomba possono uscire a comando, si sa.

 

 

Il ritorno della razza. Alle radici di un grande problema politico contemporaneo – Andrea Graziosi

Il Mulino Bologna – 2025

Pag. 170 euro 13

 

Pianeta. Ultimi millenni. Gli esseri umani, nella loro infinita varietà e diversità, sono tali in quanto individui dotati di ragione, lingua, coscienza e libero arbitrio e non perché appartengono a questo o quel gruppo collettivo o categoria nazionale, razziale, sociale ecc. Queste categorie possono essere e spesso sono espressione di differenze reali e sono altrettanto spesso utili, e persino indispensabili, all’analisi della realtà. Ma anche quando lo sono è fondamentale ricordare che si tratta comunque di nostre creazioni intellettuali transeunti e instabili. Se reificate come entità superiori agli individui che le compongono queste categorie possono portare alla catastrofe, a conflitti, a sofferenze e “bestialità”. Fino ai primi decenni del XX secolo il termine razza era di uso comune in molte lingue e copriva una vasta parte dell’area semantica della discendenza e delle diversità umane. A partire da circa un secolo fa teorie e pratiche mostruose spinsero l’intelligencija del nostro continente, anche quella che di razza aveva parlato senza problemi, a porre un tabù sul termine. Non accadde, però, in tutto il mondo e discutibili usi sono poi sempre continuati. Vale la pena, allora, ripercorrere la storia di un’idea e di un concetto fondamentali. Certo, ragionando anche istituzionalmente sulle principali esperienze fatte e sulle soluzioni cercate in altri paesi: l’utopia di società, stati e popoli etnicamente puri ha causato tante inutili sofferenze. Tuttavia, la razza, come colore ma anche come teorizzazione di una differenza “essenziale” di popoli-monadi, è purtroppo di nuovo con noi.

Lo storico Andrea Graziosi (Roma, 1954), esperto di storia sovietica e oggi docente all’università di Napoli, sta preparando da lungo tempo un corposo volume che dovrebbe ormai uscire entro un paio di anni e potrebbe intitolarsi Uguaglianza e differenze. La storia vista attraverso la classificazione umana: razza appunto, ma anche popolo, nazione, lingua, etnia, tribù, religione, ceto, classe, casta, sesso età, quoziente di intelligenza, recidività ecc. In questo preliminare e agile testo, Graziosi si focalizza sulla storia dei paradossali e spesso tragici mutamenti e addirittura rovesciamenti di senso del concetto di razza, intrecciandolo con quello di popolo, nel senso etnico acquisito da quest’ultimo a fine Settecento. La narrazione segue nel corso del tempo i contributi più originali (giusti, sbagliati o detestabili che vadano considerati) e gli eventi più carichi di conseguenze per lo sviluppo di un’interpretazione della realtà e delle vicende umane come prodotto di categorie collettive basate sulla discendenza e spesso ordinate gerarchicamente, la razza prima di tutto. I quattro capitoli scandiscono successivi lunghi periodi storici, i singoli pensatori e il cointesto evenemenziale (senza appesantimento di note): le “radici” del concetto, dal mondo classico alle grandi scoperte europee simboleggiate dal 1492; la crescita della scienza e della potenza europee e le grandi rivoluzioni “illuminate” del XVIII secolo, sfociate paradossalmente in una politica fondata sull’identità e la discendenza; l’affermazione del materialismo, del “razzismo scientifico” e della supremazia bianca, accanto alla rivoluzione darwiniana e mendeliana, che distrusse le fondamenta intellettuali del concetto di razza, senza tuttavia impedire che esso traesse nuova forza dalla confluenza di nazionalismo, socialismo e imperialismo in un’interpretazione della storia del mondo come lotta tra popoli, razze e colori che purtroppo sembra oggi rinvigorita; il XX secolo, con le sue guerre terribili anche perché ispirate alle teorie della fase precedente, generatrici di politiche atroci, ma anche il secolo del rifiuto europeo del concetto di razza e infine del ritorno di questo concetto (da cui il titolo), trasformato in colore ma pur sempre contenente forti e pericolose, oltre che sbagliate, venature “razziste”. Doppia sintetica bibliografia finale, distinguendo i riferimenti essenziali e quelli utili “per approfondire”.

 

 

L’alba della storia. Una rivoluzione iniziata diecimila anni fa – Guido Barbujani

Laterza Bari – 2024

Pag. 201 euro 20

 

Terra. Ultimi diecimila anni, circa. La rivoluzione climatica, scientifica, tecnologica e sociale a cui, volenti o nolenti, partecipiamo, non è la prima. Forse ragionare su una rivoluzione che l’ha preceduta, anche se nella preistoria, può aiutarci a capire un po’ meglio cosa ci sta succedendo, e quindi a discriminare fra preoccupazioni giustificate (tantissime) e ansie infondate (parecchie anche loro). Le trasformazioni che si misero in moto nel neolitico diecimila anni fa ancora influenzano il nostro modo di lavorare, di vestirci, di mangiare, di confrontarci con gli altri membri della nostra comunità. La rivoluzione neolitica ci ha cambiato i geni e qui il “ci” si riferisce proprio a tutti: umanità, animali e piante. Gruppi di individui della nostra specie si mettono a produrre il cibo di cui hanno bisogno, coltivando campi e allevando bestie e bestiole. Prima nel vicino Oriente, nella cosiddetta Mezzaluna Fertile e in Anatolia; qualche millennio dopo in Cina; ancora qualche millennio più tardi nell’America centrale e nelle Ande; e infine più o meno dappertutto. Con la maggiore disponibilità di cibo, la popolazione, piano piano, cresce. Le comunità diventano sedentarie: prendono forma i primi villaggi, che nei casi più fortunati daranno vita alle prime città. Ci si specializza in attività e arti connesse e ordinate, le società si articolano e strutturano. Genetisti e archeologi hanno, in particolare, ricostruito una grande migrazione demica dall’Anatolia verso Grecia e Cipro, poi verso l’Europa prima orientale e poi occidentale fino alla Spagna, ancora poi verso nord Europa e isole britanniche. Sulle gambe dei rivoluzionari, i primi agricoltori del vicino oriente, i geni delle prime popolazioni anatoliche sono penetrati, diluendosi a poco a poco, nelle popolazioni europee, cambiando mezzi di sussistenza e aspetto, paesaggi e stili di vita, una svolta cruciale, tale da segnare il limite fra un prima, la vecchia età della pietra, cioè il paleolitico, e un dopo, la nuova età della pietra, cioè il neolitico.

Il grande scienziato genetista Guido Barbujani (Adria, Rovigo, 1955) ha insegnato a New York e Londra, a Padova e Bologna, ora a Ferrara; da molti decenni studia e lavora pure sperimentalmente sul DNA; con l’usuale chiarezza divulgativa, il suo nuovo libro si concentra sui millenni dopo la fine dell’ultima glaciazione, con enfasi forse eccessiva sullo spartiacque storico evoluzionistico (da cui il titolo). I sette capitoli descrivono come il neolitico abbia rivoluzionato, tramite le migrazioni, i geni delle piante (il secondo), degli animali (quinto) e dell’umanità (quarto), abbia rinnovato parallelamente le nostre relazioni sociali (terzo) e le nostre lingue (sesto), mettendoci di fronte a situazioni inedite (primo), che però hanno a che vedere con il presente e addirittura con il futuro (settimo). Una nota “per saperne di più” si trova in fondo a ogni capitolo, con un’aggiornata bibliografia essenziale per paragrafi, spunti e citazioni del testo, accompagnato anche da qualche utile figura e mappa colorata. Ogni tanto appare una parola in arancione, che rinvia al piccolo glossario finale di oltre cento termini o categorie o concetti (da adattamento a Yamnaya) spiegati con qualche frase (in modo impreciso nel caso di “migrazione”, che qui diventa ogni “spostamento di individui o popolazioni attraverso lo spazio geografico”; nel testo l’uso è invece quasi sempre corretto e pertinente). La genetica ha davvero molto a che fare con la nostra vita, l’autore ricorda anche aneddoti, aspetti e controversie del proprio percorso scientifico: ancora non siamo riusciti a tracciare una linea chiara fra ciò che è utile o lecito fare delle nostre biotecnologie, ma neanche a prevedere quanto si nasca intelligenti, o timidi, o propensi ad ammalarci di certe malattie, e quanto invece lo si diventi. Possiamo invece dire con tranquillità che la sostituzione etnica è una bufala, e che le discussioni sulle razze umane andrebbero lasciate alle spalle perché non portano a niente e non servono a niente. Ribadisce Barbujani: la conoscenza e la scienza sono il vero terreno comune su cui incontrarsi.

 

 

Un omicidio a novembre – Simon Mason

Traduzione di Luisa Nera

Sellerio Palermo – 2024 (orig. 2022)

Pag. 460 euro 16

 

Oxford e Londra. Metà novembre. Grande festa offerta dal Rettore Sir James Osborne per l’emiro sceicco Fahim bin Sultan al-Medina nella Burton Suite del Barnabas Hall, uno dei college più deliziosi di Oxford. Potrebbe servire in vista di qualche finanziamento con denaro fresco. La sicurezza era già ridicola e quella sera accadono cose proprio strane: il rettore è nervoso e compie gesti sospetti, lo sceicco scopre una presenza inattesa e se ne va, studenti burloni s’attrezzano per un denudamento goliardico, qualcun altro s’aggira in modo inusuale o misterioso nelle varie austere sale e, soprattutto, a un certo momento il rettore e la moglie trovano il cadavere di una bellissima ragazza per terra sulla moquette dello studio, in maglietta e blue-jeans, a ventre scoperto, lingua gonfia e sporta in fuori, strangolata. Per il combinato disposto di accidenti e omonimie, a indagare devono impegnarsi due Wilkins: da una parte il neoassunto 27enne Ryan, biondastro nato e cresciuto in una roulotte di periferia (dove vivono ancora il padre violento e la madre soggiogata), grossi sproporzionati naso e mento, cicatrice sulla guancia sinistra, fine cervello spesso assente e vagante, smilzo e apparentemente goffo (ma sa di kickboxing), sciatto rabbioso irriverente, innamorato genitore del biondo Ryan junior, due anni; dall’altra parte l’ispettore 30enne Raymond, di incarnato scuro, alto bellissimo elegante, occhiali dalla montatura alla moda, laureato nel 2006 al college Balliol di Oxford e in carriera, felicemente sposato con Diane (ancora senza un’attesa prole). Sarà lungo e snervante sia frequentarsi in tranquillità che dare un nome alla vittima. La 56enne Sovrintendente Wellington deve trovare il modo per gestire la situazione (in città ci sono stati anche tafferugli con morti), tanto di più che il rettore è un viscido spocchioso maschio, mette di mezzo i potenti e la ricerca s’appunta pure sul Corano.

L’esperto scrittore Simon Mason (Sheffield, 1962), dopo molti romanzi (anche per ragazzi) e autorevoli direzioni editoriali, ha recentemente avviato una serie noir (crime, gialla), di notevole efficacia e successo, questa è la prima avventura uscita nel 2022, siamo già (a inizio 2025) arrivati alla quinta, le altre in corso di prossima traduzione. Qui il contesto è autunnale (da cui il titolo) e prestigiosa l’imbarazzante scena dei crimini. Frequenti sono i riferimenti alla Siria e al Medio Oriente. La narrazione è in terza varia, volutamente ritmo e percorsi risultano non lineari, appaiono talora brevemente personaggi non subito identificabili (mettendo a infelice repentaglio il regolare tacito patto con i lettori). Tuttavia, perlopiù seguiamo i due protagonisti, con interesse e divertimento, all’inizio separatamente, poi nel continuo battibecco. Appare questo il pezzo forte del romanzo: un’inaspettata “coppia di fatto” composta da due personalità spiccate e stimolanti, maturate con un notevole divario sociale, costrette sempre più a condividere l’indagine, per dovere o poi per fissazione. Quando il disadattato geniale Ryan, dopo la sollecitazione della sorella Jade che spesso gli tiene il piccolo ed è preoccupata per la malmenata mamma, va finalmente a trovare i genitori al campo caravan, un accento meticcio (in parte irlandese, in parte da avanzo di galera) lo guarda avanzare esclamando: “che mi venga un colpo se non è il cazzo di figliol prodigo”. Alcolici fra i più vari, il vino lo sceglie il Ryan nero (Pinot grigio un paio di volte, per la cena marocchina ottimo Sauvignon Blanc), che in auto ascolta Bach, a volume basso. Gusti diversi fra i due anche in fatto di musica: l’altro mette le cuffie per non disturbare il figlio e si scatena con il rave (oppure in discoteca).

 

 

È notte sul confine Pietro Spirito

Guanda Milano – 2025

Pag. 252 euro 18

 

Trieste. 1970, da fine agosto. Lo stempiato 42enne Ettore Salassi, occhiali spessi da miope alla Stagno, baffi imponenti alla Bronson, è un bravo esperto cronista del quotidiano locale, lontanissimo passato di estrema destra, un presente di ladro di libri a seguito di occasionali impulsi emotivi e di collaborazione con i servizi segreti a seguito di regolare arruolamento. Questa volta il tarchiato pelato colonnello 50enne gli offre l’esclusiva sull’identità del cadavere da poco ritrovato ed estratto dal mare, poi gli consegna la relativa cartellina: il 21enne originario di Palermo Settimo Santo lavorava per i servizi, si trovava in missione per il Sid, infiltrato come militare di leva a Saluzzo, caporale furiere (dietro una scrivania), con il compito di tenere d’occhio “certi” movimenti nel Nordest, siamo alla vigilia del golpe Borghese. Il giornalista può fare un grande scoop, deve però sviare l’attenzione verso una possibile questione di droga, avrebbero lasciato trovare ai carabinieri nell’armadietto del ragazzo in camerata tre o quattro bustine di eroina, e successivamente scrivere un altro pezzo sull’attività di un circolo sportivo di arti marziali (senza far capire la realtà che si tratta di un covo di fascisti, forse implicato in un traffico d’armi). Salassi è diligente e segue via via le istruzioni. Vive solo, beve molto cognac, fa coppia in redazione con il donnaiolo di sinistra Max Pastini, ha episodiche relazioni sentimentali ed è abbastanza infatuato della bella nipote della portinaia, la 33enne impiegata di banca Maja Kralj, forse una spia slovena, cui inizia a regalare alcuni libri di poesie (rubati). Il fatto è che il colonnello gli dà una pistola, qualcuno tenta di aggredirlo e pestarlo, scompare pure un pescatore che aveva intervistato; passano settimane e mesi di misteriosi intrighi e preparativi criminali; depistaggi e violenze sono invadenti in quell’ecosistema sociale, linguistico e culturale di confine.

Il giornalista e scrittore triestino Pietro Spirito (Caserta, 1961) lavora alle pagine culturali del Piccolo e racconta variamente da un quarto di secolo: romanzi, saggi, opere teatrali, film documentari, programmi radiofonici. L’incipit del bel noir è un episodio militare sospetto e preoccupante: durante un’esercitazione di pattugliamento notturno sull’altopiano carsico (da cui il titolo), la squadra guidata dal sergente Skorpion era stata intercettata e disarmata dai graniciari jugoslavi. Quella terra di confine risultava intrisa di sangue, due guerre mondiali l’avevano stremata lasciando memorie di scontri, fughe, combattimenti, sentimenti d’odio e di separazioni (considerate più o meno eque e fluide), votati a bagnare di sangue amaro ogni ciuffo d’erba, ogni sasso, ogni anfratto. La narrazione è in terza (quasi) fissa sul giornalista. A fine 1970 sempre più incombe il piano del colpo di Stato promosso da Junio Valerio Borghese, ex comandante della Decima Mas (speciale reparto della Marina militare divenuto feroce strumento fascista alla fine della seconda guerra mondiale) per sovvertire il governo costituzionale democratico in Italia. Frequenti i riferimenti al terribile campo di concentramento fascista italiano per slavi (e per gli ebrei non deportati) sull’isola carcere di Arbe dal luglio 1942 al settembre 1943. Vari liquori, ma due bottiglie di Sauvignon per la cena in cui il colonnello racconta di essere stato alunno del padre di Salassi dal 1936 al 1939 al liceo Oberdan di Trieste (i cui luoghi e quartieri di oltre mezzo secolo fa sono spesso ricostruiti). Quando il giornalista e Maja s’abbandonano a confidenze mettono sul piatto Get Up I Feel Being a Sex Machine di James Brown.

 

 

Storia minima d’Europa. Dal Neolitico a oggi – Andrea Zannini

Il Mulino Bologna – 2025 (3° edizione, 1° 2015, 2° 2019)

Pag. 367 euro 28

 

Dalle nostre parti e da millenni, in vario modo. Vi è poco accordo tra gli studiosi sull’etimologia della parola Europa; non meno labirintico appare lo sviluppo della nozione geografica (pur con qualche basilare riferimento fisico); il concetto appare eminentemente storico ovvero comprensibile solo in quanto si modifica con il tempo, ha da tempo a sud il Mediterraneo, l’Atlantico a ovest, l’Artico a nord e comprende a est un territorio fin oltre gli Urali e fin oltre Creta. Il meccanismo che ha maggiormente contribuito alla sua formazione è la contrapposizione etnografica. L’idea di un gruppo di ecosistemi e popoli con caratteristiche comuni si fa strada a partire quasi dall’inizio del Medioevo, sia il mondo greco che quello romano erano imperi mediterranei piuttosto che europei. Certo, un’Europa originaria, autentica e pura non è mai esistita: lo spazio europeo è sempre stato un luogo di ibridazioni, interazioni, contrasti. D’altronde non avrebbe potuto essere altrimenti, considerando come non esistano confini fisici a delimitarlo. La storia delle radici prime dell’Europa è un complesso intreccio di lente trasformazioni interne e di veloci fughe in avanti, di impercettibili modificazioni strutturali e di catastrofi improvvise (più o meno “naturali”). Se si cerca di ricostruire e narrare un compendio di fatti e di idee di ogni tipo (politico, religioso, militare, pacifico, serio, romantico, vicino, lontano, tragico, comico, significativo o irrilevante) si corre il rischio di far diventare la storia europea “tutto quello che gli storici vogliono che sia” (Alan John Percival Taylor, 1986). Gli storici (come lui, 1906 – 1990), o i dirigenti politici o i rappresentanti istituzionali, possono correrlo, si sa, tuttavia soprattutto gli storici possono forse contribuire anche a ridurre confusione e ideologie.

 

L’esperto efficace storico Andrea Zannini (Mestre, 1961) tiene da una ventina d’anni un corso di Storia dell’Europa all’università di Udine. Quando cominciò la costruzione dell’unità europea sembrava procedere a vele spiegate, tra la necessità di numerosi paesi usciti dall’esperienza del blocco sovietico di ancorarsi a un multiforme progetto di democrazia liberale e lo spettro del fondamentalismo religioso jihadista materializzatosi nell’attacco alle Torri gemelle dell’11 settembre 2001. Da allora molto è cambiato, dentro e fuori i paesi dell’Unione, ancor di più sta cambiando negli ultimi anni e in questo 2025. Siamo alla terza aggiornata e integrata edizione del volume uscito nel 2015. I capitoli sono venti, il primo approfondisce la storia del concetto, geografico o culturale di Europa, e parte dalle definizioni, innanzitutto quelle di continente (inadeguata a capire bene, da noi e nel pianeta Terra) e di eurocentrismo (ideologizzato solo attraverso una serie di precocità e successi). Il secondo capitolo è dedicato alle radici più remote (dall’Africa, con il Neandertal primo vero “europeo”), alla transizione neolitica (dalla Mezzaluna Fertile, con la lenta innovazione stanziale) e alla decisiva storia linguistica (l’inesausta ricerca dell’indoeuropeo, il caso di Creta) che testimonia la ricchezza e al contempo la diversità interna del percorso storico europeo. I successivi capitoli, con accorta selezione di passaggi, personaggi e fatti storicamente rilevanti, sono abbastanza cronologicamente dedicati a: Il mondo antico (greco e romano); La formazione dell’Europa cristiana; Maometto e Carlomagno; L’Europa dei castelli; L’Europa delle città; L’Europa fuori d’Europa; L’età delle religioni armate; le metamorfosi dello stato; Il miracolo europeo; L’età delle rivoluzioni; L’Europa dei diritti; L’Europa delle nazioni; L’età del progresso; L’Europa nel baratro; Il Nuovo Ordine Europeo; Un’Europa ricca e divisa; La costruzione dell’Europa unita; Le ombre d’Europa (l’ultimo ventennio). Seguono la bibliografia (sia generale essenziale che distinta per capitolo), l’indice dei nomi e l’indice dei luoghi. Continui e rilevanti i riferimenti alle migrazioni, ovviamente: per esempio lo straordinario mosaico linguistico “è il frutto dell’apertura dell’Europa, sin dalle epoche cosiddette preistoriche, alle migrazioni di popolazioni provenienti da altri continenti”. Segnalo che nel maggio 2017 è stata inaugurata a Bruxelles anche la “casa della storia europea”, situata nel parco Léopold, prevalentemente “limitata” agli ultimi due secoli, attraverso oggetti, installazioni interattive, filmati storici e spazi di riflessione, circa trecento mila visitatori fino a inizio 2025.

 

 

La fame del Cigno – Luca Mercadante

Sellerio Palermo – 2025

Pag. 411 euro 17

 

Foce del Volturno (il più lungo fiume dell’Italia meridionale), provincia di Caserta. Fine autunno recente. Alle quattro del pomeriggio del 12 dicembre il giornalista 48enne Domenico Cigno vede arrivare sotto casa sua, a viale degli Eucalipti di Baia Verde (litorale domitio, quasi trenta chilometri di costa, lui cascante villetta con giardino a trecento metri dal mare), il bell’amico 26enne Tony (ex tossico aspirante reporter) che lo convince a salire in auto. Hanno trovato un cadavere, dovrebbe trattarsi della ragazza scomparsa cinque giorni prima (l’influencer torinese Viola De Santis, studentessa e paladina del neofemminismo), forse perché indagava su un giro di prostitute; i carabinieri forestali hanno diramato l’allarme in attesa di rinforzi; grazie alla conoscenza di scorciatoie e passaggi in quel territorio paludoso forse possono battere sul tempo le autorità e i colleghi. Il corpo si è incagliato in un groviglio di alghe che lo ancorano al canneto tra Mondragone e Giugliano, i Regi Lagni, esteso intreccio di fogne a cielo aperto con sbocco sul mare. Risalgono l’argine del canale e trovano i due forestali, il vecchio amico Ruoso e un novizio piemontese, alle prese con l’emersione del corpo, loro due “civili” usano i cellulari per foto e riprese e gli altri due s’arrabbiano. Tanto più che non si tratta di Viola, bensì di una splendida nera con la pelle sottoposta a sbiancamento. Il super obeso Cigno boccheggia: pesa oltre centocinquanta chili, l’indice di massa grassa sfiora il cinquanta per cento, deborda lentamente. Vive solo, niente compagne e figli; ha alle spalle un passato di pugile e un ottimo inizio di carriera giornalistica a Milano, poi guai vari; ora scrivacchia di sport nella redazione del sud dell’autorevole quotidiano nazionale. Arrivano magistrato e forze di polizia, anche il padre di Domenico che abita in zona, tanti giornalisti. La morta indossava una felpa rossa, Cigno vede il collegamento con Viola, scrive un pezzo scoop, si scopre in prima linea.

Lo scrittore Luca Mercadante (Caserta, 1976) ha lavorato per il teatro e la scrittura creativa, pubblicato vari testi, introdotto il personaggio di Domenico Cigno in un racconto di una recente raccolta Sellerio e propone ora l’interessante denso esordio di una serie promettente, per ambientazione e protagonista. Fanno da sfondo alla storia giallo noir la città di Castelvolturno e il devastato acquitrinoso ecosistema litorale casertano: sono descritti attraverso una ricostruzione immaginaria, la geografia ufficiale viene deliberatamente tradita. Veleni chimici, convivenze tossiche, umanità meticcia, contraddizioni sociali, coraggiosi adattamenti si fondono con le dinamiche del protagonista: Cigno è sempre al centro della scena, narra in prima persona al presente tutto quel che può, una quindicina di convulsi giorni fin dopo Natale, solo con la sua esorbitanza. Viene di continuo richiamato a occuparsi del Napoli, ci sono fondate voci che l’attaccante di punta Hugo Pereira se ne voglia andare, non frequenta gli allenamenti e sembra arrabbiato per qualcosa; Cigno segue spesso quel che avviene nel centro sportivo e sa che c’è di mezzo pure la camorra; si rischia pure a far soltanto cronaca e, questa volta, lo stesso Pereira sceglie di affidare proprio a lui un incarico informativo; nuovi guai. Nonostante tanti con affetto gli consiglino di lasciar perdere (soprattutto il padre Pietro, destrorso karateka ultra70enne), riesce però ad anticipare notizie sorprendenti sull’omicidio e sulle sorti della donna scomparsa, sul traffico di prostitute e le case di accoglienza, sui narcotrafficanti e i collaboratori di giustizia; un po’ per fiuto professionale, un po’ attivando reciproche strumentalità, un po’ con esperto sprezzo del pericolo. Prima aveva sempre vorace fame (da cui il titolo), poi comincia a non poter ingurgitare nulla; decide di andare a Torino dai genitori di Viola (adottata) e di frequentare le istituzioni di Caserta; rovista e viene rovistato. Quando può ascolta Layne Staley, Chris Cornell, Ann Wilson e Mark Arm, beve di tutto (marinando il coniglio con vino bianco). Segnalo che lo sbiancamento può provocare diabete, infezioni, tumore.

 

 

Il primo libro di geografia – Mauro Varotto

Einaudi Torino – 2025

Pag. 267 euro 23

 

Terra e mondo. Da quando siamo presenti. La perdita di rilevanza scolastica della materia “geografia” non si giustifica eppur si spiega per tre ragioni che forse riguardano molti concittadini: viene considerato un bagaglio superato; viene reputata una disciplina mnemonica e noiosa; viene ipotizzata come poco specializzata e quindi inservibile professionalmente. Proviamo allora a rileggere Il Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupéry e la commozione del Geografo (in esergo): l’immaginazione e la soggettività sono essenziali nella ricerca scientifica, le geografie sono tante oltre a quella fisica e istituzionale, umanistica culturale economica politica sociale percettiva quotidiana effimera. La geografia ha da essere “relazionale”: dallo spazio oggettivo della topografia (nota tecnica ingegneristica) ci conduce alla scoperta della mobile e cangiante connettività della topologia, lo spazio è il prodotto di continui assemblaggi e lo stimolo a cogliere le infinite relazioni con ciò che ci circonda. L’ottimo “primo libro di geografia” è rivolto con un linguaggio accessibile a un’alfabetizzazione di chi la geografia non l’ha mai studiata ed è curioso di conoscere la splendida “inutilità” della materia, di chi l’ha studiata male a scuola o l’ha già dimenticata e vuole riscoprirne i termini principali, di chi si appresta a studiarla in ambito universitario senza certe dovute basi e di chi, infine, proveniente da saperi affini, può ritrovare nei concetti-chiave della disciplina una visione d’insieme utile a inquadrare le proprie competenze tecniche e scientifiche all’interno di orizzonti più ampi. Non coordinate nozionistiche né distribuzione gerarchica di fenomeni; piuttosto alcuni dei modi per pensare una città, rappresentare un confine, definire cosa è vicino e cosa è lontano.

Il professore ordinario di Geografia e di Geografia culturale all’Università di Padova Mauro Varotto (Padova, 1970) promosse già nel 2019 l’apertura del primo museo italiano di geografia (preziosa testimonianza delle attività di ricerca e didattica svolte in quell’ateneo nel campo della geografia dal 1872) e ci introduce alla disciplina attraverso venti capitoli tematici, ciascuno (una decina di pagine) anticipato da una specifica foto in bianco e nero e poi ulteriormente documentato attraverso sculture, pitture, immagini, carte, mappe, disegni (complessivamente quarantacinque). I termini-chiave della geografia (sostantivi e due soli verbi) giocano sull’ampiezza e la stratificazione, sulla complessità e le sfumature dei loro significati, antichi e moderni, con uno sguardo alle sfide del presente e del futuro: Geografia (la fatica di Atlante che sorregge il globo con la prima vertebra della colonna e con le mani, dal museo archeologico napoletano); Orientarsi; Carta e mappa; Luogo; Territorio e confini; Regione; Stato e nazione; Europa; Globo; Clima e Antropocene; Natura; Paesaggio; Città; Campagna; Cibo; Montagna; Mari e oceani; Popolazioni e migrazioni; Storia, memoria e patrimonio; Abitare. Esplicitamente non vi è pretesa di esaustività né nell’elenco né nella narrazione, si citano discorsivamente definizioni, autori di riferimento, ipotesi e quadri di teorie o problemi (le sintetiche note bibliografiche sono raccolte in fondo). Evviva la geografia relazionale! Forse si può essere stimolati ad approfondire qualche ulteriore nesso con la scienza dell’ecologia, soprattutto per la questione delle isole e delle migrazioni (pur spesso e ben trattata): la nozione di ecosistema è abbastanza decisiva per clima, biodiversità, biologia ed evoluzione. Risultano frequenti e competenti i riferimenti alle innovazioni scientifiche della cultura geografica anglosassone (forse citabile era anche la scuola francese delle Annales, storia-geografia da quasi un secolo: Bloch, Febvre e Braudel non sono citati, lateralmente una volta il più recente compianto Lucio Gambi). Completa il volume un ricco indice dei nomi e dei luoghi.

 

redaz
una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere 'uno' che fa parte a sé, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un'illusione, peraltro ingenua, di un'unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone.

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