Bertha ogni giorno… ma chi è?

Recensione di Daniele Barbieri e Laura Tussi a «Giornalismo di pace», a cura di Nanni Salio e Silvia De Michelis (*)

 

Ce la ritroviamo quasi ogni giorno fra le mani, ci buttiamo un’aria distratta ma il 90 per cento di noi non sa chi era. Sulle monete da 2 euro c’è Bertha Von Suttner, premio Nobel per la Pace del 1905. E infatti nel volume «Giornalismo di pace» si legge: «le conquiste dell’eroina austriaca Berha Von Suttner, che dedicò la propria vita alla risoluzione nonviolenta dei conflitti e al disarmo, sono stati resi virtualmente inesistenti». I due euro girano molto, le idee di Bertha purtroppo no.

Il progetto collettivo «Giornalismo di pace» è un libro postumo di Giovanni – ma per tutte/i era Nanni – Salio che fra l’altro fu presidente del Centro Studi Sereno Regis di Torino, fondato nel 1982. Esponente del Movimento Nonviolento e autore di numerosi scritti e saggi, Salio rappresenta una pietra miliare dell’antimilitarismo italiano e degli approcci nonviolenti, teorici ma anche pratici, nella gestione dei conflitti. Ha collaborato a lungo con Johan Galtung, il quale occupa molte, preziose pagine di questo libro, e con la Rete Transcend International.

Il libro – impostato da Salio con Silvia De Michelis – presenta i contributi di Stuart Allan, Birgit Brock-Utne, Johan Galtung, Jake Lynch, Dov Shinar, Elissa Tivona, per analizzare i contesti di guerra, le situazioni di violenza, cercando una prospettiva di pace, in un’ottica di trasformazione nonviolenta dei conflitti. Come scrive Salio, riprendendo Galtung: «Punto 1: non temere il dialogo (..) Punto 2: non temere mai il conflitto, è un’opportunità piuttosto che un pericolo». E qui già alzeranno un sopracciglio i molti che confondono conflitti e guerre: i primi è giusto che siano evidenziati anziché celati, ma si possono risolvere con la nonviolenza, mentre le seconde sono cosa ben diversa e quando esplodono richiedono una de-escalation per tornare verso la pace. «Nel linguaggio abitualmente usato dai media, il conflitto è considerato sinonimo di guerra e questa ambiguità semantica contribuisce a creare confusione, frustrazione e senso di impotenza». La guerra non è sinonimo di conflitto ma l’esito più drammatico di una conflittualità irrisolta.

Le guerre dominano la scena dell’informazione per interesse, per scelta politica, per superficialità. I media vengono usati dalle nazioni, dalle élites, ma anche dalle multinazionali come “armi di disinformazione di massa”. A questa prassi si può cercare di opporre il modello attivo del «giornalismo di pace», elaborato soprattutto da Johan Galtung, che legge e descrive in profondità i conflitti, indagandone ragioni e dinamiche primarie, ricercando gli obiettivi reali delle parti in causa, le loro contraddizioni e le vie possibili per superarle, evitando le semplificazioni di chi racconta guerre e violenze come fenomeni normali e inevitabili. Non si tratta dunque di minimizzare e nascondere gli aspetti più drammatici ma di contribuire, fornendo una ricca documentazione teorica e interessanti casi di studio a mettersi in cammino verso una trasformazione nonviolenta dei conflitti.

Nel libro troviamo una panoramica internazionale delle azioni giornalistiche nei vari scenari di guerra; si identificano poi le modalità del «Giornalismo di pace»; si espongono i racconti femminili in un’ottica di «globalizzazione della compassione» (ma qui si pone un piccolo problema di traduzione: forse le parole empatia e compassione in italiano non sono sinonimi) sempre cercando i contesti e le realtà che “potenziano” situazioni creative e di armonia tra le parti.

Il ruolo della «pace positiva» – che non è semplice tregua fra una guerra e l’altra, ma progetto, istruzioni, bussola – è aumentare il ben/essere degli umani e dell’ambiente naturale, dell’ecosistema, andando oltre la semplice, egoistica soddisfazione dei bisogni. Il punto di vista di un ricercatore e di un giornalista per la pace consta appunto nel rafforzare la realtà positiva e indebolire le fonti di violenza. La pace si crea attraverso l’equità nella cooperazione, l’armonia tramite l’empatia per comprendere gli obiettivi legittimi delle parti; la conciliazione può superare i traumi e ridurre la rivincita e la vendetta; la soluzione dei conflitti riduce la volontà di aggressione. Come ricorda Nanni Salio «la commissione “Verità e riconciliazione” promossa in Sudafrica da Tutu e Mandela è un formidabile esempio positivo che dovrà essere seguito e perfezionato in tutti quei casi (…) in cui la violenza ha provocato odii laceranti, sete di vendetta, incapacità di convivere».

Ma il mondo intero, nella congiuntura attuale, è ostaggio della politica estera aggressiva degli Stati Uniti. Il paragrafo intitolato «L’impero colpisce ancora» – scritto da Galtung nel 2011 – è impressionante per lucidità e “profezia”. Nella parte finale del libro spiccano alcuni brevi scritti di Galtung, in particolare «11 settembre: 10 tesi su 10 anni persi», scritto il 12 settembre 2011; «Iraq:10 anni di stupidità; e «Cinque tesi su Assange, Manning e Snowden». Bisogna essere pessottimisti – rubiamo la definizione a Emil Habibi – cioè tener conto della dura realtà mentre si continua a lavorare per migliorarla. Così alla domanda se oggi «il giornalismo di pace funziona?» Galtung risponde «in breve: no». Però non si ferma qui: ragiona su cosa occorre fare, guardando indietro… e avanti.

«Giornalismo di pace» (Edizioni Gruppo Abele) un progetto collettivo con i contributi di Stuart Allan, Birgit Brock-Utne, Johan Galtung, Jake Lynch, Dov Shinar, Elissa J. Tivona

(*) Questa recensione è uscita sul numero di febbraio della rivista «Mosaico di pace».

 

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