Berlusconi e D’Alema

di Mauro Antonio Miglieruolo


Berlusconi. Dicono sia immensamente ricco. Dio l’abbia in gloria, sono felice per lui. Anzi gli auguro che gliene giunga altra di ricchezza, q.b. a saziarlo. Dicono anche ci sappia fare.

Ho i miei dubbi in proposito, ma si può sempre imparare: gli auguro di diventare quel che non è e le funzioni gli imporrebbe d’essere: uno capace di lavorare per il bene di tutti. Sembra sia diventato Presidente del Consiglio. Non capisco come sia potuto succedere, ma la vita, e per lei il Popolo Italiano, ha più estro e fantasia del più immaginifico scrittore di Fantascienza. La carriera comunque è ancora aperta: gli auguro di arrivare alla Presidenza della Repubblica. Tanto, questo paese, peggio di come sta, non può essere.
E a noi che importa, chiederete voi, tutti compresi nel vostro ruolo di gente tesa a capire e sopratutto a dimostrarsi scafati? Il medesimo che importa a me: niente. Tutti però parlano di lui e ho voluto anch’io dirne qualcosa. Qualcosa che, in pratica, è uguale a niente, ma, si sa, in società e su un giornale, non c’è nulla meglio del niente per parlare di niente.
Il problema è che il niente del mondo rappresenta il nostro Tutto e questo Niente che diventa Tutto, tutti noi adoriamo.

D’Alema, garbato, gentile, formale, a volte sarcastico, sempre primo della classe e per questo a molti antipatico: si tratta indubbiamente del rappresentante più abile dell’attuale (mediocrissimo) ceto politico Italiano. Intelligente, parco nelle risposte, usa parole semplici ed è sempre diretto, sempre efficace, lo si potrebbe persino, con un pizzico di fantasia, definire leale (di quella lealtà omertosa fatta di mezze misure e regole non scritte che sembra prevalere tra gli uomini di potere). Molti lo criticano, i più l’avversano (ha detrattori persino all’interno del suo stesso partito). Io invece vorrei dirne (o, come tutti, fingere di dirne) quanto di meglio si possa su un governante. Solo lui avrebbe potuto sostenere, senza provocare una sollevazione, un’assurdità del tipo “guerra umanitaria”. Ha fatto ridere i polli, ma era un riso con un groppo in gola.
Se non un buon cristiano, un buon politico, dunque. O meglio, un buon politicante: che è quanto di peggio si possa dire di un uomo.

Due pesi, un’unica misura; la misura di uno abituato a alzare spesso gli occhi al cielo, in finto atto di rassegnazione.
Due uomini, un unico modo di vestire: l’Italia in doppiopetto, chi mai ci salverà?
Berlusconi lo indossa d’abitudine, è quasi parte di lui (lui come personaggio); in D’Alema rappresenta una sorta di abito mentale. Per il primo una bandiera, per l’altro mera questione di stile. Ambedue pensano anzitutto a se stessi (e fin qui ben poco da dire, ove fossero sinceri e l’ammettessero con la medesima franchezza con cui io qui glielo rimprovero); dovrebbero però badare anche a altro, anzitutto alle responsabilità che, assumendo incarichi di governo, cadono sulle loro spalle.

Non mi dilungo ulteriormente sulle loro qualità e difetti: sapete bene, oltre chi, cosa sono, poiché li avete provati sulla vostra pelle. Bisogna essere popolo per conosce e principi, diceva Machiavelli. E io, incapace di aggiungere alcunché di significativo, mi limito a assentire esclamando: sì, è così, proprio così. Lo posso affermare con buon ragione non solo in quanto popolo, ma anche in quanto principe. In quanto anche io ho avuto qualcuno sotto di me e ho abusato. Mi sono poi pentito, inorridito dal mio gesto, ma l’impulso resta, in pericolo dato la propensione del sistema a favorire le prevaricazioni e le divisioni. Grandi contro piccoli (d’età, statura e condizione), uomini contro donne, nord contro sud, bianchi contro neri ecc. Tutti noi che pretendiamo di esserci tirati fuori dal coro dobbiamo sapere che, pur inveendo e mugugnando, non possiamo assolverci. Non almeno finché non avremo ottemperato al nostro dovere. Che possiamo riassumere nel detto scespiriano sull’ergersi contro “tutti i nostri mali e risolutamente finirli”.
Né pretendo che i due di cui sopra, anche se opportunamente stimolati, avvertano l’orrore di ciò che hanno fatto di se stessi e lavorino per emanciparsi. Non ne hanno l’intenzione, neppure concepiscono l’opportunità di averla. Non quindi la possibilità di farlo. Aiutiamoli, allora. Incoraggiamoli. Diamo quantomeno una opportunità di cambiamento, offrendo loro il meglio di noi stessi. La nostra attitudine a stabilire legami veri, legami di amicizia, fratellanza. Invitiamoli a cena; e invece di mugugni, insofferenza e spirito di parte, siano sorrisi, onestà e gentilezza. Forse non salveremo l’Italia, ma avremo offerto un’occasione a ambedue (e un’occasione e noi) per conoscerci come uomini e non più come marionette del teatrino della politica.

Un’illusione, dite? Sia pure: la sprecheranno. La sprecheremo. A me basta pensare che li avremo allontanati dalla sala di comando per qualche ora, sospendendo la loro inesauribile capacità di combinare guai; che poi è il più, visto lo stato di cose esistenti, che a nostro vantaggio noi tutti si possa fare.
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Miglieruolo
Mauro Antonio Miglieruolo (o anche Migliaruolo), nato a Grotteria (Reggio Calabria) il 10 aprile 1942 (in verità il 6), in un paese morente del tutto simile a un reperto abitativo extraterrestre abbandonato dai suoi abitanti. Scrivo fantascienza anche per ritornarvi. Nostalgia di un mondo che non è più? Forse. Forse tutta la fantascienza nasce dalla sofferenza per tale nostalgia. A meno che non si tratti di timore. Timore di perdere aderenza con un mondo che sembra svanire e che a breve potrebbe non essere più.

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