Attiviste in Iran sugli schermi e…

… e nelle strade: incontro con Rakhshan Bani Etemad

di Marina Forti (*)

Rakhshan Bani Etemad, oggi riconosciuta come una delle figure più autorevoli e innovative della cinematografia iraniana, dice che ad attirarla nel cinema è stato «l’immenso potere delle immagini». Negli anni ’70 lavorava alla televisione di stato, spiega: «Era semplicemente un lavoro. Poi però ho cominciato a percepire con quale straordinaria forza le immagini possono indagare le vicende umane». Diplomata all’Accademia d’Arte drammatica di Tehran nel 1979, anno della rivoluzione che ha cambiato l’Iran, Bani Etemad si è dedicata prima al cinema documentario e poi alla fiction, imponendosi da subito con opere che hanno cambiato il linguaggio del cinema. Regista e sceneggiatrice, ha avuto riconoscimenti in tutto il mondo, dal festival di Cannes a quello di Locarno, a Venezia e molti altri.

L’occasione per incontrare questa gran signora del cinema è stata la rassegna ospitata di recente dal Maxxi di Roma per iniziativa di Asiatica, il festival di cinema dall’Asia. In una sorta di anticipazione (il festival si terrà in ottobre), al Maxxi sono arrivate le copie restaurate di due film ormai considerati dei classici: Nargès, con cui nel 1991 Bani Etemad ha vinto il premio Fajr alla regia (era la prima donna a ricevere il massimo riconoscimento per il conema in Iran), e Sotto la pelle della città (“Zir-e poosht-e shahr”, 2001), oltre a May lady (“Banoo-Ye Ordibehesht”, 1998) e alla sua ultima fiction, Storie (Ghasse-ha”, 2014, premio per la sceneggiatura al Festival di Venezia), che in qualche modo riprende i film precedenti.

Anche a distanza di anni la forza di questi film è indiscutibile. Nargès ad esempio mostra un amore che culmina in tragedia. È una storia dei bassifondi, dove un giovane rapinatore di professione lavora con una complice più anziana che è anche la sua compagna; ma quando incontra una bellissima giovane (Nargès) fa in modo di sposarla e tenta (invano) di cambiare vita. A rendere dirompente il film è la figura della complice-amante, Afagh, che si vede abbandonare per l’altra: «Quando ho girato Nargès non si era mai vista sugli schermi una figura femminile così, una donna con trascorsi criminali che però mostro in tutta la sua umanità», commenta la regista. «Storie di crimine erano già comparse nel cinema, ma la differenza sta nel mio sguardo, la mia solidarietà verso i personaggi: ho voluto guardare alla complessità umana, non dare giudizi».

Troviamo la stessa capacità di guardare senza moralismi in Sotto la pelle della città. Qui vediamo uno spaccato di proletariato urbano: la protagonista è di nuovo una donna forte, Touba, operaia sfiancata dal lavoro, con un marito invalido e un figlio che sogna di emigrare in Giappone – invece finirà a fare il galoppino per un trafficante di stupefacenti, mettendosi nei guai. Sullo sfondo vediamo un palazzinaro senza scrupoli, una giovane donna che non osa ribellarsi alle botte del marito, una ragazza che fugge di casa per sottrarsi alla violenza del fratello maggiore che pretende di controllarla. «In fondo, tutti questi personaggi sono vittime della società», dice Rakhshan Bani Etemad. Ma non c’è alcuna rassegnazione in quei personaggi, al contrario. Emblematica la scena in cui la figlia adolescente di Touba molla un ceffone al fratello violento dell’amica scappata di casa: «Non riuscivo a immaginare il dialogo tra un esponente di quella mentalità tradizionale e una ragazza della nuova generazione: non c’era comunicazione possibile tra loro. Ho pensato che ci volesse un gesto forte, di rottura: così è arrivato lo schiaffo. Lui resta interdetto, non se lo aspettava», spiega Bani Etemad. Neanche il pubblico se lo aspettava: «Spesso, nelle sale, le donne applaudivano».

Chiedo: oggi farebbe ancora scalpore quello schiaffo? come ha visto cambiare la vita delle donne nella società iraniana? «Il cambiamento più significativo è che oggi le donne parlano in modo molto più aperto e deciso dei loro problemi, di ciò che pensano e che vogliono», risponde Bani Etemad. «Una volta avevano davanti dei tabù infrangibili. Per le donne di certi strati sociali essere picchiate, o peggio violentate, era un’esperienza comune di cui però non si poteva parlare. Oggi se ne parla eccome, una donna non considera più ineluttabile la violenza di un uomo».

Del resto, negli ultimi vent’anni l’Iran ha visto crescere agguerriti movimenti di donne, di cui Rakhshan Bani Ettemad è parte e interprete. Si potrebbe citare il documentario We are half of the Iranian population, girato durante la campagna per le presidenziali del 2009. Il film segue gruppi di attiviste che chiedono ai candidati di pronunciarsi sui diritti sociali, il lavoro e la libertà delle donne (tutti avevano accettato di rispondere davanti alla telecamera salvo Mahmoud Ahmadi Nejad, poi rieletto per un secondo, contestato mandato). «Il ruolo dei movimenti delle donne in quelle elezioni è stato molto importante», osserva Bani Ettemad. Negli anni precedenti si era sviluppata una campagna per i diritti civili contro le leggi che discriminano le donne, ad esempio nel diritto di famiglia, e «in quel movimento erano presenti donne di diverse estrazioni, religiose e non. Questo ha permesso al movimento di mettere sul tavolo le proprie rivendicazioni in modo molto forte». Come sappiamo, il voto del giugno 2009 fu seguito da un’ondata di proteste senza precedenti, represse con forza. «Così durante il secondo mandato del presidente Ahmadi Nejad molte attiviste sono state arrestate, e altre hanno deciso di lasciare l’Iran. Il movimento si è disperso. Ma anche se da allora non si è ripetuta un’esperienza organizzata di quel livello, la battaglia delle donne continua in forme diverse».

Quanto a lei, negli anni bui di Ahmadi Nejad aveva deciso di non fare più cinema: «Lo sguardo critico era pesantemente scoraggiato, e io non volevo sottopormi alla trafila per ottenere i permessi delle autorità», spiega Rakhshan Bani Etemad. «Però mi mancava un cinema che indagasse sulla società, mi mancavano i miei personaggi. Allora ho provato a immaginare dove fossero andati a finire. Ho girato diversi film brevi, con gli stessi attori e stessi personaggi di alcuni miei vecchi film: sono andata a vedere come erano diventati, cosa fanno ora. Ho scritto le sceneggiature in modo che fossero correlate, i brevi film creavano una nuova storia». Così è nato Storie (“Ghasse-ha”). «Girare dei film non è vietato, dunque non avevo fatto nulla di illegale; è per distribuire che bisogna ottenere il permesso. Ma sapevo che non un mio film non sarebbe stato autorizzato, e ho deciso di non presentarlo. Il ministero della cultura sapeva che stavo facendo qualcosa, ma finché non chiedevo di distribuirlo non potevano dirmi nulla: e questo li faceva imbestialire».

Così il film è rimasto a lungo nel cassetto: «Non volevo distribuirlo all’estero prima che fosse autorizzato in Iran», spiega la regista. L’imprimatur è arrivato con l’amministrazione del moderato presidente Hassan Rohani, e nel febbraio 2014 Storie è stato presentato al Fajr, il più importante festival di cinema dell’Iran. Ma le difficoltà non erano finite, «ci sono voluti ancora quasi due anni perché il film arrivasse nelle sale», spiega la regista. Perché? «Per le pressioni da certi gruppi».

La vicenda di Storie illustra bene i paradossi di un paese dove la cultura è il principale terreno di attacco delle correnti più oltranziste del sistema politico. «Il governo oggi è più aperto, ma le pressioni possono venire da altri poteri e gruppi di pressione informali, che alla fine influenzano anche le scelte del ministero», spiega Bani Etemad. Chi sono? Gruppi di deputati conservatori, giornali legati a correnti ultraconservatrici: nel caso di Tales l’attacco era partito da un giornale legato alle Guardie della rivoluzione, che l’aveva definito un film “sedizioso”. Allora i distributori si erano tirati indietro.

«Il problema sono le regole non scritte. Un film può rispettare certe norme formali, ad esempio che un uomo e una donna non devono mai neanche prendersi per mano, ma anche così può proporre uno sguardo sul mondo che non piace ai censori». Lo sguardo critico di Bani Etemad non è gradito ai guardiani dell’ortodossia, questo è chiaro. «Ma anche quando c’è l’autorizzazione, tutto dipende dall’atmosfera politica del momento. È così anche per i libri, la musica, il teatro: può succedere che un concerto viene autorizzato a Tehran ma viene sospeso nella conservatrice città di Mashhad perché qualche influente gruppo religioso ha fatto obiezioni. Non sappiamo mai con chi abbiamo a che fare». Il cinema riflette le incertezze dell’Iran. Anche per questo gli artisti cercano vie alternative per diffondere e finanziare le proprie opere.

Rakhshan Bani Ettemad però si dice ottimista: nel cinema iraniano vede crescere «giovani talenti che hanno molte cose da dire. E riusciranno a dirle, perché alla fine nessun film resta nel cassetto».

(*) ripreso da www.alfabeta2.it

 

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