Bologna, 25 aprile: Roger Waters (ex Pink Floyd) in concerto

Buona musica e buona politica più belle immagini (le trovate in coda). Luca Cumbo – con l’approvazione e un po’ di invidia de La Bottega del Barbieri – è andato a vedere il concerto di Roger Waters a Casalecchio di Reno, Bologna.

Roger Waters è stato bassista e cofondatore dei Pink Floyd, leggendaria band musicale nata nel Regno Unito nell’epoca d’oro della cosiddetta “psichedelia” cioè nella seconda metà degli anni ’60. Waters è stato autore anche della gran parte dei testi dei brani dei Pink Floyd, oltre che delle musiche, dopo la triste uscita dal gruppo di Syd Barrett legata a problemi di abuso di sostanze allucinogene che probabilmente aggravarono un latente disagio psichico.

Sin dalla fine degli anni ’60 è subito chiaro il tema antimilitarista nei testi di Waters:  Corporal Clegg (in Saucerful of Secrets, 1968) seppure con il tono ironico e surreale tipico del periodo racconta la storia del caporale Clegg che “vince” in guerra una gamba di legno come premio del suo sacrificio in onore della regina (“clegg” potrebbe essere un gioco di parole che richiama “tafano” e “gamba artificiale”).

Qui il testo con traduzione e video:

https://www.antiwarsongs.org/canzone.php?id=2364&lang=it

Il padre di Waters morì in Italia durante le battaglie contro le truppe nazifasciste successive allo sbarco degli Alleati ad Anzio nel 1944. E Waters conosce bene la Resistenza italiana. Anche per questo i testi contro la guerra e contro tutti i fascismi sono da sempre presenti nelle opere del musicista, sia durante l’esperienza con i Pink Floyd che nella carriera solista.

Negli anni ’70 – e in particolare con The Dark Side of the Moon (1973) – Waters inizia a firmare testi che denunciano l’alienazione prodotta dalla società capitalista inglese a lui contemporanea, la schiavitù di fronte al tempo (Time), al denaro (Money) che conduce alla disumanizzazione e quindi alla follia (Brain Damage). Passano un paio d’anni e in Welcome to the Machine, tratto dall’album Wish you where here (1975) non a caso dedicato a Syd Barrett, viene delineato l’uomo come automa, schiavo di una tecnologia al servizio del potere.

E’ con l’album Animals (1977) clamoroso e coraggioso, lontano millenni luce dalla contemporanea moda punk, che Waters va affinando ed esplicitando nei testi le invettive contro il potere ma anche contro le masse che subiscono passivamente senza ribellarsi. Animals è un disco cupo, inquietante, minaccioso, ansiogeno, lunghi brani (dai 10 ai 17 minuti se si escludono le due brevissime ballate a inizio e chiusura album) che non lasciano vie di fuga; ma arrendendosi al fluire della musica, alle accelerazioni improvvise e repentine cadute, ci si renderà conto che Animals è un capolavoro.

I testi, vagamente ispirati a La Fattoria degli animali di George Orwell, dividono l’umanità in tre lunghi brani/categorie: cani (Dogs), maiali (Pigs, Three different ones), pecore (Sheep).

Qui la famosa copertina con il maiale volante tra le ciminiere della centrale elettrica londinese Battersea Power Station:

https://cover.box3.net/newsimg/dvdmov/max1319193332-front-cover.jpg

Dopo Animals è il doppio album The Wall (1979) insieme all’omonimo film di Alan Parker (del 1982, presentato al 35° festival di Cannes) a riprendere più esplicitamente il tema antimilitarista; non mancano inoltre anche riferimenti autobiografici sulla morte del padre di Waters, come nel brano When the tigers broke free: https://www.youtube.com/watch?v=E_5DRKZI1Ow

The Final Cut (1983) – ultimo album di Waters con i Pink Floyd – è presentato come il “requiem del sogno del dopoguerra”. Nel brano d’apertura The Post War Dream viene attaccata frontalmente “Maggie” Margaret Thatcher per le sue politiche sociali e per la guerra delle isole Falkland/Malvinas (1982): What have we done Maggie what have we done

What have we done to England

Should we shout should we scream

What happened to the post war dream?

Questa lunga premessa, di cui ci scusiamo con i non appassionati, prima di parlare del concerto vero e proprio, è stata necessaria per dire che uno spettacolo di Roger Waters non è un semplice evento artistico, ma un fatto politico. Il tour mondiale di Waters tocca tutti i continenti con centinaia di date e milioni di spettatori. Tutte le date sono state sempre accompagnate, in ogni tappa, da numerose interviste in cui Waters ha parlato più di politica che di musica.

Waters denuncia da tempo il servilismo dei media occidentali, chiamandoli “media di propaganda per la guerra”. I concerti dell’ex-Pink Floyd sono fenomeni di massa, da stadi di calcio pieni, milioni di partecipanti, un pubblico molto variegato e potenzialmente in parte mai raggiunto da informazioni e idee in contrasto con la letteratura (narrazione, se preferite; o “pensiero unico” fate voi) dominante.

Dunque Waters sfrutta i suoi concerti per provare a stimolare un’informazione diversa: il leit motiv del tour è “RESIST”, che compare spesso nei mega schermi, nelle magliette del coro, nei bigliettini lanciati al pubblico. Resistere alla guerra, ai governi, ai media, resistere a Trump, a Theresa May, a Berlusconi e Salvini, tutti schiaffati in una carrelata video al pubblico presente.

Waters parla dei migranti, parla di accoglienza, di neo(vecchio)-colonialismo. Il sogno del dopo guerra è in realtà un incubo, il mondo patinato occidentale è un reality show da cui bisogna svegliarsi, mentre chi sveglio lo è già deve resistere.

Waters prende molto sul serio questo compito a costo di essere urticante e andare contro i suoi stessi fans. Nelle date americane del tour non sono mancati momenti in cui alcuni spettatori, sostenitori di Trump, hanno abbandonato il concerto prima della fine.

Intervistato in proposito Waters ha di fatto mandato a quel paese questi (presunti) fans, sostenendo che chi non vuol sentirlo parlare di politica dovrebbe andare ai concerti di Katy Perry, non ai suoi.

Qui una delle interviste in proposito e anche le dichiarazioni in favore del BDS Movement:

https://www.youtube.com/watch?v=5WYa-pNhxmQ

Durante il concerto bolognese è stato interessante sentire i commenti del pubblico, trovarsi fianco a fianco a leghisti, forzisti, di tutto di più; molti hanno naturalmente mostrato indifferenza continuando imperterriti a filmare tutto con i propri fottuti telefoni (ma che senso ha pagare per un concerto e poi guardarselo tutto attraverso il telefonino invece di goderselo?) ma altri sono stati colti dal dubbio, discutevano, domandavano. Chissà.

Waters incentra il concerto sulla riproposizione di Animals, sulla famosa scenografia fatta di enormi maiali svolazzanti e tatuati col simbolo del dollaro e la faccia di Trump, con le coreografie sceniche legate alla Buttersea Power Station, più qualche altro brano tratto dal suo ultimo album da solista Is this the life we really want? (2017). Naturalmente non mancano pezzi tratti da The Dark Side oh the Moon e The Wall. Alienazione e guerra, se cadiamo nella prima ecco che arriva la seconda, per questo bisogna svegliarsi, resistere e lottare.

Forse per il caldo torrido del palazzetto dello sport di Casalecchio che fa sembrare il musicista un po’ affaticato, forse anche per l’età (Waters compirà 75 anni a settembre) il bassista suona poco in prima persona lasciando molto spazio agli altri musicisti sul palco, ma a un certo punto sorprende tutti prendendo una chitarra elettrica (di certo non il suo strumento) e lanciandosi in un assolo tratto da un brano del suo ultimo album. Ci ha scherzato su e ha ringraziato il più giovane Jonathan Wilson, chitarrista americano componente della band, di avergli insegnato a suonare la chitarra come solista.

Il concerto si apre con il classico Breathe tratto da The Dark Side of the Moon: intro più azzeccata non poteva esserci. Subito dopo ecco la chicca One of these days (tratto da Meddle del 1971) il più antico fra i brani floydiani eseguiti. Poi è la volta di The Great Gig in the sky (sempre da Dark Side) con una doppia voce femminile al posto dell’unica voce solista dell’originale, scelta discutibile nella riuscita dell’interpretazione, ma tutto sommato meglio di altre tragiche versioni ascoltate in passato anche negli stessi tour dei Pink Floyd al completo del periodo storico. Seguono il classico Welcome To The Machine (raramente suonata live negli ultimi 40 anni) e tre brani tratti dall’ultimo Is This the Life We Really Want? che non stonano nel contesto in quanto fin troppo somiglianti a ritagli riassemblati dai vecchi brani floydiani. Poi l’inevitabile zuccherino Wish You Were Here (dal disco omonimo) per il composito pubblico e l’immancabile Another Brick in the Wall (ovviamente da The Wall) che accoglie sul palco un coro multietnico di ragazzini comprensibilmente esaltati provenienti dall’Antoniano di Bologna. Tutti i brani dal repertorio dei Pink Floyd sono proposti rispettandone la filologia musicale. I suoni sono quelli giusti, la strumentazione sul palco comprende sia gli storici organo Hammond e sintetizzatori analogici, sia la strumentazione elettronica necessaria a una convincente resa dal vivo delll’atmosfera musicale dei Pink Floyd. Unica eccezione è stata Welcome to the Machine, di cui abbiamo parlato sopra, la cui reinterpretazione, con alcuni deliberati stravolgimenti nella parte centrale, non ha convinto chi scrive: non tanto per lo stravolgimento in sè – che era la regola di quasi tutti i brani nelle esibizioni dal vivo dei Pink Floyd (perlomeno fino al tour di The Wall) – ma perchè risulta forzata, non fluida, come la si fosse voluta cambiare a tutti i costi senza però un’idea precisa di partenza.

Splendide invece le esecuzioni dei due lunghi brani tratti da Animals: Dogs e Pigs (Three different ones), insieme mezzora di musica dove tutto sembra essere al posto giusto, missaggio, voci, chitarre ritmiche e soliste degli ottimi Dave Kilminster, Jonathan Wilson, il basso di Gus Seyffert, l’organo e i synth di Bo Koster e Jon Carin, la batteria di Joey Waronker, tutti perfetti senza inutili fronzoli qui come nel resto della scaletta del concerto.

Peccato non sia stata prevista Sheep, l’altra splendida suite da Animals.

Fra un brano e l’altro Waters non ha dimenticato di condannare anche questa volta Israele per l’apartheid inflitto ai palestinesi e ha ricordato Vittorio Arrigoni: “Restiamo umani” ripete più volte. Waters si è rifiutato di esibirsi in Israele, ha aderito ufficialmente alla campagna BDS-Boycott, Divestment and Sanctions, invitando i suoi colleghi musicisti a fare altrettanto e criticando coloro che non l’hanno fatto (nel luglio del 2017 Waters invitò, inascoltato, Tom Yorke e i Radiohead a non suonare a Tel Aviv). Ma non finisce qui: Waters ha attaccato l’Europa e gli USA per la guerra in Siria, ha accusato i cosiddetti White Helmets (Caschi Bianchi, presunta ong di protezione civile siriana) di essere una finta organizzazione umanitaria e paravento delle formazioni jihadiste. Durante la data di Barcellona è stato ancora più esplicito:

https://www.youtube.com/watch?v=0Wh1ppnkSag

Dopo la parte di concerto dedicata ad Animals, un altro paio di classici (Money e poi Us and Them che dà il nome al tour) poi Smell the roses tratto dall’ultimo lavoro solista di Waters e gran finale con la coppia Brain Damage/Eclipse, che corrispondono anche alla chiusura di The Dark Side of The Moon, il tutto accompagnato da un’enorme piramide laser trapassata da un arcobaleno di colori a voler richiamare la celeberrima copertina dell’album.

In conclusione, dopo l’inevitabile Confortably Numb e il bis con Mother tratte entrambe da The Wall, Roger Waters prende dal pubblico sotto il palco una bandiera dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, la alza verso la platea in segno di rispetto, quindi la bacia, la mette intorno al collo e si congeda.

Le fotografie sono di Ennio Cerami

Luca

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