Boban

di Daniela Pia

Loro due passeggiavano inconsapevoli fra i banchi dei dolciumi, nel supermercato di periferia.

Capelli biondi lunghi raccolti, occhi leggermente truccati, sciarpa attorno al collo e incantate davanti alla cioccolata discutevano se prendere la tavoletta o gli ovetti. Occhi indagatori non le abbandonavano e spiavano ogni loro mossa. Giunte alla cassa pagavano e uscivano, due ragazzine leggere come una brezza autunnale. Contente.

La matrona dietro di me ha cominciato a blaterare, invitando le sue comari ben pasciute come lei, a controllare le borse e i borsellini.

– Le avete viste? erano zingare, sicuramente hanno rubato qualcosa.

Dai piedi, per strade tortuose, mi è salita una voce che covava già da un po’ ed è uscita fuori, libera finalmente.

– Sia gentile signora, tenga per sé le sue considerazioni discriminatorie e lasci agli astanti almeno il beneficio del dubbio, se dubbio vi è.

La matrona dall’occhietto malevolo ha ribadito: – ma.. erano zingare.

E lì ho capito che non sarebbe stato opportuno discutere ulteriormente.

Anni di razzismo stratificato, consolidato dalla faciloneria dal bisogno di trovare qualcuno da disprezzare, che ci faccia sentire “migliori”, si sono insinuati nella cultura popolare, e non solo: hanno messo radici, e siccome “dietro ogni scemo c’ è un villaggio” riflettevo amaramente sul fatto che questo modo di pensare è così profondamente diffuso che si ha l’impressione di scalare l’Everest ogni volta che si cerca di contrastarlo o semplicemente di metterlo in discussione.

Così a scuola, dentro la mia aula, dove ho avuto per due anni fra i banchi una fanciulla rom.

Ho potuto constatare così che a nulla è valsa l’educazione alla cittadinanza; a nulla sono valse le opere scelte e commentate ad hoc, così come i corsi contro il bullismo dove la psicologa, in aula, si prodigava con gli studenti lavorando sul loro atteggiamento. Eppure il rifiuto di accogliere non è cambiato di una virgola e hanno continuato a escludere la loro compagna rom. Ho anche provato a chiedere la collaborazione dei colleghi del consiglio di classe: – disponiamo i banchi a ferro di cavallo così nessuno più sarà solo (ho chiesto accorata). Facciamo gli stessi richiami, vi prego.

Così se alcuni hanno accettato, ne è bastata una, una di quelle che guardano con una sorta di malcelato schifo anche lo studente con i dread che si può capire come tutto sia ricominciato.

Quasi una battaglia contro i mulini a vento, che comunque è necessario combattere, soprattutto nelle scuole, perché la realtà si può modificare solo attraverso piccoli gesti quotidiani e azioni rinnovate… Fintanto che anche “la Speme ultima Dea” non fuggirà e ci abbandonerà nella sconfitta.

Ecco quindi che, in sella a Ronzinante, ho provato a cambiare strategia e , assieme ad altri colleghi di buona volontà, abbiamo accolto l’invito di Paul Polansky, il poeta statunitense, di venire gratuitamente nel nostro istituto per parlare alla moltitudine degli studenti riunitisi in aula magna. Lo scrittore ha avuto modo così di catturare l’ attenzione dei presenti mettendo l’accento sulla violenza cui i Rom sono stati condannati da un pregiudizio atavico, fatto di luoghi comuni, leggende metropolitane e insofferenza.
Insomma capro espiatorio per chi ha cercato di trovare i modi più adatti per sfogare l’aggressività riversandola sui più fragili e aggiungendo così sofferenza a discriminazione.
Polansky, che con i Rom ha vissuto a lungo, dopo essersi occupato di indagare in Cecoslovacchia sugli orrori che hanno portato al loro sterminio nei campi di concentramento, è stato testimone attento dell’originalità e dell’unicità della cultura rom e lo ha raccontato con parole semplici, vere, scevre di retorica. Al momento della discussione, dopo le terribili immagini trasmesse e dopo la testimonianza delle ignominie di cui i rom sono stati vittime, gli studenti hanno commentato con una sfilza di luoghi comuni, razzisti, preceduti sempre da un “però…” . Quello più frequente: – però rubano!

Ho pensato allora a quale immane lavoro ci attende come docenti ed educatori: cercare di aprire gli occhi di questi fanciulli, perché adottino una prospettiva che sfugga al pregiudizio.

Mi sono chiesta : – come faremo a raccontare loro che i veri ladri sono spesso in giacca e cravatta, che sono quelli che ci hanno tolto anni di lotte operaie e di diritti civili dilapidando un patrimonio, non solo economico, con il quale hanno gozzovigliato a spese dei nostri figli? Riusciremo a far capire quanto possa essere terribile la violenza del pregiudizio? Sapremo contrastare quanto la matrona racconterà al suo figliolo una volta giunta a casa? Sapranno vedere il vero volto di coloro che fra un po’ dovranno tornare a votare? Quegli stessi che Fabrizio De Andrè aveva lapidariamente smascherato dicendo: “Si lamentano degli zingari; guardate come vanno in giro a supplicare l’elemosina di un voto: non ci vanno mai a piedi però, hanno autobus che sembrano astronavi, treni, aerei; e guardateli quando si fermano a pranzo o a cena , stanno mangiando con coltello e forchetta e con coltello e forchetta si mangeranno anche i vostri risparmi”. Sapranno smascherarli anche loro questa primavera?

Intanto io voglio conservare dentro di me una immagine da contrapporre a questo quadro sconsolante e voglio condividerla per la sua bellezza: l’ospitalità di Boban nel campo rom, a San Sperate, in una notte stellata, ad accogliere i gagè, in uno spirito di condivisione inclusiva; il cibo loro, preparato per noi, i nostri dolci per ricambiare, il vino dolce, l’acqua i suoni e la musica a unire.

Così mi sono avvicinata ad Ambra la mia studentessa ritrovata lì, inattesa e gioiosa, e le ho detto: “Balliamo con le tue sorelle al suono della vostra musica?”.

Si è ritratta, si sono schernite tutte “con vergognosa fronte”. Ed è stato allora che ho rotto gli indugi. Ho sfilato le scarpe e ho iniziato a ballare, sola. Si sono avvicinate le bimbe, mi hanno preso la mano e hanno fatto cerchio con me. Poi ho sentito il suono delle sonagliere, le donne le hanno tirate fuori all’improvviso e si sono cinte i fianchi. Ci siamo prese per mano e abbiamo condiviso il cielo. le stelle brillavano di luce più viva, abbiamo ballato a lungo. Ho scoperto così che non era stata la scuola, non c’entravano i corsi sul bullismo, non era l’Istituzione che urgeva. Servivano solo uomini e donne capaci di riconoscersi come tali, fuori dai recinti.

Daniela Pia
Sarda sono, fatta di pagine e di penna. Insegno e imparo. Cammino all' alba, in campagna, in compagnia di cani randagi. Ho superato le cinquanta primavere. Veglio e ora, come diceva Pavese :"In sostanza chiedo un letargo, un anestetico, la certezza di essere ben nascosto. Non chiedo la pace nel mondo, chiedo la mia".

4 commenti

  • gianfranco frisciotti

    Grazie Daniela del conforto che mi da ill tuo racconto. Ciao Gianfranco

  • ma che bello danzare con te cara amica mia

  • Salve, scusate l’intrusione(la sensazione è quella di aver interrotto un cerimoniale religioso per chiedere una cavolata),ma vorrei sapere se l’autrice del brano, la signora Daniela Pia, possa essere la mia “prof. di lettere”,con la quale ho sostenuto l’esame di maturità nel 1996, presso l’ ITIS di Iglesias . Vi risparmio il panegirico, ma resta comunque la mia insegnante di riferimento,quella che vive nei trascorsi scolastici di ciascuno di noi e che amiamo ricordare quando si tiran fuori i ricordi della scuola. Grande Prof!!! 🙂 Spero la sig.ra Pia legga il mio messaggio e i curatori del blog possano girarle la mia mail. Vi ringrazio ancora e vi auguro tutto il bene possibile.

  • Stai dando un bel contributo cara Daniela, come scrittrice e come insegnante; quest’ultimo poi è di un’urgenza tremenda, visto lo spaesamento a cui i ragazzi vengono trascinati dai messaggi di competitività, omologazione, e strisciante razzismo !

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