Belice 1968: niente nasce come i funghi

di Romano Mazzon

Nel corso degli ultimi 10 anni ho avuto più volte il piacere di essere ospite del Cresm (Centro Ricerche Economiche e Sociali del Meridione) a Gibellina Nuova (TP). Ho avuto la fortuna di conoscere persone come Alessandro La Grassa (Daniele Barbieri ha pubblicato il 13 gennaio un suo intervento su questo blog), attuale presidente, Lorenzo Barbera, fondatore del centro, l’instancabile Nuccia Tasca e tutti quelli che animano e credono in questa struttura come Annamaria Frosina, Lina, il signor Giuseppe e tanti altri che lavorano in quelle stanze. Frequentandoli ho pian piano scoperto che in questo angolo della Sicilia sono successe cose che noi umani non potremmo immaginarci. Ho potuto ascoltare i racconti di Barbera sulle lotte con Danilo Dolci e sulle attività per la ricostruzione sociale e materiale dopo il sisma del 1968, ma anche i racconti di Nuccia Tasca che, assieme a Lorenzo, si è recata nelle zone dell’Irpinia quando anche queste furono devastate da un sisma nel 1980, sempre per la ricostruzione sociale e materiale. Ho sentito i racconti delle attività del Cresm quando ancora non esistevano i progetti europei e loro già, correndo per strade improbabili con auto di fortuna, cercavano di realizzare uno sviluppo partecipato. Ho sentito i racconti dei giovani del Cresm sui progetti attuati negli ultimi anni e continuo ad incontrarli mentre progettano e si dannano per trovare soluzioni: ormai Lorenzo Barbera li lascia correre da soli, convinto che se il suo è stato un buon lavoro questo sarà dimostrato da quanto i giovani sapranno fare.

Nel 2009 mi sono, poi, recato in Abruzzo, prima come giornalista free-lance (volontario) e poi come psicologo volontario. Devo dire che ho trovato una situazione molto diversa da quella che mi avevano raccontato a proposito del Belice e mi sono chiesto perché. La risposta l’ho trovata in un libro: niente nasce come i funghi! Il titolo del volume in questione,  che sarebbe utile qualche editore ripubblicasse,  è “I ministri dal cielo”, Feltrinelli, 1980, in cui Barbera ha raccolto una serie di testimonianze su quel periodo.

Allora facciamo un po’ di storia.

Il Belice fu colpito da un forte sisma nella notte tra il 14 e il 15 gennaio del 1968. Tra i 14 centri colpiti dal sisma vi furono paesi che rimasero completamente distrutti: Gibellina, Poggioreale, Salaparuta, Montevago. Le vittime furono 370, un migliaio i feriti e circa 70 000 i senzatetto. Si ricordano gli altri paesi e cittadine che hanno subito danni ingenti: Menfi, Partanna, Camporeale, Chiusa Sclafani, Contessa Entellina, Sciacca, Santa Ninfa, Salemi, Vita, Calatafimi, Santa Margherita di Belice. Curioso annotare che nel manuale di psicologia dell’emergenza* utilizzato per la formazione della Protezione Civile, nell’elenco delle catastrofi che hanno colpito l’Italia, si faccia riferimento financo al terremoto che distrusse Messina nel 1905 ma non al terremoto del Belice del 1968. Anche in un manuale di sociologia del lavoro e dell’organizzazione**, nel capitolo curato da un docente della scuola di guerra dell’Esercito di Civitavecchia, si fa riferimento all’impiego dell’esercito nel terremoto che colpì l’Irpinia del 1980 ma non all’intervento del medesimo nel Belice, che pure ci fu e pesante.

Nel 1968 non risultava esserci alcuna struttura adibita al soccorso alle popolazioni: l’Esercito fu incaricato, per legge, di compiti di protezione civile in caso di pubbliche calamità nel 1978 e la Protezione Civile verrà istituita nel 1992 su un’idea di Giuseppe Zamberletti, commissario straordinario durante il terremoto del Friuli nel 1978.

Una vicenda, quella del Belice, in cui i protagonisti denunciano ancora oggi l’assenza dello Stato e la forte militarizzazione del territorio. E questo si ripeterà, d’emergenza in emergenza, fino all’esperienza abruzzese. Altra similitudine con L’Aquila è il modello di ricostruzione: la ricostruzione non avvenne attraverso una relazione con gli enti locali e con una partecipazione del territorio ma attraverso direttive provenienti dall’esterno.

Sempre legata alle vicende del terremoto del Belice è Radio Partinico – La Radio dei Poveri Cristi, una radio “della nuova resistenza” dai cui microfoni, il 25 marzo del 1970, Dolci lancerà un messaggio disperato (cliccare per ascoltarne un brano, qui il testo completo), non solo perché la popolazione non venisse abbandonata, ma anche per chiedere la democratizzazione dell’informazione. Da questa esperienza prederà spunto, nel 1977 a Terrasini, Radio Out che ebbe come principale animatore Peppino Impastato, che per primo, proprio da quelle frequenze, accuserà “Tano” Badalamenti di essere un capo mafioso attraverso trasmissioni satiriche. Questa esperienza, raccontata nel film I cento passi di Marco Tullio Giordana, rappresenta un importante esempio di utilizzo del mezzo radiofonico come strumento di controinformazione, basti ricordare che Badalamenti sarà condannato per mafia negli USA prima che in Italia. Inoltre, con la riabilitazione di Impastato anche grazie alla sentenza del 2001, che a 23 anni dal suo omicidio ha riconosciuto come l’attivista non fosse un terrorista esploso mentre piazzava una bomba ma fosse stato prima ucciso e poi fatto saltare in aria dalla mafia, Impastato è divenuto esempio per tanti giovani che si occupano di informazione. Tra i gruppi che in Abruzzo hanno tentato la ricostruzione sociale dal basso ho incontrato anche un’associazione che porta proprio il suo nome, Associazione Peppino Impastato (qui l’intevista che abbiamo raccolto).

Nel Belice si venne a manifestare un forte movimento popolare, ramificato nel territorio che chiese da subito di essere protagonista della ricostruzione. Sulle vicende e sopratutto sui giudizi circa quella ricostruzione, i pareri sono ancora oggi molto discordi tra i protagonisti di allora ma il movimento popolare che si venne a creare mostrò buone capacità di contrattazione con le istituzioni almeno su alcuni punti:

La Valle del Belice è stata un crogiolo di lotte che miravano non solo alla ricostruzione dei paesi colpiti nel 1968 dal terremoto, ma anche alla trasformazione dei rapporti tra masse popolari e Stato. Con il terremoto, con l’esperienza della difficile ricostruzione,  e a contatto con i ministri aereotrasportati che giungono in Sicilia carichi di promesse, le organizzazioni popolari si fanno più forti, come testimonia il braccio di ferro che sostengono con lo Stato: ribellarsi a una sottomissione secolare… Si tratta di vicende che non riguardano solo il Belice, né solo certi casi di speculazione più o meno mafiosa, bensì mettono in luce, esemplarmente, il livello di incompatibilità che in Italia si è raggiunto tra forze popolari e organi politici inetti o corrotti. Vicissitudine dei terremotati e dei progetti di aiuto, spedizioni collettive nella capitale e atti di scandalosa demagogia.” (dalla presentazione del volume I ministri dal cielo, Barbera L., 1980)

Il movimento popolare dopo il sisma riuscì a raccogliere attorno a sé molte simpatie sia a livello nazionale che internazionale, con un campeggio estivo organizzato a Partanna presso la rinominata Baracca Martin Luther King dove, secondo i racconti che ho sentito, si ritrovavano diverse centinaia di persone per discutere di pianificazione partecipata da tutto il mondo. Il movimento contro la guerra in Vietnam spegnerà i riflettori su questa esperienza che rappresenta un primo esempio, forse il più significativo, per popolazione coinvolta in Italia, di richiesta e sperimentazione di democrazia partecipativa, non subordinata a una concessione del legislatore ma ottenuta de facto attraverso pratiche nonviolente e di informazione/formazione nel territorio.

Questa esperienza di lotta e partecipazione, però, non nacque spontaneamente dal nulla, non fu il frutto di un sentirsi uniti nella disgrazia, come recita il senso comune.

Dalla prima metà degli anni ’50 operava, nella Sicilia Occidentale, Danilo Dolci.

Poeta e sociologo lavorò a lungo in quelle zone, con altri collaboratori. Il metodo utilizzato era la maieutica, un sistema pedagogico rivolto al territorio, alla popolazione. Un metodo che oggi verrebbe chiamato di empowerment della comunità e che Dolci chiamava capacitazione, ossia rendere la popolazione consapevole della non ineluttabilità della propria situazione miserrima, fornendo anche gli strumenti per il superamento di questa situazione. In questo modo vennero formati diversi cittadini dei diversi comuni della zona che a loro volta operarono sul territorio organizzando assemblee e formando/informando la popolazione.

La prima azione eclatante che viene ricordata è lo sciopero della fame che Danilo Dolci fece nel 1952 sul capezzale di un bambino morto di stenti (nel 2011 succede a Bologna ma nessuno sciopera).

Questo movimento salirà alle cronache nazionali per il processo che Dolci e i suoi collaboratori subirono in seguito all’arresto per aver organizzato il digiuno collettivo e lo sciopero a rovescio sulla “trazzera vecchia” di Partinico nel gennaio del 1956***:  Qui di seguito l’appello di Dolci:

Partinico, 27 novembre 1955

A tutti

Invito ogni persona che ha una responsabilità, che sente di avere una responsabilità pubblica, a digiunare almeno per un giorno per rinfrescare alla sua memoria, se mai l’abbia saputo, cosa significa stare digiuno – come troppo spesso stanno milioni di nostri fratelli, bambini e vecchi compresi, nel mondo, in Italia.

Che si definisca perfino in quantità gli impossibilitati a vivere, e non li si metta radicalmente, subito, in grado di salvarsi, mentre i forti “mangiano”: non è da fratelli, da compagni, uomini.

Da questa zona ormai cerchiamo di avvisare tutti, specialmente i più responsabili, di come si “vive”. Se a Trappeto qualcosa, per la buona volontà dei privati, amici e autorità, si è potuto iniziare (e soprattutto l’irrigazione dei primi duecento ettari e l’università popolare ci pare potranno significare per il rinnovamento), a Partinico si è da capo. Almeno:

  1. Occorre mandare tutti i piccoli almeno sino a quattordici anni a scuola: trasformando le attuali cosiddette, scuole, in scuole più vere che si può;
  2. Occorre assistenza alle famiglie dei carcerati e dei “banditi”;
  3. Occorre quindi dare lavoro subito ai disoccupati.

Abbiamo tentato, privatamente, a Partinico: i risultati, malgrado i sacrifici personali dei pochi amici, sono stati effimeri in confronto alle immediate necessità.

Intanto si spara sui “banditi” (e non solo qui) invece di abbracciarli e chiedere loro scusa, soprattutto coi fatti.

Intanto tre o quattro miliardi, dal fiume Jato, non costruendo la diga necessaria per utilizzare le sue acque invernali, vanno ogni anno sprecati. (Né certo privatamente si può subito costruire una diga di qualche miliardo, quando ora non riusciamo che a gran stento, per esempio, in mesi e mesi, a costruire una casetta a un tisico in gravi condizioni).

Da domani digiunerò per una settimana. E così farò ogni anno fin che non sarà costruita e funzionante la diga (o reso possibile qui a tutti, in altro modo, almeno il lavoro); fin che le famiglie dei carcerati e degli invalidi, dei “banditi” della zona (Partinico, Montelepre, Trappeto eccetera), non avranno una vera assistenza; fin che i ragazzi della zona non andranno a scuola come dovrebbero. Non possiamo assistere quasi inermi al nostro abituale invertirci.

Vostro

Danilo.

Dopo questo appello ve ne sarà un secondo, sempre nello stesso mese, per la richiesta della diga con 1500 firme. A seguito di questi fu proclamato un digiuno per il 30 gennaio e l’inizio dei lavori di pubblica utilità da parte della popolazione, con l’ausilio di tecnici, a partire dal 2 febbraio, lo sciopero a rovescio.

Poco meno di un anno prima del sisma, dal 6 al 12 marzo del 1968, si svolse la Marcia per la Sicilia  Occidentale lungo un percorso di 180 km, da Partanna a Palermo, attraverso Castelvetrano, Campobello di Mazzara, Menfi, Santa Margherita, Roccamena, Partinico, Monreale:

C’eravamo maschi e femmine, vecchi e picciotti, padri e figli. Mariti e mogli, paesani e campagnoli, mastri e garzoni. E c’erano le signorinelle, tante signorinelle con camicette e fazzoletti colorati mescolate alle coppole nere e grigie dei campagnoli e ai vestiti neri delle vecchie e delle vedove. C’erano pure i ragazzi della scuola magistrale e tanti, tanti cagnoli (cuccioli, n.d.r.) della scuola elementare. Persino bottegai, falegnami e fabbri. E pure gli impiegati del comune avevano chiuso bottega ed erano con noi. Vecchissimi e zoppi erano pronti su carretti e l’ape. I padri più giovani avevano i nutrichi (bambini che non sono ancora in grado di mangiare e camminare da soli, n.d.r.) sulle spalle.

Ma perché tutto questo popolo si è messo in marcia? Non fu per volontà di Dio. Il giorno prima della marcia in una assemblea al Cinema Nuovo Lorenzo aveva parlato per due ore. C’erano millecinquecento persone, quasi tutti campagnoli, braccianti, manovali e disoccupati, e c’era pure gente di fuori. E Lorenzo parlava di dighe, di strade, di boschi, di scuole; parlava di acqua nelle case e di lavoro per tutti e diceva che l’emigrazione doveva finire e parlava di cifre di posti di lavoro per ogni paese, per ogni contrada.

E noi conoscevamo tutte queste cose perché in ogni paese avevamo discusso, avevamo detto quello che si voleva qua e quello che si voleva là. E avevamo fatto anche tante lotte pagate con tante promesse. (Peppe Mulu pi Arcamu – Giuseppe il Mulo per Alcamo -, in, Barbera L., 1980, pp.7-8).

Poi venne il terremoto e la distruzione. Una distruzione non solo materiale ma anche sociale. Quello Stato che li aveva sempre e solo trattati da banditi (qualcuno ricorda i fatti di Bronte, a propostio di 150 anni dall’Unità d’Italia?) cercò di continuare nell’umiliarli. Ad esempio offrì alle famiglie colpite dal terremoto un biglietto di sola andata per qualunque Paese estero volessero raggiungere e molti, disperati, lo fecero. Insomma una terra dove lo Stato o ti incarcera come bandito o ti toglie dalla coltivazione della terra per mandarti soldato o ti fa emigrare.

Così racconta Riolo Carcarazza – Gazzaladra, così chiamato perché chioccia come la gazza – nel volume di testimonianze circa la militarizzazione e l’immediata risposta di una popolazione formata alla partecipazione diretta:

Quattro o cinque giorni dopo il terremoto arrivò l’esercito guidato da colonnelli e capitani. Un colonnello una tendopoli. Una tendopoli una tenda comando. I colonnelli assistiti da commissari di polizia e capitani dei carabinieri, presero il comando. Il comando di ogni cosa. Decidevano quando e cosa si doveva mangiare, quando si doveva dormire, quando ci si doveva svegliare. Ogni tendopoli una caserma.

I militari cucinavano il rancio e il colonnello al pentolone con il mestolo in mano pareva lo stregone. Tutti in fila come nei campi di concentramento e, un mestolo a testa, non si fidava nemmeno di Gesù.

Se uno diceva: cosa è questo terremoto? Doveva stare attento al colonnello che aveva le orecchie lunghe tramite reggicoda e leccapiedi. Se tu parlavi nella tenda, era come fuori. Se facevi una scoreggia il colonnello si insospettiva. Se poi ragionavi con tua moglie o con un tuo compare o col vicino di tenda: che fine farà la nostra casa? E tutto quello che avevamo e il lavoro? Allora venivi guardato come una sorgente di disordine. Le riunioni le chiamavano assembramenti e le assemblee adunate sediziose. Questi benemeriti signori avevano installato grandi altoparlanti e dalla tenda comando comandavano a tutte le ore rompendo i timpani a tutto il popolo.

E rilasciavano interviste come le dive del cinema sui rotocalchi, con tanto di fotografia tra le tende e magari con il mestolo in mano, dicendo che il popolo del Belice era colpito dalla mosca “tirré tirré”, ossia dalla mosca del terremoto. In queste interviste la gente del Belice viveva con la filosofia del “fico cascami in bocca” e si lasciava entrare e uscire le mosche dal naso perché non aveva nemmeno la volontà di sollevare una mano per non farsi rosicare dalle mosche. Insomma dicevano che il popolo del Belice ha imparato subito il mestiere del terremotato perché aveva nel sangue il bacillo del fannullone.

La scintilla scoppiò nella tendopoli di Santalucia, a Partanna, dopo dieci giorni di fare le bestie nel fango delle tendopoli e sotto il bombardamento degli altoparlanti della tenda comando. Come fu, come non fu nessuno lo sa, ma la massa della gente si era riunita al centro della tendopoli. Un commissario di polizia, tutto pelle e ossa e con due orecchie a parafango, che faceva il consigliere spirituale del colonnello, spunta come un pipistrello e dice: “Questa è adunata sediziosa. Chiunque parlerà in questo assembramento sarà denunciato e arrestato in flagranza di reato”. Come se noi volessimo fare la presa della Bastiglia.

Ciccio Guardiacaccia, inteso Quartarazza (Quartarazza è una capiente anfora di creta, che si usava in campagna per dare da bere a ciurme numerose di braccianti o per fare le riserve d’acqua in casa.), prende la sua bagnera (una capace bacinella di lamiera in cui si faceva il bagno ai bambini, e dove si lavavano anche gli adulti.), una millecento vecchia e scassata, e dice: “Andiamo in piazza al comitato popolare”. In piazza c’era Lorenzo del Centro Studi e gli diciamo i fatti per filo e per segno. “Tu devi venire a fare l’assemblea”. “Ma assemblea su cosa?”, dice Lorenzo. “Su tutto. Sul terremoto sull’assistenza, sulla tendopoli e su come ci dobbiamo organizzare”.

Caricammo Lorenzo nella vecchia macchina, sei e uno sette. E la millecento con la pancia a terra arrivò a Santalucia. La voce si era sparsa ed erano venute anche le donne, i bambini e tutti. Il commissario e il colonnello bloccarono subito Lorenzo: “Se lei parlerà in questa tendopoli sarà responsabile di questa adunata sediziosa e arrestato in flagranza di reato”. Lorenzo parlò al commissario e al colonnello di Costituzione, di diritto e di libertà. Disse che c’era il terremoto e non il fascismo. E il Commissario Pelle e Ossa: “Uomo avvisato mezzo salvato”. Facemmo un gran cordone intorno a Lorenzo. Dietro al popolo carabinieri e soldati.

Lorenzo spiegò come viene un terremoto e fu importante perché il popolo che non sa è come l’orbo che non vede. C’era chi pensava al castigo di Dio per i peccati e le malefatte del popolo. Ma Lorenzo disse che colpevoli e grandi peccatori erano altri: i signori ricchi, i signori di Roma e i signori di Palermo. Il popolo ha pagato senza colpa. La disoccupazione è una pena scontata dal popolo e l’emigrazione è un’altra pena. E una pena è la povertà e il bisogno. A tutte queste pene ora si aggiunge il terremoto. Chi sconta la pena del terremoto? Sempre il popolino. I signori sono tutti nei loro appartamenti di città o nelle loro ville a mare che terremotate non sono e non vivono nel fango insieme a noi.

Lorenzo poi disse che le nostre case sono cadute o lesionate e pericolanti perché costruite senza ferro e cemento. E portava le prove delle cantine sociali rimaste intatte e del grande palazzo in piazza rimasto senza una lesione; disse che tutte le nostre case dovevano essere rifatte con cemento e ferro. E parlò di ricostruzione, di una legge speciale per la ricostruzione e il lavoro nel Belice prima di chiudere il parlamento per la campagna elettorale del 1968.

Alla fine disse grazie ai soldati semplici, perché davvero avevano lavorato, insieme ai pompieri, a cercare feriti e morti sotto le macerie e a piantar tende, perché noi tende non ne avevamo mai piantate. Disse anche che ogni tendopoli poteva essere amministrata da un comitato e che in ogni paese dovevano tornare a funzionare i consigli comunali e perciò non c’era più bisogno di capitani dei carabinieri.

Nelle altre tendopoli ci fu pure un risveglio e nacquero comitati di tendopoli dappertutto. Capitani, colonnelli e commissari, scornati, non potevano più fare e sfare perché si vedeva un controllo popolare. Sempre cercavano di frenare, ma non potevano soffocare. Forse pure Taviani, ministro dell’Interno, gettò acqua sul fuoco fascista che scorre nelle vene di quelle gerarchie. Così cominciò subito a tramontare il sole delle dive in divisa. Ma ci fu un premio di consolazione. Ogni comandante di tendopoli fu avanzato di grado e perciò pure di stipendio. Capitani fatti colonnelli e colonnelli fatti generali. E, per giunta, tutti commendatori per mano di Saragat in persona, con tanto di parata in pompa magna.

Da qui nacque una grande attività di raccolta di informazioni, analisi e proposte. Queste vennero pubblicate sul primo numero uscito dopo il sisma del periodico del Centro Studi e Iniziative dal nome eloquente “Pianificazione Siciliana”****. In questa rivista viene presentata la situazione a pochi mesi dal sisma, ma si lancia anche il segnale del riavvio del “cantiere” del piano di sviluppo del Belice che di lì a poco verrà pubblicato, frutto del lavoro di 6 anni di animazione del territorio e del contributo dei Comitati Cittadini del Belice.

Fu grazie a questo impegno che la popolazione del Belice si recherà a Roma per portare le proprie richieste direttamente al governo e lì, come mi ha raccontato Barbera, verrà brutalmente caricata sotto lo sguardo dell’onorevole Bernardo Mattarella, più volte accusato di essere un mafioso da Danilo Dolci (ma allora i magistrati dicevano che non esisteva la Mafia e condannato finirà Dolci). Dopo le cariche e l’arresto di Barbera e di altri, la popolazione, grazie anche all’aiuto degli studenti romani, riuscirà a far rilasciare gli arrestati e a farli ricevere nel palazzo. A quel punto sorgerà un grave problema perché nei palazzi del governo serve la cravatta per entrare: vi immaginate i contadini terremotati del Belice nel 1968 quante cravatte potevano avere? A quel punto una signora anziana va a cercare un mercato e acquista a una bancarella una serie di cravatte che Barbera e altri indosseranno sopra le loro maglie. A quel punto la cravatta c’è ma gli uscieri contestano l’assenza della camicia e della giacca ma loro non si fanno spaventare facilmente e chiedono di vedere il regolamento e lì si menziona solo la cravatta: Avanti Popolo!

Così Tana la Giurana (la Rana) (pp. 52-53) spiega perché la legge approvata non piaceva e pensarono di scriverne una loro:

Ma a noi la legge non piaceva, perché è vero che diceva tante cose che noi volevamo, ma lasciava lupi e sciacalli arbitri della nostra sorte

Così recitava il comunicato del comitato delle popolazioni terremotate siciliane a conclusione della pressione di Piazza Montecitorio:

La pressione sul governo e sul parlamento delle popolazioni terremotate ha ottenuto:

La conversione in legge del decreto governativo sulla zona terremotata della Sicilia.

L’impegno del ministro Mancini di curare l’esclusione sistematica di ogni forma di presenza mafiosa dal processo di ricostruzione.

L’impegno del governo ad aumentare le somme predisposte con la legge votata il 5 marzo alla Camera dei deputati, qualora esse si rivelassero insufficienti.

L’aggiunta di 41 miliardi alla spesa prevista dal decreto governativo per la realizzazione di mille fabbricati rurali, dell’autostrada Punta Raisi – Mazara del Vallo e per una serie di provvidenze a favore degli artigiani e di altre categorie.

Incarico al comitato interministeriale per la programmazione economica di preparare il piano di sviluppo industriale per la zona terremotata da realizzare con somme da reperire al di fuori della legge ora votata.

Le somme che saranno reperite in sede di governo regionale non saranno sostitutive di quelle reperite a livello nazionale.

Il comitato delle popolazioni terremotate manifesta la sua condanna più decisa nei confronti del governo e di quelle forze presenti in parlamento che:

non hanno voluto sottoporre l’operato dell’amministrazione centrale nella zona terremotata al controllo delle popolazioni (amministrazioni comunali, comitati cittadini, assemblee popolari);

non hanno voluto fissare scadenze e responsabilità precise;

non hanno voluto dare organicità all’opera di ricostruzione e sviluppo, limitandosi fondamentalmente a interventi frammentari e di tipo assistenziale.

Queste gravi carenze facilitano l’inserimento di gruppi  e politici di tipo clientelare e mafioso nel processo di ricostruzione. D’altro canto un parlamento che ha affidato la responsabilità maggiore della stesura della legge a un parlamentare con pendenze presso la commissione antimafia non poteva varare una legge che garantisca la partecipazione attiva della popolazione al processo di ricostruzione e l’esclusione sistematica dei mafiosi, politici o impresari.

Pertanto tornando in Sicilia i partecipanti alla pressione di piazza Montecitori decidono di riprendere la loro azione.

Essenziale è stato il contributo alla pressione dato concretamente da enti, gruppi e singole persone di Roma e di altre città italiane, che hanno fornito i mezzi indispensabili per il viaggio da Palermo a Roma, per il vitto e per l’alloggio. Ne elenchiamo alcuni: la chiesa valdese di Roma, i ferrovieri romani, la galleria d’arte “La nuova pesa”, la scuola delle Frattocchie del PCI, la chiesa del Gesù, le suore domenicane, i tipografi de “Il Tempo”, il gruppo parlamentare comunista della camera, il gruppo parlamentare del Psu, il collegio Capranica, Il Gabbiano, l’ARCI.

Inoltre Carlo Levi, Cesare Zavattini, Pier Paolo Pasolini, Leonida Repaci, Nello Risi, Lucio Mandaré, Alberto Lattuada, Andrea Gaggero, Peppe De Santis, Ugo Pirro, Rosario Assunto, Lucio Lombardo Radice, ed altre centinaia di persone.

Il biglietto Palermo-Roma è stato pagato anche tramite il contributo di un gruppo milanese che fa capo ad Ans Deichmann, del comitato cittadino pro terremotati di Firenze, del comitato degli universitari torinesi, del gruppo dei valdesi di Vittoria, di un gruppo di Siena tramite Guido Frati, della lega delle cooperative siciliane.

È stato insostituibile l’aiuto di Salvatore Lerner, Giorgio Rambaldi, Biagio Pelligra, e di decine di altri volontari di Roma e di altre città, di cui non conosciamo nemmeno il nome.

8 marzo 1968

Questo ultimo brano con i ringraziamenti ci fa vedere cosa sarebbe potuta essere l’Italia, un Paese civile come diceva Dolci, un Paese che potrebbe non reggersi su leggi speciali (la prima fu del 1863 contro i Briganti!) ma quell’Italia che richiamò Calamandrei: “Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati.” Magari non guasta anche un giro in zone che hanno vissuto situazioni più limitate come nel Belice, un giro per i percorsi promossi dalle associazioni, tra cui il Cresm, un giro a vedere e a parlare con chi ha sognato, e continua a farlo, uno sviluppo realmente partecipato e dal basso.

*Barbato Renzo; Puliatti Maria; Micucci Marisa, 2007, Psicologia dell’emergenza. Manuale di intervento sulle crisi da eventi catastrofici, Edup

** De Masi, Signorelli, 1984, Sociologia del lavoro e delle organizzazioni, Franco Angeli

*** AAVV, 2006, Perché l’Italia diventi un paese civile. Palermo 1956: il processo a Danilo Dolci, L’ancora mediterranea

**** Questo numero è stato ripubblicato come allegato alla rivista del Cresm, Partecipare, in occasione del 40° anniversario. Chi fosse interessato può rivolgersi direttamente al Cresm. L’editoriale di quel numero, di una drammatica attualità, è leggibile a questo link.

Rom Vunner

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