Bar degli invasori


BAR DEGLI INVASORI
di Mauro Antonio Miglieruolo

– Sono un Robot di IV Classe, – affermò. – In Missione Speciale di Ricerca Planetaria.
– Fottiti, – risposi con fare scostante.
Meglio che cercasse qualcun altro da importunare.
– Ma è vero! non sto scherzando!
– Neppure io.
Non sembrava un robot, né di prima, né di seconda, terza o quarta classe che fosse. Non un robot almeno come li immaginavo io, latta, rotelle, luci rutilanti e movimenti da burattino; e neppure un Invasore di quelli canonici,

aspetto ributtante, verde limaccioso, con tentacoli, chele o simili. Pareva piuttosto un uomo uscito male, una specie di mongoloide dalla lingua sciolta, o uno un po’ matto, stravolto da trattamenti prolungati a base di psicofarmaci ed elettroshock, e appena dimesso da una clinica per malattie nervose. Qualunque cosa fosse mi rassegnai a credergli. Era palese, non intendeva mollare l’osso, mentre una stazza formidabile sconsigliava qualsiasi più ferma reazione. D’altronde metà delle persone che conosco, pur non ammettendolo, sono dei robot, e non mi dispiaccio, mai pentito davvero! della loro compagnia. Bevono, dicono scemenze, si annoiano mortalmente senza battere ciglio: le migliori persone di questo mondo!
– Ho un importante compito da svolgere, e non so da dove cominciare, – aggiunse. Pareva proprio preoccupato. – Tu che sei pratico del posto, saresti disposto a darmi una mano?
Gli offrii da bere. Bevve. Come un ubriacone impenitente, non come robot.
– Non te la prendere. Abbiamo tutti quanti un compito da svolgere e non sappiamo come fare. Ma poi in qualche modo facciamo. Ci si cava sempre d’impaccio quando la pancia inizia a brontolare.
– Devo scegliere un umano tipo, – continuò asciugandosi la bocca col dorso della mano, – e riuscire a indurlo a salire volontariamente sull’Arca dello Spazio.
– Come? – feci.
– E’ la legge galattica. Non sono ammessi reclutamenti forzati.
Doveva proprio trattarsi di un matto. Solo i matti sono capaci di adoperare tanta naturalezza nel pronunciare cacchiate!
– Vedi, il Khan di Sirio sta circumnavigando la Via Lattea alla ricerca di specie intelligenti. Le colleziona. La sua è la più vasta collezione esistente tra qui e Andromeda.
Un po’ per curiosità, un po’ per il desiderio di ascoltarne una nuova, decisi di dargli spago. Ignoravo che dopo appena poche battute mi sarei trovato coinvolto irrimediabilmente!
– Il Khan di Sirio? E chi lo conosce?
– Naturale che tu non lo conosca. Sei di un pianeta barbaro, escluso dalla Comunità Galattica! A tua edificazione ti dirò comunque che il Khan di Sirio è il Signore Supremo di mille Costellazioni. Possiede il più vasto Impero Privato del nostro Settore di Universo. E’ ricchissimo è potente. E’ un vero peccato che tu non lo conosca.
– Ah, sì? Deve trattarsi di un soggetto parecchio interessante, allora!
– Sì, proprio un bel tipo! – rispose ghignando. – Ti piacerebbe. Ha due tette così.
Fece segno come aveva le tette il Khan di Sirio. Notevoli.
– Allora deve trattarsi di un tipo stupendo. Si può conoscere questo Khan?
– Non si può. Salvo che non si entri a far parte della Collezione.
– Collezione? Non è che questo Khan sta solo cercando tipi in gamba con cui accoppiarsi?
– Esatto. E’ proprio questa l’idea. Trovare quanti più soggetti possibili per poi, completata la raccolta, selezionare tra loro l’appartenente alla razza più intelligente e attribuirgli il rango di Coniuge Perpetuo. Mio compito è appunto proporre un possibile candidato della Terra.
Gran porca questa Khan di Sirio, pensai. Beata lei! Un Harem per divertirsi e, completato il carico, un marito per riprodursi! Cosa poteva esserci di meglio?
– Accidenti! – esclamai. – Proprio quello che fa per me. Un bel tipo con cui trascorrere le notti e nel contempo mettere su famiglia. Famiglia ricca, intendo. Eccomi qui, comunque, consolati, sono io l’individuo che cerchi. Il più tipico del pianeta!
Mi fissò scettico.
– Dite tutti così. Tutti, in qualsiasi luogo o condizione, si sentono tipici. Tutti.
– IO non mi ci sento: lo sono. Accidenti, se lo sono! Posso dimostrartelo.
Mi rivolsi al barista.
– Ehi! Diglielo tu, a questo, questo di IV Classe, tu che mi conosci, chi sono io!
– Il più stronzo tra i miei avventori. Il più casinista. E il più restio a saldare i conti!
Sempre gretti materialisti questi esercenti. Non si smentiscono mai!
– Hai udito? Il più in tutto, o almeno in quello più importante.
Il Robot, cioè il tipo che si definiva di Quarta, afferrò con condiscendenza il mio bicchiere e bevve pure quello.
– Salute, – fece in tono flemmatico, da tipo tosto, estremamente sicuro di sé.
– Salute, – risposi, cercando di parere indifferente. In realtà ero alquanto contrariato. Amo scroccare, NON essere oggetto di scrocco.
Posò il bicchiere vuoto sul tavolo e mi fissò pensoso. Occhiata valutativa, espressione furba, un po’ sul complice. Mi strizzò l’occhio, come a voler dire, ci intendiamo noi due, eh?
– Sì, – consentì annuendo più volte col gran faccione impassibile. – Può essere… sembri un tipo sveglio… però c’è la questione d’essere parte d’una razza parecchio intelligente…
– Beh, in quanto a questo non dovrebbero esserci problemi. Siamo la razza più intelligente. Tutto quello che hai intorno te lo dice. Basta che ti fermi ad ascoltare un attimo, e lo saprai anche tu.
– Uh? Dici?
– Osserva un po’ fuori, gli alveari d’abitazione, il frastuono, il caos, lo smog… ti sembra intelligente tutto questo?
– No, mi sembra molto stupido.
– Appunto. Occorre parecchia genialità per arrivare a tali abissi di scemenza. O credi sia facile? O frutto del caso? Dovresti saperlo che, superati certi limiti, la grandezza dell’errore segnala l’eccellenza del talento!
Sbatté le palpebre perplesso.
– Davvero? – si meravigliò occhieggiando bramoso in direzione delle bottiglie disposte in bell’ordine sullo scaffale alle spalle del barista. Ordinai di nuovo. Due per lui e uno per me. Me ne fu grato. Mi lanciò un’affettuosa occhiata d’approvazione. – Ignoravo che l’estrema stupidità fosse indice di genio!
– No, ascolta, non la stai prendendo dal verso giusto. Intendo solo sostenere che ognuno sbaglia per quello che è. Per cui solo chi è veramente grande commette grandi errori.
– Ma davvero?!
– Grande inventiva, grandi errori. Grandi progetti, grandi fallimenti. Grandi ambizioni, grandi meschinerie. E’ tutto in proporzione, intimamente interconnesso…
– Uhm! – fece, indisponibile a lasciarsi persuadere.
– Vabbé, ascolta questa. C’è un tipo che se ne sta seduto su un barile di polvere da sparo con una torcia accesa in mano. Cosa diresti di un tipo simile.
– Che è un ritardato.
– Bene, l’umanità vive in questa condizione da quasi cinquantanni. Missili, super bombe, centrali nucleari, virus di nuovo ceppo, depositi diossinici ecc. ecc. Tutto pronto, prontissimo ad esplodere al minimo incidente e a far saltare il mondo intero. Però il mondo non salta. Passano i decenni e noi siamo ancora qui a cantare mapim-mapom, poiché in un modo o nell’altro riusciamo ad evitarlo. Non credi occorra parecchia abilità per sopravvivere in queste condizioni?
– Credo che occorra parecchia fortuna, e una buona dose di incoscienza…
– Sì, prima o poi salteremo, ma per intanto siamo qui, parliamo, beviamo, scopiamo e tutto il resto! Credi che se non fossimo stati più che in gamba ci saremmo potuti riuscire?
– Bel modo di essere in gamba!
– Vedo che non vuoi ammettere l’evidenza, che rifiuti di darti per vinto. Ma non fa niente, ho ancora parecchi argomenti da adoperare. Senti questa, dunque. Io lavoro. Col mio lavoro posso produrre, e produco, diciamo… dieci! Eppure quando LORO calcolano quel che valgo dicono (senza arrossire): DUE! vali due. NON UNA LIRA DI PIU’! E DUE, infatti, i tangheri, MI DANNO! Io stesso, se valuto con attenzione, non mi stimo più di due. Chiunque non mi stimerebbe più di tanto. Perché vedi, io sono pagato a peso, un tanto al chilo, come la carne di manzo. In pratica mi pagano lo stretto necessario per tirare avanti. Cioè, quello che serve a riprodurre me (e i miei vizi, le abitudini, le illusioni ecc.) e crescere i miei pargoli, in modo che essi possano occupare il mio posto, il giorno in cui io non ci sarò più. Quando lavoro però è diverso. La stima di me si rovescia, e mi viene chiesto quello che non pretenderebbero da un gigante. La misura non è più quello che mi occorre per sopravvivere, ma quei dieci iniziali, o magari l’UNDICI, DODICI, TREDICI CHE A LORO SERVE, E CHE SPERANO DI SPREMERE FUORI DA ME. La mia ciccia non conta più (è stata già pesata), può soffrire, penare, ammalarsi, non farcela a tirare avanti, se ne infischiano, ho avuto quel che mi spettava, a costo di schiattare devo dar loro quel che si aspettano. Scambio, si chiama. Contratto. Rapporto di Lavoro. Reciprocità di Prestazioni. Io do quel che so fare, LORO restituiscono lo stretto necessario per continuare a saper fare. E devo pure ringraziarli! perché senza quel poco, sarebbe pure peggio! morirei di fame, io con tutta la mia famiglia. Di fame e di avvilimento. Mi inculano con grazia, capisci? con giustizia! E’ tutto in regola, non fanno altro che applicare i Principi del Diritto, le leggi, e gli Accordi Sindacali. Un trucchetto demoniaco degno di Belzebù, degno anche, ritengo, di un prete di campagna, fors’anche di un Cavaliere del Lavoro. Ti pare niente essere riuscito ad escogitarlo e averlo imposto all’intero orbe terracqueo?
– A me sembra solo delinquenza, mafia…
– Su, sii obiettivo!
– Beh!
Bando alle esitazioni, lo invitai a bere. Bevve. Ordinai dell’altra porcheria. Bevve pure quella. Dell’altra. Dell’altra ancora… in breve divenne dieci volte più amabile, e cento più malleabile.
– Ehi! – dissi a un certo punto, però in tono blando, – non sarai uno scroccone per caso? un contafrottole?
S’aprì la camicia, armeggiò sul torace, scostò un lembo di pelle e mostrò quel che aveva sotto. Ferraglie. Schede elettroniche. Puntini luminosi. Un sacco di cavi colorati. Annuii. Convinto. La pelle ritornò al proprio posto.
– Allora, – lo incalzai dopo un ennesimo bicchierino. – Siamo o non siamo i più intelligenti?
– Insomma…
– Insomma che?
– Insomma, è quasi sicuro che stai cercando di infinocchiarmi!
– Ah! Ah! Ah! – risi. Mi piace passare per furbo. Quel tipo mi ci faceva sentire proprio!
– Sei un dritto tu, altroché! – continuò.
– Ah! Ah! Ah! – insistetti. – Siamo specializzati in dritteria, da queste parti…
– Oh, beh! facile con uno di Quarta Classe rigirarselo un pochino!
Bevemmo ancora.
– Ascolta, – riprese lui a un certo punto. – Mi hai convinto. Ti presenterò come mio candidato. Ma non sarà facile, credimi. I funzionari del Khan sono molto schizzinosi, scrupolosissimi, faranno un sacco di domande, e dozzine di verifiche incrociate…
– Allora?
– Se ti va di tentare…
Non esitai un istante. Male che mi fosse andata sarei entrato nell’Harem personale della ninfomane di Sirio, e non mi sembrava repellente come prospettiva. Quel tipo proponeva di scegliere tra il buono e l’ottimo. Potevo esitare?
– Come non mi va! – risposi. – Mi va, mi va!
– A tuo rischio e pericolo, caro!
– Massì! Massì! Tu presentami come si deve e vedrai che tutto andrà bene. Anzi benissimo.
– Comincio a esserne convinto anch’io… sì, credo ti porterò con me… ti piazzerò bene, sostenuto ad un ottimo rapporto…
– Gesù! Che aspettiamo, allora? Non andiamo?
– Dico, sei sicuro?
– Sicurissimo.
– Bada che non si tratta di un impegno tipico, di quelli di cui alle Norme di Ingaggio Galattiche, ma di una semplice prova, un approccio preliminare…
– Non menare il can per l’aia, – insistetti seccato (lui sussultò alla parola “can”). – Muoviamoci!
Non lo menò (il can per l’aia). Fece un gesto con la mano e ci avviammo di corsa. Cioè, ci trasferimmo sull’Arca. Un attimo prima eravamo in un bar scalcinato di periferia, l’attimo dopo nella bolgia degli alloggiamenti riservati al Personale-in-Prova.
Vi regnava sovrana la confusione. Gente di tutti i tipi, mongoloidi come il Robot, scimmie villose, lucertole acaudate, bionde stupende che si pavoneggiavano davanti a specchi di cristallo (anche Lesbica, la troiona di Sirio!), fanciulle-fiore, si agitavano e blateravano, protestavano e reclamavano più spazio, più attenzione, più servizi, più più più, più di tutto.
Come mi videro zittirono tutti quanti e mi fissarono concordamente ostili.
– E’ il mio Candidato, – si pavoneggiò il Robot di IV Classe. – Il Khan lo vedrà entro il prossimo mese.
Grugniti di disprezzo e d’odio accolsero l’annuncio. Ero l’ultimo arrivato, non valevo niente, e già così vicino all’ambito traguardo? Un coro di proteste, lamenti, urla di collera sostituì il vocio discorde precedente. Ma come? c’era gente lì, e che gente! che aspettava la sua occasione da oltre un anno!
– Il mio è speciale, – replicò giulivo il Robot. – Niente parcheggio nella Collezione per lui! – E rivolto a me: – Spogliati. Dobbiamo darti un ripulitina. Sei pieno zeppo di virus.
Faceva caldo, molto caldo sull’Arca. Non trovai difficoltà ad accontentarlo.
Mentre mi spogliavo, sgomitando confidenzialmente verso il robot, e simulando con le mani (davanti al petto) la consistenza delle sise, sottovoce chiesi:
– E come ce l’ha questo Khan di Sirio, come?
Mi aveva allettato. Desideravo saperne di più sulle formidabili tette della Superfemmina Siriana.
– Eccezionale! – esclamò in risposta, ponendo a sua volta le mani una di fronte all’altra, distanziandole parecchio tra loro: un buon trenta centimetri, almeno.
Fraintesi. Credetti si riferisse ad altre, più gustose intimità.
– Diavolo! Una vulva così! non credevo ne esistessero!
– Vulva? Che vulva?
– Sì, quella del Khan di Sirio.
– Quella? Chi ti ha detto che sarebbe una… come le chiamate voi?… sì, le Riproduttrici… una, una… donna! ecco, sì, una donna! Chi ti ha detto che è donna?
Avvertii stringermisi lo sfintere.
– Ma come? Non avevi parlato di due tette così… – rifeci il gesto con cui, nel bar, mi aveva fornito una prima indicazione sommaria delle dimensioni eccellenti delle tette imperiali.
– Su Sirio tutti i maschi hanno tette formidabili, – spiegò/informò serafico. – Sono loro che allattano la prole.
Parlando avevo proseguito nell’opera di svestizione. Giunto il turno delle mutande, dopo un attimo di esitazione, me le tolsi. IL Robot poté contemplare quel che caratterizzava il mio basso ventre. Incupì di botto. Anche io incupii.
– Cosa è quello? – sbraitò immediatamente.
– Non lo vedi? – replicai disperato, un po’ gridando, un po’ piangendo.
– Lo vedo, eccome se lo vedo! Mi hai proprio infinocchiato, carino! Infinocchiato per bene! Bella figura farò con i Superiori! Avevo ricevuto l’incarico di condurre su una Riproduttrice e invece mi ritrovo tra le mani un Inseminatore! Roba da non crederci!
Sembrò volersi arrabbiare di brutto. Rifletté un pochino e rinunciò. Si arrabbiò poco, con moderazione. Aveva troppi pensieri, troppe incombenze, TROPPA CLASSE (era di Quarta!) per lasciarsi trascinare, e perdere tempo con l’emotività. Si contenne, dunque, e cercò una soluzione al suo problema.
– Poiché sei un Inseminatore, è escluso che tu possa essere arruolato come Riproduttrice, la cosa va da sé, lo comprendi, no?
Mi guardò meglio, con occhio critico, tra le gambe e si concesse una smorfia.
– Un Inseminatore! e neppure dei migliori, a quel che vedo…
Non mi lasciai ingannare dal tono ameno. Mi preoccupai di me stesso. Andai al dunque.
– Senti, – dissi. – Voglio scendere.
Mi ignorò. L’Arca ebbe un fremito. La luce interna cangiò, divenne più brillante e si colorò di giallo, poi di rosso e infine di celeste. Il Robot sorrise beato.
– Non puoi più scendere, – annunciò. – Siamo ripartiti. Fra dieci secondi esatti parcheggeremo alla periferia del Sistema Ophiuco e se vorrai scendere… tieni presente però che in nessuno stella di Ophiuco esiste un pianeta con biosfera fondata sullo scambio ossido di carbonio-ossigeno. Comunque non hai di che preoccuparti. Mi sei simpatico. Un posticino nell’organigramma te lo trovo ugualmente. Sai, il Khan ama la varietà…
Lo immagino! pensai acido.
– Voglio scendere! – ripetei invece disperato.
Continuò ad ignorarmi. Assunse un tono complice, confidenziale.
– Sai, al Khan non dispiacciono neppure gli Inseminatori, – informò ridacchiando. – Specialmente quando sono carini e furbi come te!
Questo l’avevo capito. Sarei piaciuto al Khan. Perché ero carino e furbo. Furbo, soprattutto.
Furbo, certo, ma non abbastanza intelligente da salvarsi dalle mene di un Robot Reclutatore di IV Classe.

Miglieruolo
Mauro Antonio Miglieruolo (o anche Migliaruolo), nato a Grotteria (Reggio Calabria) il 10 aprile 1942 (in verità il 6), in un paese morente del tutto simile a un reperto abitativo extraterrestre abbandonato dai suoi abitanti. Scrivo fantascienza anche per ritornarvi. Nostalgia di un mondo che non è più? Forse. Forse tutta la fantascienza nasce dalla sofferenza per tale nostalgia. A meno che non si tratti di timore. Timore di perdere aderenza con un mondo che sembra svanire e che a breve potrebbe non essere più.

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