Autori vari, Camilleri, Erpenbeck, un doppio Pennac ma anche Giorgio Nebbia e i suoi amici

6 recensioni di Valerio Calzolaio

giorgionebbia

Jenny Erpenbeck

«Voci del verbo andare»

traduzione di Ada Vigliani

Sellerio

350 pagine, 16 euro

traduzione di Ada Vigliani

Berlino. 2014. Richard è un filologo classico appena andato in pensione, vedovo e senza figli: che fare? Per caso incontra un gruppo di donne e uomini, esuli africani in un campo profughi. Vengono dal Ghana, dal Ciad, dalla Nigeria, erano sbarcati l’anno prima nell’isola siciliana di Lampedusa, dopo molte peripezie. Comincia ad ascoltare, gli sovvengono Omero ed Esiodo, Seneca e Tacito, Ovidio e l’esploratore marocchino del Trecento Ibn Battuta, Shakespeare e Goethe, capisce che chi parla è costretto a una doppia assenza e non ha certo finito di soffrire. Con «Voci del verbo andare» la brava scrittrice Jenny Erpenbeck (Berlino est, 1967) ci consegna un reportage letterario sul misconosciuto diritto di restare e sulla scarsa libertà di migrare, una doppia presenza fra noi.

 

Andrea Camilleri

«La cappella di famiglia e altre storie di Vigàta»

Sellerio

322 pagine, 14 euro

Vigàta. 1862-1950. Chiariamolo, Vigàta si legge ma non si visita. È una città immaginaria siciliana, ispirata a Porto Empedocle (per il solo nome anche alla vicina Licata) nell’altrettanto immaginaria provincia di Montelusa (Agrigento), in cui sono ambientate le indagini del commissario Salvo Montalbano e altri romanzi o racconti storici di Andrea Camilleri, che in quel territorio nacque e si istruì. Gli otto deliziosi racconti raccolti in «La cappella di famiglia e altre storie di Vigàta» sono stati scritti negli ultimi quindici anni, un paio già pubblicati in allegato alla rivista «Stilos» nel 2010, con il solito linguaggio inventato e mutevole e frequenti richiami a Pirandello (nelle cui novelle Agrigento talora diventava Montelusa). Il non uso dei toponimi reali ha varie motivazioni, una riguarda i crimini: Porto Empedocle ha diciottomila abitanti e «non può sostenere un numero eccessivo di delitti, manco fosse Chicago ai tempi del proibizionismo». Eventi strani tanti, però!

 

Giorgio Nebbia e i suoi amici

«Per Giorgio Nebbia. Ecologia e giustizia sociale»

Fondazione Luigi Micheletti

146 pagine

Richiedere a micheletti@fondazionemicheletti.it

Bologna, Bari, Roma. 1926-2016. Giorgio Nebbia ha compiuto 90 anni il 23 aprile 1926. Laureatosi in chimica nel 1949, fu assistente di Walter Ciusa all’Università di Bologna fino al 1959, anno in cui divenne professore ordinario di merceologia presso la facoltà di Economia dell’università di Bari, incarico mantenuto fino al 1995; è ora professore emerito. Da decenni vive a Roma, è stato deputato dal 1983 al 1987 e senatore dal 1987 al 1992. L’archivio Giorgio e Gabriella Nebbia è ospitato presso il centro di storia dell’Ambiente della fondazione bresciana Luigi Micheletti, che ha riunito a Roma il 10 maggio amici e colleghi ecologisti. Il volume «Per Giorgio Nebbia. Ecologia e giustizia sociale» raccoglie quanto quel giorno dissero Giorgio e 32 di noi, suoi “allievi” a vario titolo.

 

Daniel Pennac

«La lunga notte del dottor Galvan»

traduzione di Yasmina Melaouah

Feltrinelli

Parigi, pronto soccorso della clinica universitaria (CHU) Postel-Couperin. Un tale incontra un misterioso grande scrittore e subito gli racconta quanto accaduto venti anni prima. Il giovane dottor Gérard Galvan stava trascorrendo il giorno (dalle 9) e la notte (di luna piena) come guardia medica tirocinante. La medicina era la più diffusa malattia ereditaria della sua famiglia, tutti medici sin dai tempi di Molière. Medico per tradizione dunque, oltretutto fidanzato con Françoise (figlia di un medico, vedi tu), avevano ossessivamente in gestazione il primo futuro biglietto da visita (ben curato graficamente), come docente e primario di medicina interna, esperto in punture lombari. Il corridoio era sempre pieno, continue le verifiche, ogni malato uno scalino. Verso le 2 dopo mezzanotte, non sentendosi tanto bene, ancor peggio in seguito alla lunga attesa, un signore (rimasto quasi solo) crollò a terra. Durante l’ora successiva venne portato in vari reparti, affermati specialisti (chirurgia addominale, urologia, pneumotisiologia, cardiologia) riscontrarono segni e sintomi di svariate patologie, talune mortifere: occlusione intestinale, attacco di malaria, eruzioni cutanee, globo vescicolare, angina pectoris. Alla fine l’anziano paziente andò in coma. Galvan decise di assisterlo per il resto della notte, ormai era diventato un caso clinico di studio multidisciplinare; quando successe pure a lui di addormentarsi, il paziente scomparve. E lo stesso Galvan finì per cambiare mestiere, è lui a raccontarlo ora, venti anni dopo, in flash back, il finale è noir.

A un certo punto della sua eccelsa carriera letteraria, il grande Daniel Pennac (Casablanca, Marocco, 1944) riadattò o contribuì a riadattare per il teatro vari testi o racconti, realizzando pregevoli opere in Francia e in Italia, perlopiù brevi monologhi teatrali come questo, che andò in scena per l’ottimo Teatro genovese dell’Archivolto a partire dal novembre 2005, efficace protagonista Neri Marcorè. Regista e attore inserirono nel testo originale tre farseschi incisi tratti da commedie molieriane (uno da «Il malato immaginario», due da «La gelosia del Barbouillé»). Esilarante! Da mettere nelle affollate sale di dolorante attesa notturna di ogni pronto soccorso, per sorridere di sé e del nostro superficiale rapporto con la medicina, e pure per prepararsi al peggio! Come veterani degli ospedali siamo tutti camaleonti; ancor più quando (di continuo) pretendiamo tranquillamente di curare noi stessi, enfatici fantasiosi indulgenti, straordinariamente concentrati, concretamente inverosimili. È un piccolo delizioso volume, come ovvio in prima persona, tredici capitoletti (ancora una volta la traduzione è eccelsa) integrati dai concisi testi del regista e delle citazioni di Moliére. Sono a confronto il malato dei malati e il dottore dei dottori, per generare dubbi, con affettuosa ironia, sui soliti abitudinari incidenti domestici, suicidi abortiti, aborti mancati, bambini bollenti come pentole, automobilisti in polpette, spacciatori fatti a colabrodo, adolescenti fumati o catatonici.

 

Daniel Pennac

«L’avventura teatrale. Le mie italiane»

traduzione di Yasmina Melaouah

Feltrinelli

In teatro. Inverno 2003 – autunno 2006. Oltre un decennio fa Daniel Pennac scrisse un’opera teatrale poi pubblicata in Francia e successivamente in Italia. Era il monologo (dedicato a Stefano Benni) di un premiato, un qualsiasi scrittore, compositore, scultore, pittore, attore, regista (o qualunque altra cosa) costretto al ringraziamento pubblico, dopo che gli sono stati consegnati un riconoscimento o un trofeo per l’insieme dell’opera. Il testo fu subito declamato, si pose il problema del suo adattamento in teatro. Per primo fu letto da Benni all’Archivolto di Genova nell’ottobre 2004. Dal luglio 2005 (anteprima a Milano in libreria) fu recitato da Claudio Bisio in giro per l’Italia. Dal settembre 2005 all’aprile 2006 fu recitato dallo stesso Pennac al Teatre du Rond-Point degli Champs Elysees a Parigi e poi, anche altrove, in Francia. Al termine della lunga serie di rappresentazioni uscì un volume del Folio Gallimard con il testo originale, il testo adattato da Pennac e, in mezzo, stupenda, la cronaca di cosa gli era capitato in teatro. A fine 2007 Feltrinelli ha fatto una pregevole congrua edizione italiana. I 21 deliziosi paragrafi parlano della creatività e del suo pubblico: dalla scrittura letteraria alla “traduzione” teatrale, dalla pagina stampata alla retorica memorizzata, dal personaggio finto all’attore incarnato, dagli automatismi all’improvvisazione, dagli errori di scena alle concatenazioni fonetiche, dalla noia alla nostalgia, dall’entusiasmo al panico. Come sempre, c’è senso del limite e pensiero ironico; la realtà ha multipli e mutevoli punti di vista.

Daniel Pennac, nato Pennacchioni (Casablanca, 1944), è un magnifico scrittore “ogni genere”. Gialli e neri, racconti per ragazzi, saghe, monologhi, diari, testi autobiografici (soprattutto su quando era “somaro” a scuola e sul successivo decennale insegnamento), pièce, conversazioni, fumetti, di tutto e di più per far divertire e riflettere. Va ringraziato. Nel gergo teatrale sono “italiane” le prove in piedi, senza costumi e movimenti di scena, le letture ad alta voce; così «Le mie italiane» costituisce sia il sottotitolo del libro che il titolo della parte cronachistica; si riferisce alle sperimentazioni dell’attore finalizzate a imparare il testo, spesso ambientate nelle vie di Parigi, accompagnato dal copione stampato continuamente appuntato. Sono note le tante variazioni intorno alla parola “grazie”; fra l’altro qualcuno di noi la usa troppo, sia come gratitudine fasulla sia come ringraziamento vero. Qui la parte cronachistica, “non” teatrale, narra in prima persona la personale avventura sulle scene. La lettura può risultare particolarmente utile a chi, di qualsiasi età e per qualsiasi ragione, debba frequentemente esprimersi in pubblico, davanti ad altri, nei luoghi e nei tempi della politica soprattutto. Ne avrà godimento e forse qualche giovamento, più capace di adattare buone strategie, al microfono o dalla platea, attivo o passivo, per trasformare il dolore in conoscenza ed evitare di trasformare i consumi in bisogni. Segnalo l’analisi qualitativa o “il diario” del pubblico, le tipologie delle risate e dei silenzi. Come sempre, non ci sono cibi e musiche; gusto e orecchio vengono appagati altrimenti.

 

Autori vari

«Ma il mondo, non era di tutti?»

Marcos y Marcos

160 pagine, 10 euro

I confini del e nel pianeta. I secoli contemporanei. Otto autori italiani di differente ambito o genere (saggi, romanzi, poesie, fumetti e così via) si cimentano sui confini in un interessante volume curato (anche con breve prefazione) da Paolo Nori, in collaborazione con l’Arci, «Ma il mondo, non era di tutti?». Sono Violetta Bellocchio, Emmanuela Carbé, Francesca Genti, Carlo Lucarelli, Monica Massari, Giuseppe Palumbo, Antonio Pascale, Gipi. Massari riassume una decennale raccolta di storie di donne e uomini migranti attraverso il mar Mediterraneo: bisogna ascoltare i linguaggi dell’inquietudine con attenzione ed empatia, e parallelamente dotarsi di una griglia critica di precisi riferimenti bibliografici. Pascale con garbo e ironia fa la propria autobiografia del mondo, Lucarelli traccia una riga italiana fra Eritrea ed Etiopia.

Redazione
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