Bolivia: aspetti positivi e contraddizioni di Evo Morales…

…a pochi mesi dalle presidenziali

di David Lifodi

Mancano ancora quattro mesi alle presidenziali boliviane, in programma il prossimo 5 ottobre, eppure merita dare uno sguardo al paese andino e al suo complesso scenario politico: Evo Morales resta il candidato strafavorito per rimanere a Palacio Quemado, ma è interessante analizzare il percorso di un presidente che non si caratterizza più per un percorso di rottura, ma, con i suoi pro e contro, mira a consolidare la sua esperienza di socialismo di governo.

Tra gli aspetti principali che hanno caratterizzato gli 8 anni di Morales alla guida della Bolivia, un record in un paese politicamente assai instabile, va evidenziata la nazionalizzazione degli idrocarburi, unita all’aumento delle tasse imposte alle imprese petrolifere e ad un’accorta amministrazione dal punto di vista economico fiscale, quella che era mancata a Gonzalo “Goni” Sánchez de Lozada, costretto a fuggire in elicottero dal palazzo presidenziale (per recarsi al sicuro, a Miami), il 17 ottobre 2003, dopo aver ridotto allo stremo il suo stesso paese, depredato di tutte le risorse naturali. Rispetto al 2009, quando il primo presidente indigeno fu costretto ad affrontare, in campagna elettorale, la feroce ostilità dell’alta borghesia dell’Oriente boliviano, con i dipartimenti di Beni, Pando, Tarija e Santa Cruz che a più riprese cercarono lo strappo separatista, adesso le cose sembrano essere cambiate. Di certo, Evo non è propriamente amato in questa zona del paese, ma gli imprenditori meno radicali lo hanno invitato anche all’inaugurazione di ExpoCruz, uno dei principali eventi economici promossi dall’oligarchia cruceña. Del resto, guadagnare consensi nei dipartimenti separatisti e vincere le elezioni in casa loro, rappresenta uno degli obiettivi della prossima campagna presidenziale evista. Ciò che fa storcere il naso alla sinistra, e non a torto, riguarda invece gli elogi che gli avvoltoi del Fondo Monetario Internazionale hanno rivolto alla Bolivia. Da Palacio Quemado replicano che l’indirizzo politico socialista può convivere con l’equilibrio macroeconomico. Lo stesso New York Times ha ammesso la prudenza di Morales, nonostante l’espropriazione di alcune imprese private. Il presidente indio non rappresenta più un’opzione di cambio radicale, dicono i suoi estimatori, ma è riuscito finora ad evitare tentativi di destabilizzazione continua come è avvenuto nei primi mesi del 2014 in Venezuela. Tutto ciò ha suscitato un ampio dibattito tra intellettuali favorevoli al percorso politico di Morales e apertamente contrari, come lo statunitense James Petras, che lo ha definito “il più radicale dei conservatori o il più conservatore dei radicali”. Eppure Morales, che si candida a divenire il primo presidente boliviano in carica per 15 anni (in caso di vittoria) superando Víctor Paz Estenssoro (che totalizzò 12 anni, ma in tre periodi distinti, 1952-1956, 1960-1964 e 1985-1989), ha avuto il merito di far crescere l’economia boliviana (la terza nella regione per il 2013) e lanciare in Cina il primo satellite di comunicazione nella storia del paese, denominandolo Tupac Katari. Inoltre, Morales è indicato come favorito per la pochezza dei suoi sfidanti. Due le destre che cercheranno di mettergli i bastoni tra le ruote, forse anche unendosi tra loro sul modello della Mesa de Unidad Democrática in Venezuela. Da un lato l’imprenditore Samuel Doria Medina (Unidad Nacional), dall’altro il governatore cruceño Rubén Costas (Movimiento Demócrata Social). Entrambi, per quanto possa sembrare paradossale, si dichiarano di centrosinistra e starebbero pensando di unirsi nel Frente Amplio: in realtà l’uno e l’altro mancano di una proposta politica chiara ed efficace e battono il tasto sui soliti temi scelti dalla destra venezuelana, dall’assenza dei diritti umani nel paese all’insicurezza passando per la corruzione. Altro discorso è quello del Movimiento Sin Miedo, nato da una scissione a sinistra del Movimiento al Socialismo (Mas) di Morales e che schiera l’ex sindaco di La Paz Juan del Granado. Troppe volte Evo ha tacciato qualsiasi forma di opposizione al suo agire politico come etero diretta dagli Stati Uniti o da agenti esterni, come l’ultradestra latinoamericana (peraltro molto pericolosa e assai attiva nel continente): le sue rassicurazioni ai mercati e i suoi balbettii sulla ripubblicizzazione dell’acqua hanno determinato una rottura con esponenti storici dei movimenti sociali, tra cui Oscar Oliveira, che certo non può essere tacciato di essere filo-Usa, come invece ha fatto più volte Evo. Tra i pasticci di Morales va ricordata anche la questione del Tipnis (anno 2011), il tentativo di costruire un’autostrada all’interno del Territorio Indígena Parque Isiboro Sécure, abitato da alcuni popoli indigeni. È in questo contesto che è nato il Movimiento Sin Miedo, che però è rimasto spiazzato dall’adesione della Central Obrera Boliviana (Cob) al progetto masista, che gli ha tolto consensi a sinistra, e si è avvicinato un po’ troppo a un personaggio come Rubén Costas, assai vicino al terrorismo separatista. Sotto molti aspetti il discorso di Morales si è assai moderato e non possono essere tacciate come scandalose le critiche rivolte alla sua azione politica (su tutte la gestione del gasolinazo e la scarsa attenzione concessa ai sindacati che chiedevano aumenti salariali), ma la sua sfida di procedere sulla strada di quello che da noi potrebbe essere definito come “socialismo di lotta e di governo” sembra aver fatto presa su buona parte della popolazione. Lo scopo è quello di coinvolgere e inglobare la maggior parte della popolazione nel proyecto del socialismo comunitario, facendo convergere su questo un’alleanza indigena, operaia e contadina. È sull’”unità rivoluzionaria per una Bolivia socialista” che, a stragrande maggioranza, la Cob ha scelto di sostenere Evo Morales. Eppure, anche all’interno del mondo sindacale ci sono dei malumori, per quanto minoritari, che evidenziano le contraddizioni di Evo, fatte proprie da una parte della sinistra radicale. Ad esempio, il bollettino dei Trabajadores Fabriles ci va giù duro e scrive che il Mas ed Evo si sono caratterizzati per una politica anti-operaia e fedele agli interessi dell’imprenditoria. Il giudizio è, in questo caso, fin troppo severo, ma la denuncia del tentativo masista di cooptare i movimenti sociali è condivisibile, così come la scarsa decisione del presidente indio nei confronti dell’oligarchia di Santa Cruz. Altrettanto innegabile è la contraddizione tra l’inclinazione radicale mostrata da Morales all’estero e  la troppa prudenza in patria, come altrettanto criticabile è l’opinione del presidente secondo la quale chi non vota per il Mas osteggerebbe automaticamente il processo di cambio sociale. Al tempo stesso, la complessità dello scenario politico boliviano è tale che la rigidità di Evo verso l’opposizione, anche quella alla sua sinistra, è motivata da alcuni aspetti incontrovertibili. Su tutti, l’abbraccio mortale tra Doria Medina e Rafael Quispe, un tempo alla guida del Consejo Nacional de Ayllus y Markas del Qullasuyu (Conamaq), così come è un dato di fatto la scarsa formazione ideologica dell’ex sindaco di La Paz Juan del Granado. James Petras insiste, non a torto, sulla scarsa attenzione di Morales alle rivendicazioni salariali del settore pubblico, che ha ricevuto aumenti modesti ed è stato oggetto di una più che censurabile repressione poliziesca in occasione di scioperi e marce di protesta, così come sulla tolleranza del Mas nei confronti delle imprese minerarie. E ancora, la riforma agraria sembra essere stata assai modesta e ai contadini sarebbero andate terre marginali o comunque non produttive. A testimonianza di quanto detto finora, i contestatori di Morales da sinistra sostengono che il coefficiente di Gini (lo strumento che indica la percentuale di disuguaglianza sociale nel paese) per la Bolivia è rimasto più o meno lo stesso dall’avvento del presidente indigeno a Palacio Quemado fino ai giorni nostri.

In conclusione, grazie a Morales la Bolivia ha vissuto un decennio di stabilità politica e sociale mai registrata finora e il suo progetto (che cerca di tenere insieme il radicalismo indio-socialista, lo stato plurinazionale ed interessanti forme di autogoverno comunitario) ha inserito il paese nel campo bolivariano, pur con tutte le contraddizioni registrate in questi anni: se le destre tornassero al potere la Bolivia sarebbe di nuovo quella di Goni oppure, ancora peggio, al servizio delle elites separatiste che non hanno mai fatto mistero di voler escludere gli indigeni dalla vita del paese  e questo non deve accadere.

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