Benotto, Carofiglio, Deen, Hagemann, Jablonski, Sheldrake e Tesson

7 recensioni di Valerio Calzolaio

Mathijs Deen

«Per antiche strade. Un viaggio nella storia d’Europa»

traduzione di Elisabetta Svaluto Moreolo

Iperborea

Europa. Dai primi umani in avanti. Qualsiasi cosa possiamo immaginare è già accaduta una volta. Molto prima che i primi viaggiatori calcassero il suolo dell’Europa, il mare aveva già deposto naufraghi sulle sue spiagge: cacciatori che abitavano sulla costa settentrionale dell’Africa quando l’uomo (sapiens) non aveva ancora messo piede nel nostro continente. Dalle parti di Gibilterra uomini e donne erectus già vedevano uccelli migratori volare da una riva all’altra. Il primo gruppo di viaggiatori che raggiunsero poi vivi la costa arrivarono via terra, a piedi, da est, lungo il litorale. Non avevano fretta. Non avevano una meta. Chi viaggia attraverso l’Europa viaggia sempre sulle orme di qualcun altro. Sotto ogni impronta ce n‘è una precedente. Vale pure per i paesi del nord. Nel suolo protopaleolitico del Norfolk recenti tracce di antiche impronte di piedi umani hanno consentito di retrodatare i più antichi insediamenti umani in Inghilterra. C’è la questione dei precursori, Homo antecessor, arrivati forse oltre 800.000 anni fa. Homo heidelbergensis si aggirava per l’Europa già 600.000 anni fa. Tracce successive sono state, inoltre, lasciate dai Neanderthal, soprattutto nel sud. Tutti gli europei, se andiamo abbastanza a ritroso nel tempo, sono arrivati da altri luoghi, in genere da originari ecosistemi umani africani. Tutte le specie prima della nostra, tutti i gruppi di ogni specie, tutti i gruppi delle specie mescolatesi. E tutti i nuovi gruppi formatisi si sono rimessi in viaggio, prima o poi, spesso senza obiettivi o punti d’arrivo prefissati. Fu il bisogno di cibo a insegnare loro a viaggiare, le prede in fuga indicarono la via. Grazie alla loro abilità di corridori sono sopravvissuti. Le strade erano le tracce, il mondo un orizzonte che si allargava via via e oltre il quale si nascondeva la loro preda. Il viaggio e il tempo li hanno trasformati in altri uomini (e donne): nuove generazioni, nuove specie, nuove fisionomie, nuove culture, nuovi incroci (fino a diventare tutti meticci).

Lo scrittore e giornalista olandese Mathijs Deen (Hengelo, 1962) narra bene la storia e le storie, con stile aulico e densità documentaria. La lettura scorre piacevole e si impara molto camminando con lui. In questo ottimo romanzo di no fiction l’indispensabile punto di partenza è che le strade europee di ieri, di oggi e di domani coincidono più o meno con le vie battute dai primi pionieri umani, alcune specie del genere Homo fino alla nostra, unica rimasta da circa 40.000 anni. L’autore usa la prima persona con spunti autobiografici e taglio di reportage, cosa ricorda, chi incontra, quanto apprende. Il corposo volume è dedicato al padre, Willem, «l’uomo al volante» che nel 1968 , lungo i cento chilometri verso la casa dei nonni, gli descrisse la E8 come la strada che va da Londra a Mosca, anche se poi l’ufficio di Ginevra delle strade europee gli assegnò la nuova denominazione E30, capace di coprire metà del percorso transcontinentale tra Oceano Atlantico e Oceano Pacifico. Deen visitò quell’ufficio nel 2015, verificò che esiste una rete interconnessa di strade europee regolata a livello centrale, che college territori di clan confinanti, partner commerciali, amici temporanei, nemici giurati e famiglie linguistiche; operativa da migliaia di anni; battuta da migrazioni, commerci e conquiste, pur non appartenendo a una coscienza europea condivisa. I primi tracciati si profilavano sulla carta secondo un disegno logico e visionario, seguivano quasi tutti le antiche vie romane. Così ha studiato, viaggiato, interrogato e connesso, alla ricerca dei principali sentieri e squarci percorsi nel tempo da migranti, mercanti e conquistatori. Ne è uscito un libro affascinante, distinto in otto capitoli. Dopo il primo “precursore” europeo, seguono: il profugo ovvero Il calderone di Obelix, Elba-Danubio (101 a.C.); il brigante ovvero Bulla Felix, Bisanzio-Roma (207 d.C.); il pellegrino, Lougarbrekka-Roma (1025); il cercatore di fortuna, Portogallo-Amsterdam-Stoccolma (1653); il conquistatore, Wassenaar-Smolensk (1812); il corridore, Parigi-Vienna (1902); il figliol prodigo, Leida-Aounour (2016), la realtà, Boekelo-Leersum (2017).

 

Albrecht Hagemann

«Breve storia del Sudafrica»

traduzione di Biagio Forino

Il Mulino

166 pagine, 14 euro 14

Africa meridionale. Fino ai giorni nostri. Le erette specie umane provengono dal continente nero. Anche Homo sapiens. Tutti noi. E fra le culle dell’umanità vi è quella che oggi si chiama la Repubblica del Sudafrica, circa quattro volte la superficie e quasi la stessa popolazione dell’Italia. Lo storico tedesco Albrecht Hagemann (Detmold, 1954) con “Breve storia del Sudafrica” offre un testo chiaro, aggiornato e utile. Inizia riferendosi a milioni di anni fa, presta attenzione ai raccoglitori cacciatori boscimani, capiamo di più su bantu, san, khoikhoi, khoisan e poi sui gruppi di comunità locali ai tempi delle prime colonizzazioni europee. I “meticci” erano allora la mescolanza di aborigeni sudafricani e schiavi di pelle scura, poi durante l’apartheid hanno designato ogni incrocio, ogni coloured. Illustra le migrazioni interne, la sconfitta del potere nero e il consolidamento della dominanza bianca, il lungo cammino verso la libertà e la democrazia, Mandela e i successivi Presidenti.

 

Sylvain Tesson

«La pantera delle nevi»

traduzione di Roberta Ferrara

Sellerio

178 pagine, 15 euro

Tibet. Qualche anno fa. Durante la proiezione del film sul lupo abissino, il giornalista e grande viaggiatore Sylvain Tesson (Parigi, 1972) incontra il regista e fotografo Vincent Munier e decidono di andare insieme ad avvistare un animale che vive sugli altipiani a nord del Tibet, “La pantera delle nevi”, Panthera uncia, accompagnati da Marie, compagna cineasta di Munier, e Léo, aiutante di campo e filosofo. Tesson era già noto come narratore giramondo di solidi princìpi: l’imprevisto non si presenta mai spontaneamente, bisogna andare a cercarlo dappertutto; il movimento stimola l’ispirazione; la noia corre meno velocemente di un uomo che ha fretta. Il volume racconta in prima persona la loro splendida toccante avventura, il lento avvicinamento, il “sagrato” lassù nella gelida montagna, l’apparizione infine. La Terra è un museo ma Homo sapiens non ne è il custode, anzi inquina, distrugge, estingue ecosistemi e specie (altre). Il libro ha vinto il Prix Renaudot del 2019.

 

Nina G. Jablonski

«Colore vivo. Il significato biologico e sociale del colore della pelle»

Bollati Boringhieri

Ecosistemi umani. Dal principio. La pelle è il punto di incontro fra biologia ed esperienza quotidiana, un prodotto dell’evoluzione percepito nel contesto della cultura. Le sue proprietà, compreso il suo colore, influenzano anche la salute. La nostra pelle rivela l’azione combinata delle principali forze dell’evoluzione: le mutazioni che forniscono le basi per la variazione, la selezione naturale e gli altri meccanismi genetici che ne hanno causato i cambiamenti quando gli esseri umani hanno iniziato a migrare per il mondo. Chiara o scura, ha avuto e ha molte funzioni comunicative e sfumature di significato. Occorre studiarne bene l’origine anatomica, comparare e dibattere, poi valutare come la sua percezione condiziona le nostre vite di ogni giorno e adattarci consapevolmente. Infatti siamo ancora oggi carichi dei pregiudizi instillati nelle nostre menti molti secoli fa: il colore della pelle è stata la principale caratteristica usata per incasellare le persone in “razze” diverse e produrre ideologie razziste. L’associazione del colore con il carattere, così come la classificazione delle persone secondo il colore, sono la più grande fallacia logica compiuta dall’umanità e un potente inganno sociale. Benché largamente riconosciute come pericolose, le gerarchie razziali sono ancora considerate da qualcuno come “fatti di natura” e puntualmente sostenute e promosse. Meglio andare alla radice, or dunque: comprendere tutti i diversi significati del colore della pelle potrebbe aiutarci, come specie, ad andare oltre alla carnagione come valore umano e vedere questa caratteristica come un normale prodotto dell’evoluzione, che in passato ha causato grandi sofferenze. Se siete interessati a scoprire perché il colore è così importante per l’umanità, allora forse questo libro è per voi, qualunque sia il vostro atteggiamento verso le pulsioni razziste che coinvolgono la mente di tutti e le dinamiche dell’intera società. L’ideologia è becera, anche chi si sente razzista o “non razzista ma” potrà manifestarsi con maggior competenza e rispetto.

Da almeno tre decenni la brava antropologa americana Nina Jablonski (Hamburg, New York, 1953) studia e insegna l’evoluzione della biologia del colore della pelle, ha svolto ricerche accurate, ha incrociato riflessioni e opinioni con altri specialisti pure di altre discipline, ha scritto innumerevoli saggi e volumi monografici. Nel 2006 uscì Skin. A Natural History, nel 2014 questo Living Color. The Biological and Social Meaning of Skin Color, opportunamente e finalmente tradotto ora in italiano. La prima parte del libro è dedicata alla biologia del colore della pelle: come la pelle assume il suo colore, come si evolve la pigmentazione, e che cosa significa per la nostra salute. Molti pensiamo di saperne qualcosa, meglio verificare gli aggiornati studi genetici, soprattutto sulla fisiologia della pelle. Ognuno di noi rappresenta un campionario vivente di soluzioni di compromesso trovate dall’evoluzione nella storia delle specie Homo estinte che ci hanno preceduto e della nostra specie sapiens. La pelle è la nostra più estesa interfaccia con il mondo, la sua struttura illustra meravigliosamente il modo di risolvere i problemi tipico dell’evoluzione biologica. Molti stessi problemi di salute oggi comuni (come il cancro alla pelle e la carenza di vitamina D) sono causati da un disallineamento fra le nostre abitudini e la nostra eredità biologica: molti di noi hanno ereditato una carnagione poco adatta alle circostanze attuali e presentano fattori di rischio da conoscere e, possibilmente, prevenire. La seconda parte del libro è dedicata a come percepiamo e affrontiamo le ramificazioni sociali del colore della pelle. Siamo animali visivamente orientati e, pur non essendo geneticamente programmati per avere dei pregiudizi, nel tempo abbiamo sviluppato credenze sbagliate sul colore della pelle, trasmessesi attraverso continenti e oceani. Non si tratta di distinzioni fisiche (c’è un continuum nella nostra specie) ma di gerarchie connesse e presunte, relative a intelligenza, bellezza, temperamento, moralità, potenziale culturale, valore sociale. Fallacie, come l’autrice pazientemente ricostruisce e spiega.

 

Gianrico Carofiglio

«Non esiste saggezza»

Einaudi

216 pagine, 16 euro

Non esiste saggezza” è la raccolta di dodici testi di Gianrico Carofiglio (Bari, 1961), certo lo scrittore italiano di maggior successo nell’ultimo decennio, già in parte uscita nel 2010 per Rizzoli e ripubblicata ora in “edizione definitiva” da Einaudi, con l’aggiunta di due testi, quello uscito nel volume collettaneo “Cocaina” e un inedito, l’ultimo. La narrazione coglie l’occasione, una svolta, un imprevisto, un caso giudiziario, un inciso, un riferimento letterario, o una meritoria divertente intervista immaginaria a Tex Willer (ha letto il primo nel 1970, a nove anni, in quinta elementare; gli ha cambiato la vita); lo stile resta unitario e limpido, quello che abbiamo imparato a riconoscere e apprezzare nei romanzi. Il titolo generale è ancora lo stesso del primo racconto, tratto da una poesia di Anna Achmatova: “la saggezza non esiste/ non esiste vecchiezza/ e forse/ nemmeno la morte”, i versi della scrittrice sono il filo conduttore di un breve incontro ad Amsterdam.

 

Luciana Benotto

«Sofonisba. La turbinosa giovinezza di una pittrice»

La Vita Felice

472 pagine, 20 euro

Cremona, 1532 – Palermo, 1625. Sofonisba Anguissola è stata una talentuosa famosa pittrice italiana di quasi mezzo millennio fa. In “Sofonisba” l’esperta insegnante alle superiori, giornalista di lunga data, lombarda d’acqua dolce Luciana Benotto ricostruisce la sua vita, attraverso un affresco di esperienze, storie, viaggi per tutt’Italia, sessantasei densi capitoli. L’incipit parla del 1624 nell’accogliente Sicilia, poi la narrazione affronta infanzia, adolescenza e primissima maturità, abbastanza fortunate grazie a un padre benestante e aperto, lei prima dei sette figli (tutti con biografie interessanti) dei nobili Amilcare Anguissola e Bianca Ponzoni, presto rivolta a una creativa dimensione artistica, apprezzata anche da Michelangelo Buonarroti. Entriamo così in tante corti dell’Italia rinascimentale con il garbo e l’acume di bei disegni e quadri, in relazione con vari altri grandi artisti dell’epoca, fino alla vigilia del non breve trasferimento nella Spagna di Filippo II.

 

Merlin Sheldrake

«L’ordine nascosto. La vita segreta dei funghi»

traduzione di Anita Taroni e Stefano Travagli

Marsilio

378 pagine, 20 euro

Pianeta Terra. Da molto prima di noi. I funghi sono ovunque ma è facile non notarli. Spesso sono microscopici, oppure il loro reticolo (la rete fungine) si trova sotto terra. I funghi sono uno dei regni della vita, una categoria vasta e affollata quanto quella degli altri regni, degli animali e delle piante. Si stima che al mondo esistano tra i 2,2 milioni e i 3,5 milioni di specie di funghi. Negli ultimi decenni è un poco cresciuta la consapevolezza diffusa dei ruoli quantitativo e qualitativo del regno vegetale per la sopravvivenza e la riproduzione in ogni ecosistema, anche umane. Non sempre viene sottolineato abbastanza che oggi il novanta per cento delle piante dipende da specie di funghi micorrizici in grado di connettere gli alberi in reti comuni. Non è mai stata trovata nessuna pianta cresciuta in condizioni naturali priva di funghi, che ne sono una parte costitutiva quanto le foglie e le radici, cruciali per capire il funzionamento degli ecosistemi. E ulteriori specie di funghi fanno molte altre cose essenziali, alcune da milioni di anni. Mangiano le rocce, generano il terreno, creano ecosistemi nuovi, digeriscono le sostanze inquinanti, sopravvivono nello spazio, inducono allucinazioni, producono cibo e medicine, influenzano la composizione dell’atmosfera terrestre, manipolano il comportamento animale. E, soprattutto, ingannano i nostri preconcetti se pensiamo come esempi a campi fondamentali di ricerca della biologia contemporanea: anche gli organismi privi di cervello sviluppano comportamenti sofisticati di problem solving, imponendo un arricchimento delle tradizionali definizioni scientifiche di intelligenza; la simbiosi è una caratteristica costante della vita, di ogni relazione tra forme di vita, imponendo di correggere i concetti dati per scontati di individuo e indipendenza, identità e autonomia.

Il giovanissimo biologo, pianista, micologo e fermentatore inglese Merlin Sheldrake (1991), ricercatore presso lo Smithsonian Tropical Research Institute, dopo tanti articoli scientifici, ha dato alle stampe un volume corposo, interessante e letterariamente godibile, dedicato ai funghi “da cui ho imparato, con gratitudine”. In fondo troviamo un ricco apparato di note, una consistente bibliografia e un utile indice analitico di personalità citate e di argomenti intrecciati. Fra prologo, introduzione ed epilogo (compost) la monografia scorre lungo otto capitoli: attrazione; labirinti viventi; intimità tra sconosciuti; menti miceliari; prima delle radici; world wide web: la rete degli alberi; micologia radicale; dare un senso ai funghi. Non quindi un’enciclopedia di voci o una trattazione sistematica, piuttosto l’esame sorprendente e divertente delle sfaccettature del regno di molte reti di cellule (ramificate e connesse) che s’alimentano introducendo il loro corpo nel cibo. Ognuno cerchi la sua disorientante lente d’ingrandimento, si passa di continuo dalla biologia all’ecologia, ovvero allo studio delle vitali relazioni tra gli esseri viventi. Sono vari i riferimenti al fenomeno migratorio composito di specie, anche radicate, con un parallelismo tra i semi delle piante e le spore dei corpi fruttiferi fungini (migliaia di lanci ogni giorno, inevitabilmente il 99,9% non in un posto dove possano germogliare). A qualcuno possono particolarmente incuriosire i funghi lieviti che sono gli involucri più semplici di vita eucariote e condividono la storia più intima con gli esseri umani. I lieviti ci addomesticarono e indussero alla vita stanziale durante la lunga transizione neolitica: appena entrano in contatto con una soluzione zuccherina tiepida la fanno “fermentare” e dallo zucchero arriva l’ebbrezza dell’alcol (s’iniziò dal miele delle api e dal mosto dell’orzo per i primi prodotti alcolici), oppure “danno vita” ai pani sempre attraverso la fermentazione. Il loro potere trasformativo è stato a lungo personificato come energia divina, furono il motore della sedentarizzazione. Oggi sono diventati strumenti biotecnologici, messi a punto per produrre farmaci come l’insulina oppure i vaccini.

 

Redazione
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