«Boccascena»: teatro di desiderio o desiderio di teatro

di Giuliano Spagnul

Si chiude il ventennio che ha inaugurato il nuovo secolo e il nuovo millennio, un’era nuova a cui si stenta dare un nome che sappia ben rappresentarne l’ aspetto di forte e inquietante novità. Il Novecento, nella sua postura di “secolo breve” ha stentato a mostrarsi per quel che era nella sua essenza più viva: un secolo di rinnovamento totale in cui la felicità del rinascere è stata tanto forte quanto l’infelicità che a questo partorire il nuovo era tragicamente connessa. È stato la sofferta partecipazione del corpo ad un altro mondo possibile, il corpo delle masse con la sua gioiosa voglia di rivoluzione e il corpo dei singoli individui con la manifestazione dei bisogni e l’enunciazione di un desiderio infinito, che non può dirsi mai appagato.

Nonostante la preponderanza dei nuovi media, nel loro imporsi fulmineo e soverchiante, la vecchia pratica del teatro, che da millenni espone i corpi nelle apposite arene o nelle pubbliche piazze, ha svolto il suo ruolo di accompagnarci nel difficile travaglio verso questa nuova era. Paradossale e inquietante è che sia stato proprio il teatro la maggior vittima della prima grande peste di questo nuovo evo. (NOTA 1) A conti fatti il corpo rimane, ancor oggi, in epoca di ardite sperimentazioni e teorizzazioni sulla smaterializzazione del corpo stesso (basti pensare al transumanesimo e a altre teorie affini) quel volume denso e opaco da cui è impossibile prescindere.

È stato proprio durante il primo lockdown che un vecchio attore e un vecchio operatore del teatro – Cesar Brie e Antonio Attisani – si sono messi a giocare insieme, a perder tempo, come direbbe la buona fatina di Pinocchio, e a costruire un canovaccio teatrale in cui il solito Gatto e la solita Volpe raccontano la loro vita, il loro eterno desiderio di vita. Coadiuvati da un servo di scena, un giovane dal sesso indefinito, percorrono le dieci scene di questa “commediola” (NOTA 2) chiamata, forse imprudentemente “Boccascena”, dove forte è il rischio di veder ingoiate le proprie vite personali nella storia collettiva di una moltitudine che aveva sognato di conquistare il cielo.

D’altronde il boccascena cos’altro è se non quella “bocca spalancata di Satana”, entrata agli inferi da cui saltavano fuori i diavoli nelle rappresentazioni dei misteri nelle piazze medievali (NOTA 3) e che qui, parimenti. parrebbe evocare i demoni di una generazione affascinata, e quindi corrotta, dall’idea di una rivoluzione possibile, pur se poco probabile. Il Gatto si presenta in scena fin dal suo inizio nel suo anelito di voler riportare l’alto in basso passando il suo flauto dalla bocca al culo. La Volpe, di par suo, entra chiedendo, pretendendo di sapere se ci sia nessuno, ricevendo l’impertinente risposta: – c’è! -. Nemo, nessuno c’è.

È qui, in quest’incontro tra questi due personaggi calati dall’alto, dalle aspirazioni moraleggianti ottocentesche e discesi, giocoforza, giù a contendersi i lazzi e gli scherni di un volgo che si voleva bisognoso di guida e di cure, che inizia questo dialogo tra chi sa, e che è qualcuno, e chi non sa, ed è nessuno. Ma è (contro ogni pronostico) dialogo vero, come vero e fecondo è ogni incontro tra l’alto e il basso. La Volpe, filosofo astuto ma astratto e il Gatto, guitto cieco ma letteralmente intessuto di libertà ostinata.

I due innescano un gioco libero, carnevalesco; dicono di avere una missione da compiere: ammazzare Pinocchio. Impiccare Pinocchio che ha tradito la vita da partigiano e si è trasformato in un bravo bambino e, massima ignominia, in un giornalista. Impregnati ancora del loro passato politico i due, come loro stessi si autodefiniscono, “schnorrer” (NOTA 4) non possono non vedere nel Pinocchio trasformato altro che un “piccolo borghese di centrodestrasinistra”. E allora occorre ucciderlo prima che si trasformi. Far si che non vi sia trasformazione dal vecchio al nuovo ma, piuttosto, che il vecchio muoia per far posto al nuovo. Almeno questa è la loro missione, per quanto difficile e ardua: sgravare la morte dal suo fardello per far girare ancora la ruota che governa il mondo: vita, morte, nuova vita.

Non si tratta, in ogni caso, di insegnare alcunché a qualcuno (altro modo di masturbarsi da vecchi), né di assecondare la sindrome di Cristoforo Colombo, così diffusa nei giovani d’oggi, di voler essere scoperti. Raccontare la propria storia, gli amori, le porcate giovanili o senili che siano e i propri malumori e paure e angosce, non per fare un teatro verità, Dio ce ne scampi, ma per essere dei veri commedianti. Capaci di non prendersi troppo sul serio ma consci che “dopo la peste il teatro, più sarà marginale e più diventerà incisivo e attento. Così attento che, alla fine, si ritroverà necessario.” Ma si parla qui del teatro o della vita?

Come andrà a finire una storia così? “Io sono un attore: so niente, ma capisco tutto” dice il Gatto, “Io invece so tutto, ma non ci capisco più niente” gli risponde la Volpe, che aggiunge: “Mi sa che una storia così va a finire male!”

Dimentichiamo infine qualcosa? Certo. Il giovane servo di scena, questa ragazza (ammesso che sia tale) che spinge la carrozzella della volpe, sopperisce al rincoglionimento dei due vecchi attori suggerendo le battute giuste, cambia i titoli di scena e tanto altro. Suona la fisarmonica perfino. È tanto, ma è un tanto di cui quasi non ci si accorge, o che si dimentica subito, per quanto è leggero e modesto. Non è in effetti il nuovo che avanza, che questo di certo farebbe un gran trambusto, ma è appunto una testimone modesta il cui compito, decisivo, è quello di osservare e far osservare che la storia vada avanti fino alla fine, fino al suo compiersi lasciando così il posto ad altre storie, ad altre scene. Perché così va il mondo o, almeno, speriamo che così vada ancora, e ancora.

NOTE

1: Per il cinema, ad esempio, se anche questa pandemia dovesse far perdere l’abitudine alla frequentazione delle sale, di fatto, non farebbe altro che perseguire una trasformazione già in corso da tempo.

2: Come la definisce lo stesso Cesar Brie in un’intervista: «L’unica cosa che mi è mancata nella pandemia è stato il partner, cioè il compagno di lavoro, ma neanche tanto. Ho scritto in stretto contatto con un amico, per me un maestro, filosofo e studioso del teatro. Abbiamo scritto a quattro mani una commediola e dopo due mesi abbiamo deciso di provarla. Lui vive vicino, qui, veniva in macchina. Ambedue sapevamo di essere sani (ci eravamo molto frequentati nel periodo pre-pandemia) e quindi abbiamo cominciato a provare. Io avevo fatto le scene provvisorie, avevo messo le luci e gli oggetti. Siamo tutti e due anziani, forse lui più malandato di me, ma abbiamo iniziato a provare e lo stiamo ancora facendo. Per il resto a me non è cambiato molto. Sono tornato ad avere tempo, cosa essenziale nella ricerca teatrale. Poi, il fatto di non sapere chi produrrà lo spettacolo e se mai potremo rappresentarlo, fa parte della mia abitudine». http://www.liminateatri.it/?p=2747

3: Michail Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare, Einaudi, 1979

4: Schnorrer: parola yiddish che sta per mendicante, scroccone.

 

Antonio Attisani (1948) è stato attore, critico e direttore artistico e infine professore di  Culture del teatro alle università di Cà Foscari – Venezia e Torino. Dal 2018 è in pensione. (qui la recensione del suo ultimo libro: https://www.labottegadelbarbieri.org/atto-secondo-di-antonio-attisani/?fbclid=IwAR2PIa69fnyE_vKXBYSKRek91jdYByzv4LFKyPUGlAQdMB1a7lMsDoroUDc )

Cesar Brie (1954) è attore, drammaturgo e regista. Giunto in Italia nel 1974, è riconosciuto come rifugiato politico dall’Onu (non dall’Italia) nel ’76. Già membro della Comuna Baires, dalla fine degli anni Settanta, oltre a una lunga parentesi in Bolivia con il Teatro de los Andes, insegna, dirige e recita tra Argentina e Italia.

 

 

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