Balzac, Baroncelli, Blom, Mazzarese, Sartini, Verde e Weigl

7 recensioni di Valerio Calzolaio

 

Eugenio Baroncelli

«Libro di furti. 301 vite rubate alla mia»

Sellerio

294 pagine, 14 euro

Esistenze. Ovunque. Nel “Libro di furti” il ravennate Eugenio Dedi Baroncelli (1944) gioca ancora splendidamente con le parole, con singole storie (più o meno famose) e con sé stesso. In esergo, due frasi su pagine diverse: “Al vento, non importa quale, che manda all’aria gli scialli delle donne e le parole per dirlo”; “Penso: La mano con cui scrivo mi deruba del pensiero”. Rendono l’idea. Quando Eugenio va a dormire, Baroncelli rammenda vite incomplete, poche frasi ciascuna, raggruppate in ordine alfabetico per voci (poche tornano in più d’una): Alienati e alieni (Poe, per esempio), Bestiario (Proust), Carta bianca (Foucault), Carta cantava (i Sellerio, Marx), Come le foglie (Joyce), Giro di morte (Lolita), Montaliana, Questi fantasmi (Seneca), Racconto delle due città (Ravenna e Rimini), Remake, Ritratti di famiglia (due dei suoi morti preferiti), Russe e russi, Secondo furto (Darwin), Vestirsi, Stanze, Le vite parallele (Gadda & Kafka). Un gioco di maestria curioso e divertente.

 

AA. VV.

«Ricucire il mondo. La necessaria sinergia fra diritti fondamentali e beni comuni»

a cura di Tecla Mazzarese; in appendice un saggio di Stefano Rodotà

Brixia University Press

146 pagine, 15 euro

Mondo umano e non umano. Prima e dopo di noi. Il volume “Ricucire il mondo” raccoglie alcuni testi di un ciclo di incontri per gli studenti bresciani del corso di Filosofia del diritto, pensati prima della pandemia da Covid-19 e svoltisi nel 2020 durante l’emergenza sanitaria, a distanza. Gli autori sono docenti universitari di varie discipline: Ulderico Pomarici, Antonello Ciervo, Roberto Cammarata, Maurizio Tira e la curatrice, sia del libro che del corso, Tecla Mazzarese. L’obiettivo è mostrare la drammatica urgenza di individuare, e soprattutto mettere prontamente in atto, misure per garantire, nella loro complementarietà, un’effettiva tutela di diritti fondamentali e beni comuni, nella consapevolezza sia degli effetti nefasti che l’alterazione dell’ambiente produce per la salute umana sia della collocazione dei medicinali (e dei vaccini) fra i beni comuni di generale gratuito accesso, riprendendo le ricerche e il magistero del grande giurista Stefano Rodotà (1933-2017).

 

Bruce Weigl

«Rumore»

traduzione e cura di Giulio Segato; introduzione di Raffaella Baritono (orig. 1980-2019)

Ventura editore

152 pagine, 13 euro

Stati Uniti. 1965-1975. Da sempre vi sono potenze che influenzano aree lontane. Da secoli alcune condizionano con armi e commerci ecosistemi distanti dalla propria comunità, colonie, Stati indipendenti. Per l’identità e l’immaginario degli USA la relazione con il Vietnam è cruciale, in particolare dopo che Johnson decise nel 1965 di inviare unità combattenti fino al ritiro nel 1973 (e alla caduta di Saigon nel 1975). Molta letteratura americana dell’ultimo cinquantennio vi ha fatto riferimento. E tanti poeti. Bruce Weigl (Lorain, Ohio, 1949) si arruolò volontario per avere risorse per laurearsi. Rimase in Vietnam un anno, poi fu uno dei pochi reduci a iniziare una carriera poetica, intensa e poco nota da noi. “Rumore”, uno splendido componimento, dà il titolo a una bella raccolta, selezionata da Weigl e pensata dal giovane anglista Giulio Segato che racconta l’autore nella postfazione, mentre la premessa dell’esperta Baritono aggiorna storia e geopolitica di quella “ferita aperta”.

 

Philipp Blom

«Il gran teatro del mondo. Sul potere dell’immaginazione nell’epoca del caos»

traduzione di Francesco Peri

Marsilio

140 pagine, 16 euro

Festival di Salisburgo. 1920-2020. Il Festival di Salisburgo (Salzburger Festspiele) è uno dei più importanti festival musicali mondiali, musica classica e opera lirica nella città di Mozart. Fu fondato nel 1877 ed ebbe vita altalenante per decenni, finché venne ufficialmente “rifondato” il 22 agosto 1920 con una rappresentazione di Hugo von Hofmannsthal, su un palco all’aperto, sito nella piazza del Duomo, rappresentazione divenuta poi una tradizione, ripetuta tutti gli anni sempre nello stesso posto. La stagione del festival è l’estate, per cinque settimane da fine luglio all’intero agosto: opere liriche, concerti sinfonici, recital, lavori teatrali, rassegne e altri generi di spettacolo. Per il 2020, in piena pandemia, presidentessa e direttore artistico hanno chiesto allo studioso tedesco Philipp Blom di scrivere un saggio riferito al centenario, lasciandogli carta bianca sulla scelta dei temi. Blom ha deciso di parlare delle grandi narrazioni collettive nelle fasi di gravi rivolgimenti storici. Un secolo fa i padri fondatori del festival, in anni d’incertezze geopolitiche, lo impostarono come “progetto di pace” (il drammaturgo Hofmannsthal) e “cibo per i bisognosi” (il regista Max Reinhardt): il teatro come strumento per inventare immagini nuove, dischiudere spazi sperimentali, creare concetti e sentimenti comuni di una futura condivisa realtà esistenziale per far fronte a crisi globali. Così si tentò allora dopo la prima guerra mondiale, così servirebbe oggi per narrare il bivio fra la possibile catastrofe climatica e la possibile catarsi della sopravvivenza umana sulla Terra. Non c’è dubbio: sempre più la specie sapiens “ha imparato a sopravvalutarsi, a prendersi dannatamente sul serio in un mondo nel quale contava poco o nulla… in chiave narcisistica…: l’essere umano è un organismo che comunica con i propri simili per mezzo di un grande teatro, il teatro del mondo” (da cui il titolo adottato dall’autore).

Il multidisciplinare giornalista e storico Philipp Blom (Amburgo, 1970) realizza un efficace colto affresco del narrare l’ignoto durante le svolte degli ecosistemi antropici negli ultimi secoli. Il volume è distinto in un prologo e cinque parti, inframezzate da cinque brevissime “ferite narcisistiche” che hanno ritardato le acquisizioni di grandi scienziati fisici e sociali (Galileo, Darwin, Freud, Hubble, Latour). Ogni parte ha due o tre capitoli che prendono spunto da un autore o da un libro o da un movimento o da una consapevolezza prioritaria per ripercorrere alcune crisi anche narrative del passato e ricavarne spunti: Calderón, il saggio dell’autore stesso sulla Piccola Era Glaciale (intorno alla metà del XVI secolo), Shakespeare, l’Illuminismo, la pompa a vapore, i combustibili fossili, i cambiamenti climatici antropici globali, Arendt, Bauman, Flusser, Gay, Polanyi, Rorty, Lévi-Strauss, Scott, Sennett, de Waal (autori poi citati nella bibliografia di approfondimento); sempre rimarcando come i nuovi pensieri abbiano preso piede tra la gente comune e l’opinione pubblica attraverso scrittori, e artisti, romanzi e teatro, dibattiti e articoli. Cita a proposito anche Gramsci: “La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere. In questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”. In esergo delle parti e dell’intero testo vi sono frasi di intellettuali d’età contemporanea e alcune lamentazioni dell’Antico Egitto. Se non vi è mai stata prima una vera età del (nostro) benessere condiviso, allora “manchiamo dei riflessi e del patrimonio di esperienze necessari per gestire una situazione di abbondanza protratta nel tempo”, nella quale la catastrofe climatica sta conducendo il pianeta a superare limiti biofisici. Il palcoscenico del dibattito sociale ha allora bisogno di nuovi copioni e di nuovi personaggi (come Greta), di trovare nuove immagini all’altezza della sfida: ecco il “progetto di pace” del presente. Tutto il resto ne consegue, anche a teatro, luogo di autoesame, di reinvenzione di sé.

 

Nicola Verde

«Mastro Titta e l’accusa del sangue»

Frilli editore

304 pagine per 14,90 euro

Roma. 1869 e 1859. A gennaio 1869 il giornalista scrittore Ernesto Mezzabotta torna a trovare il 90enne Giambattista Bugatti, detto “Mastro Titta”, bevono insieme un rosso dei Castelli. La precedente visita gli aveva garantito l’uscita di un bel fascicolo di memorie e il libro aveva avuto notevole successo, Perini editore. Bugatti era stato il boia al servizio dei papa per quasi settant’anni, ha decapitato oltre cinquecento condannati; ormai da cinque lo hanno messo a riposo, in pensione con un vitalizio mensile di 30 scudi; vive sopra la bottega dove faceva pure l’artigiano, l’ombrellaio, ora sprangata. Sa di avere i giorni contati, i soldi che riceverà potrebbero servire per un buon funerale, accetta di raccontare altro, continua a percorrere a ritroso alcuni casi particolari nei quali si è imbattuto. Il primo “caso” si era svolto fra il 1861 e il 1864. La seconda “faccenda” ripercorre vari mesi dopo la primavera 1859 con un prologo a Bologna nel giugno 1858, la famosa vicenda Mortara: Edgardo, un bambino ebreo malato, battezzato all’insaputa dei genitori per evitare il “limbo”, fu prelevato dai gendarmi e sottratto alla famiglia perché fosse allevato secondo i dettami della religione cristiana, sulla base del “favor fidei” prevalente su ogni altro diritto (compresa la potestà genitoriale), assegnando priorità alla salvezza dell’anima. Mesi dopo un caso analogo potrebbe essere avvenuto a Roma: scompare Charles Reynard, un neonato ebreo di poche settimane, non più di un paio di mesi, portato via da Amelia Corvaro, giovane fantesca di un ufficiale francese, il padre del frugoletto, che presta servizio nella caserma Serritori, dove alloggia insieme alla moglie. La donna ha pochi baiocchi, cerca in bottega Amilcare Laudadio, l’amico ispettore di Mastro Titta, si dirige verso il porto, vorrebbe aiuto e denaro per fuggire, ma incappa in varie drammatiche disavventure: molti gli inganni, i crimini, le sopraffazioni e i morti.

Il bravo scrittore romano Nicola Verde (Succivo, Caserta, 1951) prosegue la serie di accurati gialli storici dedicata al vero fervente papalino Giovanni Battista Bugatti (Senigallia, 6 marzo 1779–Roma, 18 giugno 1869). Il caso Mortara è storia (e forse presto un film), l’ “Affaire Reynard” non c’è mai stato, ma è la riuscita occasione per raccontare innanzitutto lo scontro religioso legato ai battesimi forzati e la calunniosa “accusa del sangue” agli ebrei di uccidere e mangiare i bambini cristiani secondo il presunto uso ashkenazita (da cui il titolo); poi il discutibile papato di Pio IX e i torbidi intrighi di “corte”, la costituenda alleanza franco-piemontese contro l’Austria alla vigilia dell’Unità d’Italia, la Roma ottocentesca puzzolente e seducente. La narrazione è per intero in terza varia al passato, un po’ su tutti i personaggi, pur se saldo è il legame fra i tre amici, investigatori per ragioni private: Mastro Titta, il giovane Amilcare (che aveva avuto una storia d’amore con Amelia) e il poeta e tornitore 87enne Giuseppe Marocco d’Imola, innocuo simpatizzante dell’Italia unita. La bibliografia finale, pur dichiaratamente essenziale, mostra l’attento lavoro effettuato per inserire soggetto e schemi della fiction all’interno di un contesto storico realistico. Alla locanda del giudìo, fuori dalla recinzione del Ghetto (fra segregazioni e autorizzazioni) si mangiano ovviamente ottimi carciofi fritti e baccalà, come pure l’amatriciana e i maccheroni (alla milanese). Il ragazzino che vende giornali, più o meno leciti, canticchia un’aria da Un ballo in maschera di Verdi.

 

Honoré de Balzac

«Massime e pensieri di Napoleone»

Sellerio (prima edizione 2006; originale 1838)

traduzione, introduzione (del 2001) e cura di Carlo Carlino

164 pagine, 12 euro

Francia napoleonica. 1769-1821. La raccolta di “Massime e pensieri di Napoleone” uscì nel 1838 con 525 brevi frasi intestate prima al generale poi all’imperatore Napoleone Bonaparte, in realtà non sue: alcune di errata attribuzione, altre di dubbia autenticità, altre certamente di un autore che peraltro non aveva firmato il volume. Solo molti decenni dopo venne ricostruito scientificamente che l’opera era stata realizzata dal grande Honoré de Balzac (1799-1850), in costante bisogno di denaro, venduta a un commerciante di maglieria probabilmente per soli quattromila franchi. Certo, lo zibaldone non è casuale e fu meditato: prende spunto dalla corrispondenza, da proclami e discorsi, dal Mémorial, come una sorta di autobiografia indiretta, e realizzano un interessante mistificatorio ritratto dell’uomo che Balzac voleva immortale, oggetto di ammirazione e di culto, nei suoi caratteri mitici: crudo pragmatismo, cinismo, maschilismo perentorio, determinazione paternalistica, cesarismo.

 

Ilva Sartini

«Pensieri partecipi»

prefazione di Bruno Mohorovich

Bertoni editore

84 pagine, 14 euro

Marche. Nel tempo. La filosofa e sindacalista Ilva Sartini (Pennabilli, Pesaro) da alcuni anni ha intrapreso un’interessante carriera letteraria, prima nel 2016 con un bel romanzo su una tragica vicenda familiare, ora nel 2021 con la pubblicazione di questa raccolta poetica di narrazioni condivise. Si tratta di una quarantacinquina di componimenti più o meno brevi, distinti in cinque parti, le prime due dedicate al territorio meridionale della regione e ai lavoratori stranieri: Paesaggi (6), Emozionario del Piceno (5), Pensieri partecipi (6, “a mia figlia e al suo bambino”), Vita (18 il più corposo e vario, ovviamente), Vite infrante (5, anche di animali e fiori), Ritorni (4). L’autrice mostra un accorto linguaggio realistico e concreto, condividendo un percorso ricco di emozioni ed empatia, non solo quando trasmette i palpiti dell’essere una madre e una nonna: “Ti ho vista fragile neonata/ …/ Sei tornata madre,/ sei tornata più figlia./ Ora posso/ far pace col tempo.”

 

Redazione
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