Bellocchio: li Mortara sua
Fabio Troncarelli torna sul film di Marco Bellocchio. Ma ragiona anche sullo sprezzante diniego della realtà in nome di princìpi astratti, sui falsi (e veri) rapimenti di bambini, sulla Repubblica Romana e su Baudelaire, su John Huston, Šostakóvič e Andromaca…
Riflessioni a partire dall’ultimo film di Marco Bellocchio
Il film «Rapito» non mi piace affatto. Direi che è molto peggio di quello che ho scritto in una recensione. A ripensarci trovo che è estremamente schematico e superficiale, sia sul piano cinematografico, sia sul piano storico e che le due cose vanno insieme perché la carenza dell’uno porta alla carenza dell’altro. Perché dico questo? Ma perché in questo film la storia non c’è. Punto e basta. E siccome la storia non c’è non ci sono neppure i personaggi, e non c’è un dramma ben articolato che si sviluppa attraverso scene interessanti e complesse. Nel film c’è solo cronaca. La cronaca di un fattaccio. Stop.
Mi devo spiegare meglio? Allora: il fattaccio comincia nel 1858 a Bologna e prosegue a Roma nel 1859. Nel 1859 scoppia la seconda guerra di indipendenza, l’Austria viene sconfitta e il Piemonte incamera non solo il Lombardo Veneto ma anche porzioni dello Stato Pontificio. Nel film questo lo sappiamo solo perché in una rapidissima sequenza si vedono degli scalmanati a Bologna che buttano giù la statua del papa. E il resto dov’è? E’ come se facessi vedere una borgata romana alla fine della seconda guerra mondiale e si sente alla radio una voce che dice che la guerra è finita e allora Anna Magnani esclama: “Meno male. Così la famo finita de fa’ le file e se po’ comprà er pane in pace.”.
Dico, ma scherziamo? E fosse solo questo. Nel film si vede il processo contro il cattivo Inquisitore che ha fatto sequestrare il piccolo Mortara. A parte che ci fu uno stato di tensione molto forte a Bologna e nel resto delle regioni liberate perché c’era una resistenza accanita da parte dei cattolici contro il nuovo regime con clima rovente – e questo non si percepisce – in ogni caso il legal thriller che viene messo in scena senza la minima allusione al contesto si svolge comunque nel 1860.
Dico 1860!
L’impresa dei Mille inizia subito dopo la conclusione fisica del processo, ma dura ancora mentre la sentenza finale viene scritta e pubblicata, permettendo a tutti di conoscere le motivazioni come avviene oggi nella Gazzetta Ufficiale. Nel film dei Mille non si parla. Non sto dicendo che si dovevano far vedere Garibaldi e i suoi all’attacco. Sto solo dicendo che, forse, nell’aria c’era una qualche vaghissima eco di quello che stava succedendo. E allora forse una piccola allusione non ci sarebbe stata male. O no? C’era solo il caso Mortara e per il resto tutti zitti e mosca? Altro esempio. Il film parla e straparla del papa, il cattivissimo Pio IX. Ma la curia pontificia dove sta? Intorno a lui c’erano personaggi tremendi: ma nel film dove stanno? Vediamo solo, per pochissimo, il cardinal Antonelli che bofonchia qualche cosa. E basta. A parte che non si capisce che Antonelli, anche se cardinale era un laico mefistofelico e non un prete, in ogni caso questo piccolo Richelieu, nel film diventa una figuretta da due soldi.
E’ come se parlassimo del ’68 (o del ’77) ed eliminassimo Andreotti perché mica c’era lui in piazza.
A parte questo: non c’era nessun altro accanto ad Antonelli? Non c’erano gente come De Merode, il padre Bresciani, esponenti di quella nobiltà che diverrà in seguito la “nobiltà nera” etc. etc. etc.? E gli ambasciatori dei vari paesi, che facevano tutti la loro parte, molto spesso in modo occulto e scorretto, cercando di influenzare il papa in molti modi… Dove sono? Come dire che se faccio un film sul ’68 e i giovani universitari di allora è inutile parlare della Cia, dei servizi segreti deviati, dell’Urss etc. etc. etc. Loro mica andavano in piazza a protestare. Perciò che c’entrano coi giovani universitari? Con lo stesso ragionamento si può dire che è inutile rappresentare il popolo di Roma di allora. E anche accennare alle grandi potenze che si muovevano in quegli anni? Qua e là se ne parla nel film. Come vaghi rumori di fondo. Come dire – insisto – che durante il ’68 c’erano gli Agnelli, la Confindustria e tutto il resto, ma non andavano in piazza a protestare: basta nominarli e siamo a posto.
Il film mostra un episodio avvenuto l’11 marzo 1868, anche se da quello che si vede non si capisce la data: il piccolo Mortara viene costretto a fare un’umiliante penitenza dal papa in persona. Ora, questo episodio mostra lo strapotere umiliante del papa nei confronti del piccolo Mortara, ancora in piedi nonostante tutto quello che era successo poco prima. Ma quello che era successo prima dove sta? Parlo di bazzecole avvenute pochi mesi prima, come il tentativo di Garibaldi di entrare nello Stato Pontificio, la battaglia di Mentana, i fratelli Cairoli a Villa Glori, Giuditta Tavani Arquati etc. etc. etc. Non parliamo poi del ricordo della Repubblica Romana! Ma davvero tutto questo non esisteva più (la Tavani Arquati dimostra il contrario) allora? Davvero l’unica cosa degna di attenzione, in una bolla d’aria fuori del mondo, è la punizione al piccolo Mortara? Si dirà: il film si concentra sul caso Mortara e lascia il resto fuori della porta. Il regista deve essere libero di fare come gli pare.
Ok.
E allora, veniamo a Mortara. L’evoluzione del piccolo Mortara da ebreo a prete cattolico dove sta? Come viene mostrata? Attraverso quali colloqui, quali episodi, quali riflessioni? Zero, zero, carbonella. Come hanno detto tutti, dagli autori dell’opera ai critici, la conversione di Mortara è un “enigma” che il film lascia così com’è. Bella roba. Allora è stato un cretino Shakespeare a perdere tempo per rappresentare l’evoluzione di Macbeth da genio del male ad allucinato e sconvolto perdente. E cretino Verdi a perdere tempo con Lady Macbeth, che diventa folle dopo essere stata la regina del male. Che stupidi! Bastava che avessero detto agli spettatori: “cari miei è un bell’enigma quello che è successo. Che cavolo volete?”. E quanto a Freud, che si è inventato la teoria del “delinquente per senso di colpa” citando proprio il caso di Macbeth, che stupido a perdere tempo con simili speculazioni! Bastava che dicesse ai suoi pazienti: “ma lo sapete che roba del genere è un bell’enigma! Quasi quasi vi mollo e vado a cercare funghi che è meglio!”.
Detto questo, per me siamo solo al prologo. Già perché a me di quello che ho appena detto non m’importa molto. L’ho detto solo per protestare con quelli che dicono che il film è un capolavoro: parlano e straparlano senza capire niente. Però, il problema vero per me è un altro.
Pure se il film fosse un capolavoro, io sento che dietro al film e dietro a tanti commenti che ho letto c’è una terrificante mentalità, del tutto simmetrica alla terrificante follia che siamo costretti a vivere tutti i giorni. Le persone mostrano uno sprezzante DINIEGO della realtà in nome di princìpi astratti, che a dire la verità sono discutibili perfino come astratti, ma che in ogni caso risultano ipocriti, folli, deliranti se mettiamo i piedi per terra e la facciamo finita coi deliri di onnipotenza. Io trovo pazzesco che si versino lacrime di fronte a ogni cosa che scuote un liberale illuminato e invece che non faccia più notizia il fatto che ogni giorno muoiono bambini per colpa di guerre assurde o che ci siano esseri umani, tra cui bambini, che annegano in mare perché vengono abbandonati al loro destino. Che ci frega di loro? Mica sono stati “rapiti” loro. Gli è solo stato tolto tutto quello che avevano e alla fine la vita stessa. Che vuoi che sia?
Passiamo ad un’altra sfera. I commenti alla vicenda Mortara sono di due tipi: i sedicenti laici non cattolici dicono: “Orrore orrore!”. E i cattolici reazionari: “è stato comunque un bene, infatti in seguito il piccolo Mortara è divenuto prete e ha lodato Pio IX in un suo diario pieno di pensieri edificanti”.
Vediamo di capirci. I due commenti che sembrano opposti sono due facce della stessa medaglia.
Chi versa lacrime di coccodrillo su un problema di cento anni fa e se ne frega del presente è uguale a chi dice che va sempre tutto bene pure quando tutto va male: tutti e due sono ipocriti che mettono l’immondizia sotto il tappeto e fanno finta di niente.
Cominciamo da chi dice che è un orrore rapire un bambino in nome di una fede religiosa. E’ vero. Ma che cosa diciamo di fronte a chi toglie i figli ai genitori per qualunque altra ragione? Ai giorni d’oggi succede spesso che un bambino venga sottratto ai genitori perché un giudice deficiente istigato da un sedicente psicologo “accattone” decide che non può stare coi genitori indegni e immorali perciò deve andare in un istituto anonimo e impersonale. C’è mai qualcuno dello schieramento dei “laici” che si commuove? Non mi pare proprio. E fosse solo questo. Se può interessarvi ci sono anche persone che hanno tentato il suicidio e di conseguenza (!) hanno perso la patria potestà sui figli minori. Non mi pare di avere visto in questi casi qualche giornalista del fronte “laico” pronto a scrivere un articolo. Di aberrazioni giuridiche dello stesso tipo, ce ne sono tante, ma non fanno notizia.
Quanto ai cattolici che dicono: “il piccolo ebreo si è convertito quindi tutto va bene” , come fanno ad accettare qualunque cosa avvenga, senza pensare al trauma iniziale da cui è scaturita? Davvero una conversione estorta a un bambino è uguale a una conversione da adulto? Ma davvero una prassi contraddittoria come quella del battesimo in articulo mortis, dato senza testimoni, può essere considerata valida? Se questo è vero allora perché la Chiesa per secoli non ha valutato questo fenomeno sempre allo stesso modo e ha oscillato in molti modi?
E pur restando dentro le regole discutibili del caso Mortara, perché tutti hanno creduto che la domestica dei Mortara avesse detto la verità? E’ vero che aveva battezzato il bambino? Chi ce lo dice? Lei? Le sue amiche? L’Inquisitore. Ha, ha, ha! Con questo sistema posso dire di avere battezzato il rabbino capo mentre dormiva e lui non se ne è accorto. Qualcuno cercò di dire che la testimonianza della domestica era una balla, ma venne messo a tacere. Perché?
La verità è che tutta questa storiaccia era solo un fatto politico. Il papa era rimasto incastrato in un impiccio (innocente?) da cui non sapeva come uscire, senza perdere la faccia, in un momento difficilissimo per la Chiesa cattolica. Lo ha detto tanto bene l’ambasciatore piemontese a Parigi in una lettera a Cavour, che lo aveva saputo direttamente dalla corona francese. Il 21 novembre 1858 il marchese Stefano Pes di Valmarina scriveva al suo superiore: «Il papa è stato molto afflitto da questo incidente, di cui è profondamente dispiaciuto e che avrebbe voluto evitare con tutte le sue forze. E’ nato tutto dallo zelo esagerato e imprudente del vescovo di Bologna, il cardinal Viale-Prelà [pazzo ultrareazionario, amicissimo di Metternich: Nota mia], ma adesso che le cose sono successe non c’è modo di tornare indietro e di disfare quello che secondo la lettera delle istituzioni è costretto a far eseguire» (C. Cavour, Carteggi, Il carteggio Cavour -Nigra, I, Bologna 1926, p. 206). Il papa non poteva smentire il vescovo di Bologna, amico di Metternich, che aveva il merito di aver concluso da poco con l’Austria il Concordato, favorevolissimo alla Chiesa. E poi, anche se Metternich ormai era fuori gioco, era stato grazie alla sua amicizia e all’ influenza dell’Austria che i grandi banchieri ebrei Rothschild avevano dato generosissimi prestiti alla Chiesa, come quello di 120 milioni di lire di allora, concesso al papa a Gaeta mentre c’era la Repubblica Romana e la sorte del papato sembrava segnata. Nel 1858, cioè quando ormai l’Austria stava per entrare in guerra con l’Italia e la Francia, darle uno schiaffo – dandolo al vescovo di Bologna che era stato nunzio per dieci anni a Vienna – significava prendere le parti dei nemici dell’Austria e far saltare il Concordato, a parte tutte le altre conseguenze possibili. Dopo, è logico che la situazione sia precipitata e che il papa ha finito con assumere la maschera di sé stesso, diventando più realista del re, anche perché, come tutti sanno, aveva avuto una terribile involuzione a partire dalla sua fuga a Gaeta e non era certo nelle condizioni di resistere ai fantasmi che aveva evocato.
Il caso Mortara è nato in questo contesto: la storia generale non è estranea alla vicenda del singolo e non può essere ignorata.
A dire la verità, ho l’impressione che non sia solo la Storia con la maiuscola ad essere ignorata, ma anche quella con la minuscola. Nessuno si occupa veramente del piccolo Mortara così come nessuno si occupa veramente della storia collettiva. Nessuno si occupa della realtà. Tutti tirano dalla loro parte il povero Edgardo, ma non si interessano a lui come individuo. Mortara e’ solo un caso esemplare, da sbandierare in una polemica. Non è un essere umano. Non importa che cosa abbia veramente provato e sentito. Importa solo quello che gli altri gli attribuiscono. Lui è il Rapito con la “R” maiuscola: deve provare solo sentimenti precotti e deve essere un burattino in una vicenda preconfezionata. Non è un essere umano. E’ un caso da manuale.
La cosa viene ribadita con vigore da quelli che dicono che il piccolo Mortara è stato “indottrinato” e che ha sviluppato una «sindrome di Stoccolma» nei confronti dei suoi rapitori. Hanno ragione loro? Ma manco per sogno. Quando si parla di indottrinamento e “manipolazione della psiche” bisognerebbe essere estremamente cauti. E’ con questo genere di ragionamenti che è stato condannato Aldo Braibanti e sono stati perseguitati i sedicenti comunisti che volevano “indottrinare” le giovani menti di cui si impadronivano. Come si può parlare di «sindrome di Stoccolma» in un caso del genere? Ammesso e non concesso che questa formula giornalistica, non riconosciuta da alcun manuale di psichiatria, corrisponda a realtà, in ogni caso se ne può parlare di fronte a un episodio violento improvviso e di breve durata, come nel sequestro di un ostaggio che dura un tempo limitato. Come si può dire lo stesso se la situazione drammatica si protrae per anni e non dipende da una sola persona minacciosa, ma da un complesso di cose? Questa condizione ce la descrivono molti diari di bambini ebrei costretti per anni a vivere insieme a famiglie cristiane per sfuggire alle SS e obbligati a comportarsi come cristiani (alcuni addirittura battezzati, altri no). I bambini non esprimono solo il terrore di essere scoperti. Esprimono invece, spesso (è naturale), la gratitudine e l’affetto nei confronti di coloro che li proteggono anche a rischio della vita. Perché dovremmo definire questa una “sindrome di Stoccolma”? Che cosa c’entra la sudditanza psicologica con un aggressore con la gratitudine nei confronti di qualcuno che ci salva, rischiando di morire per noi?
Fosse solo questo. I bambini e gli adolescenti esprimono tutto un mondo di affetti, di contraddizioni, di slanci, sottolineando le difficoltà e perfino a volte ambiguità di presunti protettori o correligionari, in conflitto con l’eroismo di altri che invece non hanno paura e svolgono il loro compito di protettori eroicamente. Tutto questo è una “sindrome” di qualche cosa? O è solo spontaneità? (si veda solo per avere un’idea Alexandra Zapruder, I diari dell’Olocausto. I racconti e le memorie inedite delle giovani vittime delle persecuzioni naziste, Roma, Newton Compton, 2018, ma ci sono moltissimi altri testi e moltissimi altri diari oltre a quelli esaminati nel libro).
So bene che si potrebbe sollevare questa obiezione: i cattolici che proteggevano gli ebrei li proteggevano veramente, ma la Chiesa di Pio IX non proteggeva affatto Edgardo Mortara! Questo non è vero. Pio IX e la Chiesa che presiedeva avevano idee molto forti e precise, a cui obbedivano. Non a caso egli è stato il papa del Sillabo che ha condannato le idee più liberali e democratiche del suo tempo. Il fatto che questa condanna non sia giusta per noi, non ci dà il diritto di disprezzarlo. Io non sono per niente un partigiano di Pio IX e non sono d’accordo con le sue convinzioni; però, dal suo punto di vista, lui e gli altri come lui pensavano che i cristiani dovessero essere “salvati” da persecuzioni peggiori di quelle dei nazisti. Se non comprendiamo questo aspetto, ci facciamo solo un’idea grottesca e caricaturale delle cose. Il papa era a capo di una Chiesa integralista e ferocemente nemica del mondo moderno. Non era solo un pazzoide, spaventato di perdere il potere temporale. Agiva in nome di idee che per noi sono difficili da accettare, ma erano largamente accettate da altri. Se il film non fosse stato così povero di riferimenti storici, lo si sarebbe potuto capire. E’ un peccato che nel film non si parli di padre Bresciani che aveva inventato l’idea dell’Ebreo di Verona, convertito e redento, martire dei carbonari-mazziniani seguaci del demonio. La Chiesa di Pio IX credeva fermamente a questo ideale e lo proponeva-imponeva al piccolo Mortara come un rimedio per salvarsi. Era un’idea sbagliata? Né più, né meno di quella di altri capi di teocrazie o leader religiosi, che pensavano fosse giusto fare lo stesso nei confronti dei loro sudditi, come lo Zar Alessandro II, che disse brutalmente all’inviato del papa il 25 settembre 1856: «Se c’è una legge che non cambierò mai è quella che impone ai bambini nati da matrimoni misti di essere educati nella religione ortodossa!» (G. Martina, Pio IX, III, Roma 1986, p. 525).
D’altro canto, se questo è vero, è altrettanto vero che non sempre l’integralismo trionfava, anche nei confronti degli ebrei, come mostrano tanti studi, a cominciare da quello molto esauriente di Riccardo Calimani (Storia degli ebrei italiani, III, Milano 2015). Non è dunque facile districarsi in un labirinto di situazioni diverse, senza considerare la storia delle diverse comunità ebraiche, dei differenti Stati che formavano l’Italia e dei diversi capi di questi micro-stati, che attuavano diverse politiche in diversi momenti storici.
Insomma l’ultima delle cose da fare è gridare e fare polemica, senza analizzare la realtà, aumentando la confusione con l’isteria. Invece è proprio quello che succede in un mondo folle come quello in cui viviamo. Il pericolo vero del nostro tempo è che ci sia un totale accecamento nei confronti di una situazione problematica e confusa. Che ci sia una ricerca del capro espiatorio, della origine del male, del cancro di cui dobbiamo liberarci per essere di nuovo felici e beati come una volta, nella mitica età dell’oro che non è mai esistita al di fuori della nostra immaginazione.
Quindi fanno bene quelli che rapiscono i bambini? Ma per carità di dio (appunto) o di chi volete. Piantatela di cercare sempre e solo formulette schematiche, dogmi, catechismi, etichette. Qui nessuno fa bene niente. Siamo impantanati fino al collo in una serie di contraddizioni. Se vogliamo uscire dalle sabbie mobili dobbiamo smettere di fare casino, di agitarci e invece muoverci con cautela, aggrappandoci a qualche ramo, perché altrimenti è peggio e andiamo veramente a fondo.
Facciamo qualche esempio. Il tema del “rapimento” non è nuovo nella nostra cultura: nel Medioevo si pensava che fossero le streghe o magari gli ebrei e gli zingari a rapire i bambini. Nel mondo moderno hanno inventato altri rapitori: quelli che si impadroniscono della mente dei giovani, come i comunisti o gli omosessuali o i seguaci di tutte le sette politiche e religiose che non rispondono alle norme (correnti) del vivere cosiddetto civile. In questa ridda di accuse e di paranoie si dimentica sempre che la mente umana non è una tabula rasa su cui ciascuno può incidere quello che vuole. Se fosse vero sarebbe facile avere un mondo di persone buone: basterebbe insegnare a tutti le buone maniere e tutti sarebbero convinti.
Gli esseri umani sono fragili, incerti, complessi. E reagiscono in mille modi alle difficoltà dell’esistenza, mettendo in crisi le nostre false sicurezze e le idee precostituite in cui credono fermamente ideologie laiche e confessioni religiose. Per questo è inutile strillare a perdifiato sgolandosi come aquile. Vorrei fare un altro esempio: per carità è solo un esempio che mi pare interessante, non è un nuovo dogma, un nuovo partito, una nuova corrente minoritaria. E’ solo una piccola, banale riflessione a partire da un piccolo, banale esempio. Uno dei pochi che conosco. Un film di John Huston che si chiama Gli inesorabili (The unforgiven), E’ uscito nel 1960 ed è stato tratto da un romanzo del 1957, di Alan Le May. E’ lo stesso autore del romanzo da cui deriva il film Sentieri selvaggi di John Ford e tratta un argomento simile, che allora era molto attuale, nell’epoca dei terrori del “lavaggio del cervello” e dei comunisti in agguato pronti a carpire la mente dei fanciulli come una volta faceva il demonio. Il film racconta la storia di Rachel, una ragazza che vive presso gli Zachary nel West e crede di essere un’orfana abbandonata, l’unica sopravvissuta allo sterminio della famiglia di origine. Invece è un’indiana ed è stata adottata da uno dei bianchi che avevano partecipato alla strage degli uomini e delle donne della sua tribù. Gli anni sono volati; la ragazza è diventata un fiore (è Audrey Hepburn!): è dolce, gentile, buona ed allegra ed è segretamente innamorata del giovane Ben che guida la famiglia dopo la morte del padre (Burt Lancaster). Nessuno ha mai rivelato a Rachel il segreto della sua origine: tutto è sempre andato bene e potrebbe continuare benissimo. Sulla sua storia terribile gli Zachary hanno messo una pietra sopra. Tutti hanno voltato pagina e la ragazza è stata aiutata a crescere e a vivere. Ma all’improvviso emerge dal passato un vecchio pazzo che perseguita gli Zachary. L’uomo conosce il segreto di Rachel e lo urla ai quattro venti. Ed ecco che tutto cambia. Tutti gli amici dei Zachary, i bianchi di pura razza anglosassone o di altre origini europee, non vogliono sapere più niente di questa famiglia scombinata. E non vogliono nella loro società una ragazza “impura”. Quanto agli indiani, i Kiowa, che per vent’anni non hanno detto nulla, adesso che sanno che una di loro è in mano ai “visi pallidi” non si frenano più. Pretendono di riavere la ragazza, di lavare l’onta, di cancellare il suo passato “impuro” e riportarla alla sua identità tribale. Il capo è suo fratello e non può tollerare che un membro della sua famiglia viva fuori della tribù. Perfino tra i fratelli Zachary si scatena il putiferio: uno dei fratelli, Catch, va via disgustato, rinnegando la famiglia che difende una “sporca indiana”. Gli Zachary restano soli, ma ancora più sola e disperata è Rachel che non sa più chi è e che cosa fare. Ci penserà Ben a difenderla, sorretto da una stupenda madre, una magnifica Lilian Gish (la grande diva del muto) che fa piazzare il suo pianoforte in mezzo alla prateria e sfida gli indiani, suonando musica classica, con la stessa energia con la quale il grande Šostakóvič compose e fece suonare nell’agosto del 1942 la Settima Sinfonia durante l’assedio di Leningrado. I bombardamenti sopra la città non si placarono nemmeno per un minuto, ma la luce dell’edificio della Filarmonica non venne spenta e l’intera Leningrado ascoltò la sinfonia.
Gli indiani attaccano gli Zachary che si difendono con le unghie e coi denti, aiutati perfino da Catch che si è pentito e torna indietro per farsi ammazzare. La loro sorte sembra segnata. Ma ecco, che avviene l’imprevisto. Rachel, la ragazza tanto mite, quasi senza volere, uccide il suo fratello di sangue, il capo degli indiani che sta per uccidere, a sua volta, il suo fratellastro. Gli indiani allora smettono di combattere e se ne vanno. Lasciano in pace i poveri Zachary, liberi di affrontare la vita come vogliono. La scena drammatica ha un valore simbolico. Contro i legami di sangue, contro ogni razza e ogni razzismo, sono i legami dell’affetto che vincono. Vincono i bastardi. Contro chi è puro, contro l’ossessione per la purezza.
Questa vittoria, nella vita vera, non porta mai a un happy end come nei film. Non porta a una fine ma ad un inizio, pieno di rischi e di difficoltà, nel quale le ansie, lo smarrimento, l’incertezza si sommano al desiderio di vivere, di crescere, di costruire.
Cosa voglio dire? Ma scopritelo da soli, voi che cercate solo slogan, dogmi e catechismi! Scoprite almeno per una volta quante lacrime costa andare avanti con il pessimismo dell’intelligenza e l’ottimismo della volontà. Scoprite per una volta che significa non avere sicurezze e sentirsi perduti. E se non ce la fate, aiutatevi leggendo Baudelaire. Ve lo ricordate? Un anno prima del caso Mortara, lo stesso anno in cui gli inglesi che arricciavano tanto il naso contro la barbarie dei cattolici italiani – però invadevano l’India, umiliavano, uccidevano, distruggevano solo per il gusto di prendersi il tè davanti al Taj Mahal – altri buoni borghesi distruggevano in Francia la reputazione del più grande poeta di allora e condannavano in tribunale i suoi Fiori del Male cioè le sue poesie impure, bastarde, indegne del mondo degli esseri civili che non potevano essere distratti da occupazioni serie, come ad esempio la conquista dell’Algeria che terminava proprio quell’anno. Fra le poesie che dovevano essere bandite dal consesso degli esseri civili ce n’era una che parlava con accenti commossi di una donna che era stata “rapita” ai suoi affetti, alla sua casa, una che somiglia a Rachel Zachary: la famosa Andromaca, la moglie di Ettore e del piccolo Astianatte, resi immortali da Omero, che il feroce Pirro trascinò lontana da Troia, felice di umiliarla, senza rendersi conto di renderla altrettanto immortale e di consegnare la sua fama a poeti e musicisti che avrebbero ricordato per secoli la sua nobiltà d’animo e la violenza bestiale del suo mostruoso padrone. Leggete la poesia di Baudelaire che comincia “Andromaque, je pense a vous..” e ricordatevela con l’amaro in bocca e le lacrime agli occhi, come succede quando si vive una vita autentica, non un’esistenza falsa e vuota, in quel mondo miserabile fatto per l’uomo che non deve chiedere mai perché ha tutto subito. L’uomo che – come dicono gli psicoanalisti – cerca solo il trionfo maniacale, l’unica gratificazione possibile di una psiche profondamente malata, incapace di tollerare la frustrazione e il senso del limite.
Di fronte a questa disperata coazione alla rimozione vi sarà sempre un Baudelaire disposto a dare voce al turbamento di Andromaca ingiustamente schiava del brutale Pirro; a evocare la ferocia di una città che cambia più veloce del cuore di un mortale e dire, come fa il poeta:
Penso alla negra, per la tisi magra,
con l’occhio cupo e il fango sporco ai piedi,
che dietro il muro immenso della nebbia
cerca le palme e l’Africa perduta
e a chi ha smarrito ciò che mai ritrova,
mai, mai, mai più! Chi con il pianto placa
la sete e col Dolore, come latte
di lupa, orfano scarno, fiore secco.
Così nascosto dentro il bosco il cuore
si esilia ed un Ricordo antico il corno
suona, suona! Ed ai vinti, ai prigionieri
ai marinai su un’isola deserta
penso … E a tanti altri… Tanti altri ancora!
LA PRIMA IMMAGINE è del film di Bellocchio.
La seconda è ripresa da Wikipedia.
Nell’ultima c’è Il rapimento di Edgardo Mortara, dipinto da Moritz Daniel Oppenheim nel 1862.
Il «Mortara suo» del titolo e l’espressione «zero zero carbonella» sono tipicamente romanesche e forse non immediatamente comprensibili altrove. Ma che volete farci? Fabio è nato e vissuto a Roma.
Sul rapimento cfr Scor-data: 23 giugno 1858; sul film vedi Rapito – Marco Bellocchio con il diverso parere di Francesco Masala.
Li mortacci loro. Già da tempo Bellocchio non mi convinceva, ora men che mai. Dovrei vedere il film, forse lo farò tra qualche anno. Intanto già la lunga e minuziosa analisi di Troncarelli non può che metterci in allarme sugli “innumerevoli capolavori” che cinema e letteratura nostrana sfornano a piè spinto.
Maxi-articolone, di non facile digeribilità ma utilissimo per collocare i personaggi del film (che non ho visto e che, istintivamente, non mi attira) nel loro tempo culturale e sociale. Insomma, la Storia é un mosaico di storie
diversi pareri (sia in “bottega” che altrove) sul film di Bellocchio.
su “Alias” – inserto de “il manifesto” di oggi – grandi lodi.
Invece qui tutt’altra visione: https://artslife.com/2023/05/28/la-bussola-di-ago-marco-bellocchio-rapito-dal-melo-televisivo/
Non posso aggiungere per ora il mio mugugno (devo prima vedere il film) ma vedo che molte persone si turbano per il conformismo cinematografico come per l’apoteosi cinica e smemorata (altroche CANCEL CULTURE) ai funerali del beato Silvio da Arcore, patrono delle pie frodi e delle logge segrete.
Ho un ricordo personale del “giovane” Bellocchio già permaloso: mi permisi (secoli fa su una rivista che si chiamava “Muzak) di criticare il film “Marcia Trionfale” da un punto di vista politico; il regista mi scrisse come se fossi stato un discolo… senza rispondere nel merito ovviamente.