BellaNapoli

di Gian Marco Martignoni

Se nel senso comune è consolidata una idea di Napoli come città decadente, caotica e “senz’anima”, come sostiene Serena Sorrentino nella prefazione a “BellaNapoli” di Vincenzo Moretti ( pagine 225 € 10,00 Ediesse), questa raccolta di “storie di lavoro, di passione e di rispetto” ha il pregio di restituirci una Napoli che non ci aspetteremmo, una Napoli che non ha perso assolutamente il treno della storia, a partire da una cultura e un’etica del lavoro che sono quanto sta più a cuore all’autore, non a caso sociologo dell’organizzazione all’università di Salerno e membro della Fondazione Di Vittorio.

Già, perché essendo associata a Napoli anche la cosiddetta “arte dell’arrangiarsi”, lavorativamente parlando, per via del ruolo giocato dalla camorra nell’economia informale e sommersa,queste dodici storie di vita, che hanno per protagonisti otto uomini e quattro donne, ci descrivono delle persone che nonostante tutte le avversità hanno forgiato un carattere che li eleva ad esempio nella loro unicità. “Eroi anonimi” come li definisce Cristina Zagaria nella post-fazione al libro.

Infatti, che Gabriele V. dei Quartieri Spagnoli faccia il barista e si esalti quando si sente dire “fai proprio un bel caffè”, o Antonio E. del Vomero, ingegnere costruttivo, dica “sono stato orgoglioso di portare anche la mia napoletanità all’interno dei processi direzionali del gruppo e nell’uso dei laboratori” a Tsukuba, la città della scienza giapponese che si è sviluppata mediante la contaminazione culturale, ciò che li accomuna è l’assoluta dedizione al lavoro, ovvero a quanto dà un senso alla vita, permettendo l’affermazione della dignità delle persone.

Perchè è una costante in tutti i racconti, oltre all’importanza dell’indipendenza economica e dell’autonomia  connesse alla prestazione lavorativa, la “ percezione del lavoro come realizzazione di se stessi, non come condanna o necessità”, come sottolinea Angelo M.  del quartiere dell’Arenella.

Mail lavoroè anche il prodotto di una fondamentale trasmissione del sapere tra generazioni, oltre ad essere generatore di relazioni intense e solidali che, quando si spezzano, producono reazioni di delusione e di dolore. “ Niente è stato più lo stesso “ afferma Salvatore D.D. del quartiere Materdei, poiché quando si rompe la solidarietà di fabbrica, la divisione operata dal padrone disintegra la possibilità di ribellarsi all’unisono.

Sicché la perdita del posto di lavoro viene così schernita: “ è statoil lavoroatradire me,  non io a tradireil lavoro”.

Ed è amarezza anche quella che trasuda dal vissuto sindacale di Pier Paolo R., del quartiere di Fuorigrotta, che ha proposito dell’incombere della precarietà sulle nuove generazioni, mentre quella di suo padre contestava addirittura il contratto di apprendistato,  si sfoga perché in CGIL gli                          hanno detto in una riunione che è poco moderno: “ che ci sta di moderno  in questo continuo arretramento “ prodotto anche dalla concertazione e non solo dall’ideologia della flessibilità infinita.

Che poiil lavoroconiughi fare e pensare, ovvero che contempli una certa “capacità visionaria degli uomini” – chè “mi domando se le persone si rendano conto di che cosa c’è in termini di idee, lavoro, scoperte, dietro le cose che usanoogni giorno” – è una suggestiva considerazione evidenziata sempre da Angelo M. a proposito di Guglielmo Marconi e l’idea della radio.

Infine, è un incanto l’ultimo racconto di Beppe D.V. , del quartiere Mergellina, incentrato sulla riscoperta e la valorizzazione della manualità, il sapere tacito ed il maestro che ti insegnava un’etica, unitamente ad un “ lavoro minuziosamente portato avanti con amore”.

Risuona in questo racconto la lezione tratta da “ L’uomo artigiano” del sociologo Richard Sennnett, ed è quanto mai edificante sapere che Vincenzo Moretti intende prossimamente raccontare l’Italia attraverso lacultura del lavoro, sollecitando centinaia di racconti di persone che quotidianamente amano ciò che fanno con tanto impegno e passione.

D’altronde,  per riprendere Barry Lopez, “ le storie che ci raccontiamo alla fine si prendono cura di noi”.

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Pabuda
Pabuda è Paolo Buffoni Damiani quando scrive versi compulsivi o storie brevi, quando ritaglia colori e compone collage o quando legge le sue cose accompagnato dalla musica de Les Enfants du Voudou. Si è solo inventato un acronimo tanto per distinguersi dal suo sosia. Quello che “fa cose turpi”… per campare. Tutta la roba scritta o disegnata dal Pabuda tramite collage è, ovviamente, nel magazzino www.pabuda.net

2 commenti

  • mi accorgo ora (sono qualche giabuda ha omessoorno in vacanza) che Pabuda ha omesso il nome del recensore, Gianmarco Martignoni. Forse un mio colpo di sonno nell’inviarglielo? (db)

  • non solo c’era l’omissione della firma (la recensione è di Gian Marco Martignoni) che ora è stata ripristinata ma nel mio frettoloso commento qui sopra il cursore si è messo a ballare senza autorizzazione. (db)

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