Bolivia: la resistenza di Domitila

di David Lifodi

Settembre 1965: storie di resistenza operaia e di lotte dei minatori, atti di eroismo e rivendicazione dei diritti sindacali, ma anche repressione poliziesca, omicidi di stato e disperazione del sottoproletariato. Siamo nella Bolivia oppressa dalla dittatura militare di René Barrientos, il dittatore che, in combutta con il primo ministro Ovando e l’ufficiale della  sicurezza Roberto Quintanilla catturarono e uccisero Che Guevara, ma questa finestra latinoamericana vuol ricordare il massacro dei minatori di Siglo XX del settembre 1965 e la storia straordinaria di Domitila Barrios de Chungara, leader delle donne dei minatori boliviani scomparsa lo scorso 13 marzo.

Il massacro di 47 anni fa si intreccia con la storia personale di Domitila, raccontata con lucidità alla pedagoga brasiliana Moema Viezzer, che nel 1979 la pubblicò per Feltrinelli con il titolo Chiedo la parola, ma anche con quella dei minatori boliviani che lavoravano in condizioni disumane nel villaggio minerario di Siglo XX, vicino al paese di Llallagua, nella zona di Potosí. In un paese arretrato, ma dove già forte era la solidarietà operaia ed i legami di una comunità che per molti aspetti rappresentava una sorta di autogestione primordiale, tra arresti, torture e l’esilio, Domitila tracciò un affresco drammatico della Bolivia, le vene aperte di un paese dove la gente, come lei di umili origini, stava cominciando a prendere coscienza di quali fossero i propri diritti. Gli eventi drammatici del Settembre 1965, che purtroppo rappresentano solo una minima parte della vita avventurosa di Domitila, iniziarono in occasione di una grande retata dell’esercito contro gli abitanti di Siglo XX: i dirigenti sindacali dovevano essere arrestati, così come la maggior parte dei minatori, ritenuti pericolosi sovversivi poiché protestavano per le pessime condizioni di lavoro. Barricati dentro le miniere, nelle viscere della terra, alla loro uscita furono deportati in massa e molti furono uccisi dalle raffiche di mitra dei militari. Domitila allora era già una dirigente di primo piano, una lottatrice per la democrazia, e si batteva per una Bolivia socialista: sarebbe sopravvissuta al sanguinario Barrientos, al dittatore Banzer e al narco-dittatore Meza. La storia di Domitila non fu segnata solo dalle lotte per il miglioramento dei rifornimenti alimentari agli spacci dei minatori, ma anche dal celebre si me permiten hablar che pronunciò dalla tribuna dell’Anno Internazionale della Donna nel 1975. Giunta in Messico dopo varie peripezie, impose una discussione sui problemi reali alle femministe del nord del mondo impegnate principalmente a fare esercizi di retorica e dialettica piuttosto che a confrontarsi con gli aspetti più duri dello sfruttamento femminile presente nel sud del mondo: non lo conoscevano e quindi non l’avevano né sperimentato né toccato con mano. Nessuno sembrava interessarsi di quanto stava accadendo in Bolivia, eppure sottoterra, costretti a respirare sostanze tossiche nocive, i minatori discutevano di politica, ma ci sarebbe voluta la forza di Domitila per scardinare una serie di pregiudizi già allora presenti anche nelle organizzazioni di sinistra più avanzate, dal maschilismo imperante al settarismo diffuso. Inoltre, seppe raccontare al mondo lo sfruttamento selvaggio dei lavoratori, anticipandone alcuni degli aspetti più odiosi che ritroviamo ancora oggi nelle centinaia di cantieri per la costruzione di dighe e miniere a cielo aperto, dove lavorano operai ridotti quasi in schiavitù dalle partecipate delle grandi multinazionali del nord del mondo. Le miniere rappresentano la nuova frontiera degli investimenti in campo economico e l’estrazione mineraria determina le oscillazioni della Borsa. Scriveva Domitila: “Siglo XX è un accampamento minerario e tutte le case appartengono all’impresa. L’alloggio dell’accampamento dove il lavoratore vive è, sotto tutti gli aspetti, in prestito… solo per il periodo in cui il minatore lavora nell’impresa. Quando muore o smette di lavorare per malattia professionale, che è la silicosi, mandano via dalla casa la vedova o la moglie del lavoratore: le danno novanta giorni di tempo per sloggiare”. Nei suoi racconti così drammatici e al tempo stesso attuali, che coinvolgono talmente il lettore da farlo immedesimare nella Bolivia di quegli anni, Domitila parte dalla sulla condizione di oppressa e dalla questione femminile per descrivere le sofferenze che patisce il suo popolo e lei stessa, che perderà un bimbo per i maltrattamenti e le torture subite in prigione quando era già in uno stato di gravidanza avanzata. La capacità di coniugare privato e politico facendoli coincidere in un’unica dimensione, quella dell’impegno sociale e civile per un futuro migliore a cui aspirano tutti gli sfruttati di quel continente allora veramente desaparecido, è simile al romanzo di Gioconda Belli, che nel suo Il paese sotto la pelle descrisse episodi di una vita altrettanto avventurosa, tra gli sgherri della guardia somozista, la clandestinità ed una questione di genere che pure faticò ad affermarsi anche nel Nicaragua rivoluzionario e sandinista.

Poco prima di morire, stroncata da un cancro ai polmoni, Domitila aveva speso le sue energie in una scuola di formazione sindacale ed in un movimento di ispirazione guevarista: resterà l’esempio di una donna instancabilmente impegnata in ambito civile e democratico.

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