Bassini, Canaletti, Holt, Pandiani, Pulixi, Ruju e Simi

7 recensioni (giallo-noir) di Valerio Calzolaio

UNO

Piergiorgio Pulixi

«Un colpo al cuore»

Rizzoli

506 pagine, 16 euro

Cagliari (soprattutto). Ottobre 2019. Siamo in Corte d’Appello. Quindici anni prima Daniele Truzzu aveva sistematicamente abusato della figlia della convivente, ora per un susseguirsi di errori del sistema giudiziario viene prosciolto perché il reato è caduto in prescrizione. La stessa giudice se ne vergogna, l’imputato va via sorridendo In aula è presente un uomo alto, con parrucca e baffi posticci, che, dopo aver assistito in silenzio, esce, indossa guanti in polietilene, entra in casa del violentatore, mette un passamontagna elasticizzato, si chiude nell’armadio e lo aspetta per rapirlo. Poco tempo dopo la ragazza abusata, ormai autonoma 22enne, trova un sacchetto sullo zerbino esterno, con dentro ventotto denti umani. Dalla Squadra mobile di Cagliari l’elegante ispettrice Mara Pittbull Rais, aspra e pragmatica, chiama la sdrucita collega Eva Croce a Belfast, pacata e sensitiva, rossa di capelli e milanese d’esperienza, dove è in ferie da due settimane: meglio che torni subito. Il rapitore ha portato il pedofilo in un capannone, lo ha sdraiato su una poltrona odontoiatrica con la camicia di forza, da dove, pur intorpidito dai sedativi, può vedere incollate alla parete le foto con i volti sorridenti di tutte le bambine che aveva violentato. Dopo aver recapitato i denti toltigli in malo modo, ora registra un video e riesce a farlo vedere tramite Whatsapp e successive condivisioni a centinaia di migliaia di italiani. Lì racconta il caso penale e chiede se deve concludere l’opera e ammazzare il criminale, vi sono tre ore di tempo per votare in modo anonimo e irrintracciabile. Il programma dell’attempata conduttrice cinica conduttrice Luana Rubicondi fa addirittura la diretta del suo programma trash Verdetto. Picco di ascolti. L’uomo va ucciso. Così sarà. Primo di una serie con una precisa strategia giustizialista. L’affascinante solitario pluridecorato vicequestore meticcio Vito Strega, ormai appassionato nuotatore, parte subito da Milano per la Sardegna, sarà della mortale partita.

L’autore e sceneggiatore Piergiorgio Pulixi (Cagliari, 1982) si è affermato con acume e coraggio come uno dei più bravi scrittori italiani sulla scena letteraria europea. Dopo aver partecipato giovanissimo al Collettivo Sabot (animato da Massimo Carlotto), dopo la tumultuosa quadrilogia sul corrotto Mazzeo (nel nordest), dopo altre apprezzate prove hard-boiled, spy-story, giallo, noir e thriller, ambientate a Milano e nella ricca Lombardia, è infine tornato con straordinaria efficacia nella natia mitica Sardegna e ha vinto il Premio Scerbanenco 2019 con “L’isola delle anime”. Riprende qui le stesse solitarie quarantenni protagoniste e, ancora una volta, narra in terza varia sui due differenti campi di battaglia che corrono paralleli, non solo in regione: il diabolico piano eseguito dal Dentista, l’affannosa rincorsa degli intelligenti inquirenti, prestando sempre attenzione alle vicende umane dei personaggi. Questo romanzo, però, è avventura rutilante di pura evasione, non c’è lo scavo storico e antropologico sulla cultura isolana, “nostre e nostri” non hanno un attimo di tregua dalla spettacolare emergenza criminale. I temi sono davvero delicati e sanguinanti (la malagiustizia con i dati a pag. 187, l’occhio per occhio, i processi mediatici, le vendette viscerali, le emulazioni virali), un noir colto e forsennato, senza fronzoli, con frequenti accelerazioni di ritmo e fatali colpi di scena nelle due differenti metropoli. Segnalo Leopardi, a pag. 474. La canzone di Mina fa da sigla al terribile programma televisivo (da cui anche il titolo del romanzo, come nella migliore tradizione di Carlotto e dell’autore). Mara ed Eva amano la cantante e iniziano presto a odiare il brano, prima o poi vorrebbero usare la foto di Luana come bersaglio al poligono, chiunque di loro riesca a sopravvivere. Tanta altra bella musica. La copertina è anche la penultima scena. Rossi e bianchi (ma troppo prosecco veneto), birra e whisky (pure giapponese).

 

Giampaolo Simi

«Rosa elettrica»

Sellerio

(prima edizione Einaudi 2007)

380 pagine, 15 euro

Toscana. Maggio 2006. Rosa ha trent’anni, padre rovinato (da un’esperienza di biologico) e quasi impazzito, laureanda in filosofia, fa la poliziotta, tanti spasimanti, nessun amore, vive in mansarda. Un anno e mezzo di volante, uno di stradale a Casale Monferrato, sei mesi di corso e ora l’incarico del fuoco: deve proteggere un diciottenne delinquente, paranoico cocainomane, violento ladro boss assassino, Daniele Cociss Mastronero, capelli neri e lunghi, cicatrici sotto gli occhi, analfabeta dislessico. Pare abbia deciso di collaborare dopo l’ultima strage e l’arresto. In segreto lo mettono in un’abbazia benedettina-comunità di recupero. Lei fa la sorella. Qualcuno li spia, cercano di farlo fuori, non solo quelli della criminalità organizzata. Fuggono. Alla ricerca del capobanda. In Germania, in Inghilterra. Tagliandosi i ponti alle spalle. “Rosa elettrica”, è un bel talentuoso noir di Giampaolo Simi (Viareggio, 1965) di circa 15 anni fa, ora ben riproposto, in prima sulla ragazza.

 

Pasquale Ruju

«Il codice della vendetta»

Edizioni e/o

236 pagine, 17 euro

Costa Smeralda. Agosto 2018. L’ancora innamorato Franco non vedeva la promessa sposa Carla da diciassette anni. La loro figlia quasi 18enne Valentina è dagli zii Gonario e Nevina in Barbagia e lui può ora raccontarle la verità. Vicino alla laurea in legge a Torino, promettente reporter di nera, fidanzato fedele, Francesco Livio Zannargiu subì il ricatto della criminalità organizzata guidata da Marcello Nicotra: aveva fatto una foto di troppo, dovette abbandonare amici donna città progetti, non lo uccidevano e non avrebbero ucciso lei finché non l’avesse anche solo cercata. Scomparve per tutti e, tornato in Sardegna, è divenuto Franco Zanna, paparazzo scontroso e alcolista, solitario e incasinato, con una piaga nello spirito e molto Nero nella testa, affittuario di una catapecchia con veranda a Porto Sabore, piccolo paese sulla costa proprio davanti all’isola di Tavolara. Carla ascolta e gli dà uno schiaffo liberatorio, poi riprendono a fare l’amore con ritrovata sintonia e passione. Lei però ha cresciuto la figlia e maturato una propria vita a Torino, lavoro amicizie relazioni, deve ripartire. Valentina resta, lei ha già recuperato il padre e spera si possa sistemare presto bene tutto. Nicotra sarebbe morto, è vero. Però salutando Carla in aeroporto, Franco intravede lo sgherro più fidato del capo della cosca, presente alle minacce che fecero svoltare la sua esistenza, un assassino di nome Alfio Di Girolamo, detto Il Catanese, freddo veterano di ‘ndrangheta finito dentro e poi, appena tornato a piede libero, scomparso dai radar. Più che paura sente voglia di vendetta, va dalla sua sboccata, affascinante e inflessibile datrice di lavoro Irene Sanna, con la quale un tempo ogni tanto si davano insieme alla pazza gioia alcolica e sessuale, e provano a cercare tracce ufficiali dell’arrivo di Alfio Di Girolamo, senza successo. Rimedia un incarico professionale per la notte dopo, gran festa di Vip, ma accade un furto inatteso e vien fuori qualcos’altro sotto, c’è certamente di mezzo Il Catanese, si continua con un tourbillon di misteri, delitti lontani e vicini, donne splendide e pericolose, soldi e botte da varie parti in autunno e in inverno.

L’architetto doppiatore, ottimo sceneggiatore fumettista fra l’altro di Dylan Dog, Pasquale Ruju (Nuoro, 1962) opera al Nord e resta ancorato ai luoghi belli della natia isola, non solo il mare dell’arcipelago a nord-est, anche la Barbagia: vien proprio voglia di tornarci (è in copertina il disegno dello sguardo assorto e innamorato su Tavolara, vestita di luna e di blu). Siamo al terzo romanzo della serie narrata in prima persona al passato, un’altra storia noir e hard-boiled, con il Nero mescolato alla Vendetta. Il titolo parla delle regole e delle tradizioni de relativo codice e fa barbaricino riferimento (ripreso nell’esergo e di continuo) al volume di Antonio Pagliaru (1922-1969), giurista filosofo educatore, prima tesi su Leopardi e saggi curiosi su Gramsci, che nel 1959 scrisse da libero docente (in vista del concorso da ordinario, poi vinto) uno splendido volume di antropologia giuridica sull’argomento. Franco lo interpreta a modo suo, proporzionato prudente progressivo, forte degli insegnamenti pratici e orali dello zio, il rude cortese latitante Gonario Strangio, che da giovane aveva offerto da bere agli assassini del fratello, prima di piantare a ognuno di loro tre proiettili nel petto. Se ci si vuol vendicare bene, qualcosa inevitabilmente resta in sospeso. Segnalo che la gratitudine, fra maschi di Barbagia, è qualcosa che leggi in un breve sorriso, in un bicchiere di vino offerto al momento giusto, in un’affettuosa spallata. La narrazione è sceneggiata in ben sessanta capitoli, con stile efficace ed essenziale, in alcuni tratti fumettistico (e già visto): scene rapidissime, frasi sincopate, rimandi letterari e fotografici, il punto di vista sensibile e colto del protagonista. Il Divo è internazionale e senza nome, vi si può riconoscere uno qualsiasi dei tanti ora in auge nel mondo. Abbardante, mirto, mojito, whisky, birra o vino in quantità industriali. Nel giorno del diciottesimo compleanno il magnifico pilota omosessuale mette la Carmen di Bizet sul potente impianto di bordo, mentre sfiorano le onde al largo di Molara, bello esserci.

 

Enrico Pandiani

«Lontano da casa»

Salani

390 pagine per 16,80 euro

Dintorni di Torino. Fine novembre 2019. Il rifugiato nigeriano poco più che trentenne Taiwo Ajunwa ha ormai perso l’illusione di poter scappare, da molte ore è nudo e ferito nel bosco, braccato da inseguitori feroci, il coltello che ha in mano serve a poco, quelli girano in gruppo con tute mimetiche e sono armati. Giunge a un muro alto due metri e mezzo con la sommità cosparsa di bottiglie rotte, lo scovano e viene ucciso con frecce di balestra. Quando la polizia trova il corpo da tutt’altra parte, nei giardini di via Mascagni a Barriera, periferico quartiere metropolitano multiculturale, il calvo vicequestore Zappalà si rivolge all’assistente sociale Jasmina Jami Nazeri, folti lunghi capelli crespi, neri e lucidi, sopracciglia troppo folte e naso troppo lungo, non bella seppur dolce e risoluta. Lei conosceva tutti i neri, ha una classe d’italiano per immigrati extracomunitari, da tre anni aiuta sia nel pensionato, fa compagnia e legge libri all’anziana signora Artale lì abbandonata dai figli, che nel centro di raccolta di cibo fresco invenduto e beni alimentari, consegnano cibo a senzatetto e clochard, italiani perlopiù, anche nordafricani albanesi rumeni. Taiwo lo aveva avuto a lezione, in realtà con lui avevano pure vissuto una breve storia d’amore, è sconvolta. I genitori benestanti di Jasmina scapparono da Esfestanaj in Iran quando lei era piccolissima; poi morirono in un incidente d’auto; è abituata a essere autonoma, ora risiede a pianterreno di una casetta di via Vivaldi, sopra stanno Mary e Rosanna, i due cari travestiti che le hanno garantito un alloggio, verso Rosanna è cresciuta una reciproca attrazione. Prima di morire Taiwo era riuscito a nascondere in bocca una piastrina sottile rosso cupo, nessuno sa perché. Ogni tanto incontra l’elegante Smemo, che sembra appunto non ricordare più nulla. Mentre pranza con il collega volontario Antonio, un fratello maggiore, qualcuno rompe la vetrina del locale per metterle paura. Poi scompare Mane, l’amico di Taiwo. E la reazionaria ispettrice Pandora Magrelli la convince che c’è qualcosa di più grosso dietro violenze e misteri, stanno cercando qualcuno o qualcosa d’importante.

Il bravo grafico editoriale, illustratore e sceneggiatore Enrico Pandiani (Torino, 16 luglio 1956) ha pubblicato il primo romanzo noir nel 2009, concentrandosi poi principalmente sulle due diverse serie degli Italiens, il generoso arrembante Pierre e il suo gruppo di agenti capitani comandanti parigini di origine italiana (giunta alla settima avventura) e di Zara Bosdaves, ex poliziotta nel nord-est, ora “private eye” torinese (giunta alla quarta avventura, l’ultima comune): nel romanzo del 2019 i due s’incontrano, si scontrano, s’aiutano e si piacciono, pensano di avere un passato in comune. Qui resta nella sua città e racconta efficacemente soprattutto l’esistenza italiana di molti che vengono da lontano (da cui il titolo), il meticciato di esperienze drammi usi costumi crimini, ambientati in un quartiere pieno di colori e di diseguaglianze. La narrazione è in terza varia, quarantaquattro densi capitoli di cui oltre trenta su Jasmina e una decina sui relativi amici e nemici. Lei, nella cornice del bagno, ha due cartoline arricciate dall’umidità: la riproduzione di un dipinto di Hayez con la fragile giovane donna dai capelli corvini nella quale si è riconosciuta, la foto con l’immagine di Woody Guthrie che tiene in mano la chitarra dove aveva pennellato «THIS MACHINE KILLS FASCISTS». Le strade che conducono alla disperazione sociale camminano interamente nel nostro Paese, non vengono da fuori. E Torino ne è molto coinvolta di questi tempi. All’inizio del 2021 dalla capitale piemontese arrivano notizie tristi di regolamenti e blitz comunali ostili a senzatetto e clochard, di uomini morti soli per strada causa freddo o malattia. Il romanzo aiuta a capire come si è arrivati a tanto. Jasmina non è un’eroina, solo una interessante sensibile ragazza perbene, arrivata dalla bersagliata sofferente comunità curda in Iran e dal limbo dei richiedenti asilo, a prezzo di immani dolori. Alla lunga, sapere di non poterseli permettere cancella anche i desideri. Birra e vino come capita. Musiche e voci meticce: Lhasa de Sela, Satie, Hindi Zahra, Neli Andreeva.

 

Angelo Canaletti

«La buona notte»

Robin

214 pagine, 13 euro

Father and Son. Dall’Epifania fino l’autunno inoltrato; dal mare ai punti cardinali della penisola fino alla Scozia. Un killer professionista trascorre la notte con una ragazza ma è decisamente angustiato per l’alzheimer del padre: perde sempre più colpi, cammina male, parla strano, si piscia addosso. Nemmeno i cangianti badanti riescono a gestirlo con capacità. Il vecchio gli diceva “vai adagio” ma lui non gli ha dato retta: è passato dall’attivismo giovane e violento dei Settanta all’adulta violenza omicida e meccanica. L’ingegner Angelo Canaletti (Civitanova Marche, 1966) continua a scrivere bene, l’intenso noir “La buona notte” è la sua terza più matura prova, narrata in prima, articolata in undici parti e quarantasette capitoli: viaggi, freddi omicidi di vittime inconsapevoli, rapporti affettivi irrisolti, irrigidimento morale proprio e degenerazione mentale paterna, afasia dei linguaggi, disfacimento sociale guardato senza compassione. La libertà è eventuale e dolorosa.

 

Remo Bassini

«Forse non morirò di giovedì»

postfazione di Giorgio Levi

Golem editore

192 pagine, 15 euro

Vercelli o giù di lì. Marzo 2019 o suppergiù. Il sincero superstizioso 56enne Antonio Sovesci, padre sindacalista e mamma bidella, occhiali e pizzetto, non laureato, gran fumatore, sofferente di colite, gran lettore (soprattutto di gialli), è da 13 anni e quattro mesi il giudizioso direttore del quotidiano locale, ormai fuori allenamento con l’altro amorevole sesso, del quale talora si fida troppo. La sua unica donna, la moglie Simona se n’era andata nove anni prima, innamorata di un pianista jazz su navi da crociera, e da quand’è tornata lui non vuole più vederla. Si distrae spesso alla finestra della redazione, invaghito della nuova dirimpettaia, una maestra elementare carina sui quaranta che da pochi mesi vive sola e triste in un appartamento lì di fronte. È in attesa dell’intervista con la sua giovane lentigginosa ex giornalista Caterina, che ora lavora in una televisione e con la quale erano stati quasi per amarsi un po’, nonostante i ventiquattro anni di differenza. Al giornale poi lavorano tante donne, più o meno capaci e aitanti, lui è sempre sull’appassionato pezzo, resta solo e pensieroso, assorbito a tempo pieno dall’incarico. Quella notte a Parco Venezia pare che un gruppo di balordi abbia accerchiato, minacciato e pestato due omosessuali, le voci non sono certe, qualcuno vuole mettere a tacere la vicenda, forse erano solo un padre e un figlio, non si sa bene se e come scriverne, nasce un aspro conflitto in redazione e, di lì in avanti, emergono manovre e arrivismi connessi alla volontà del potente editore Domenico Maria Ricci di cambiare tutto. L’allenato amico maresciallo dei carabinieri Gaetano Manferti lo mette in guardia, ma ha anche lui i propri guai, sarà meglio che entrambi mettano qualche punto fermo (esclamativo)!

Il bravo colto giornalista e scrittore (già operaio e portiere di notte) Remo Bassini (Cortona, 1956) fin da piccolo si è trasferito a Vercelli, pubblicando via via vari romanzi, un’esperienza letteraria sempre più orientata al genere noir meditabondo ed esistenziale. La nuova intensa interessante opera non è un vero e proprio giallo (anche se ci sono crimini e misfatti, depistaggi e indagini, pubbliche e private), piuttosto uno scandaglio interno e retrospettivo dell’amore per la professione giornalistica, aggiornato e amaro, con riflessi noir. La narrazione è in terza quasi fissa al presente sul protagonista, solo poche volte il flusso di pensieri affastellati e delle conseguenti azioni del direttore a fine mandato sono interrotti o dal testo dell’intervista che ha rilasciato a Caterina sul proprio lavoro (più frequentemente) o dallo spesso depresso Gaetano, alle sensibili prese con l’amante (pubblico ministero) e con il reattivo invadente amico (più raramente). Il mondo è tutto racchiuso nelle dinamiche di una benestante media provincia, pochissimi gli echi esterni. Il titolo richiama una delle superstizioni del protagonista, forgiato da vari brutti eventi accaduti di giovedì. In esergo il maggior rimpianto professionale di Sovesci, la poesia di uno scrittore maledetto, Ernesto Ragazzoni (Orta San Giulio, 1870 – Torino, 1920): «È finita. Il giornale è stampato, la rotativa s’affretta, me ne vado col bavero alzato, dietro il fumo della sigaretta». Forse per lui potrebbe essere giunta l’ora della pensione, incombono i giornali online. Fra l’altro vivrebbe solo d’insalata russa e di uova fritte al tegamino. Oltre che ovviamente di Barolo, di Dolcetto e, ancor più, di Grignolino.

 

Anne Holt

«La tormenta. Le indagini di Selma Falck»

traduzione di Margherita Podestà Heir

Einaudi

594 pagine, 21 euro

Oslo. Da primavera ad autunno 2018. Il 18 maggio muore Ellev Trasop (1918) dopo aver consegnato il cofanetto in cedro al ministro della Giustizia Tryggve Mejer, una cosa segreta. Loro fanno ancora parte di Stay Behind, una potente diramazione mai sciolta, si riunisce il Consiglio e non si fidano l’uno dell’altro, tanto meno l’unica donna, Berit Ullern il Maggiore. Il fatto è che il ministro è sotto pressione: la moglie Cathrine è stufa dei suoi persistenti incarichi, la figlia Mina è preoccupata per il padre e per la loro separazione, minacce e insulti avvelenano la rete stressando (come ovunque) la democrazia liberale rappresentativa. Tryggve propone al Consiglio l’operazione Tormenta ma gli altri votano contro. Tuttavia, il 21 luglio, mentre è in corso il pranzo matrimoniale, viene ucciso il 36enne sposo Sjalg Petterson, shock anafilattico in quanto allergico alle noci. Era uno degli obiettivi dell’operazione che sembra avviata su più fronti: avvengono sofisticati attacchi via internet a siti di odiatori sociali di destra, Petterson stesso era un esponente conservatore che aveva preso di mira il ministro. Il fatto è che la 24enne sposa era Anine, la figlia di Selma Mariska Falck, pur avendo rinnegato la madre, comunque presente a parte della cerimonia. Già atleta ai massimi livelli (due volte argento olimpico di pallamano), 1,78 per 68, poi ammirata avvocata di fama, uno dei volti celebri della Norvegia, nominata nel 2015 donna più elegante del Paese, l’anno prima Selma, appena compiuti 51 anni, si era ridotta in un tugurio sul lastrico per ammanchi di gioco, schifata da marito e due figli, senza casa e affari. Aveva recuperato qualcosa risolvendo un caso clamoroso e ora si mantiene investigando qua e là, sempre famosa, brillante e affascinante. Il bel cuoco del pranzo matrimoniale non vuole aver guai e si rivolge a lei. Selma si procura le foto e cerca di capire se sia stato un caso o un omicidio, attratta dal 27enne cuoco e in debito con la figlia. Non uscirà facilmente dalla torbida storia.

L’eccelsa scrittrice norvegese Anne Holt (Larvik, 1958), laureata in legge, giornalista dal 1984, avvocato dal 1994, ministro della giustizia nel biennio 1996-97, ha pubblicato complessivamente oltre una ventina di gialli. Dopo dieci avventure ha un poco accantonato la serie Wilhelmsen (iniziata nel 1993) ed è al secondo ottimo romanzo della nuova serie con un’aspra spettacolare protagonista. Selma ha un unico vero amico, il puzzolente barbone Einar Falsen, ora è riuscita a fargli abbandonare gli scatoloni in strada, sparsi in quattro posti differenti di Oslo, nei quali pativa fame (spesso) e freddo (di rado) e gli ha lasciato il tugurio che aveva trovato per sé, trasfendosi anche lei in migliore residenza. Restano una straordinaria coppia per risolvere misteri! «Tutti hanno dei segreti. Cose di cui ci vergogniamo». Lei non beve più alcol, ingurgita bottiglie grandi di Pepsi Max, si limita a giocare a poker, raramente e di notte, adottando vari espedienti contro la ludopatia. Resta sempre cuore e muscoli della narrazione, pur in terza varia al passato sugli altri personaggi-chiave. La trentina di capitoli alternano le stagioni, incontriamo subito la protagonista che a inizio autunno si trova pestata a sangue senza memoria, dentro un incendio in una baita di montagna, data per morta, con l’antica Volvo rossa bruciata; poi, ogni tanto, seguiamo brevemente i passaggi attraverso cui cerca di cavarsela, mescolati con la complicata indagine precedente, soprattutto durante l’estate. Lassù nella tormenta (senso doppio del titolo) riscopre anche le lacrime, dopo che da tempo sembrava fisiologicamente incapace di piangere. La scrittrice riesce ad aggiornarci con competenza e poesia sul doppio Stato, ben noto anche alla storia italiana, ora ai tempi dell’aggiornato suprematismo bianco, di inediti inafferrabili populismi e di novelle guerre fredde (riflettendo sull’avversione nordica tanto per gli zar quanto per i sovietici, poi adesso sensatamente per le azioni degli agenti russi). Molti i prodotti italiani lì ancora di moda. Documentati e drammatici tutti i riferimenti all’odio verso i migranti, liberi e rifugiati. Sugli estremisti, segnalo la teoria del ferro di cavallo, a pag. 398. Nel seminterrato Mina non scorda la promessa contenuta dalla canzone svedese cantata dal padre alla chitarra. La stesura risale ormai a tre anni fa, nel frattempo Holt ha lavorato ad altri romanzi, principalmente durante la pandemia (spesso accanto ai genitori anziani e lontana dalla moglie e dalla loro figlia social), per quanto la Norvegia abbia finora avuto un numero basso di vittime.

Redazione
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