“Bolsonazi” si mangia il Brasile: come uscire dall’incubo?

Come organizzare la resistenza a Jair Bolsonaro in Brasile? Riflessioni e commenti del Centro internazionale Crocevia, di Paolo D’Aprile, Gennaro Carotenuto e Marco Consolo sugli scenari che si aprono in Brasile a seguito della vittoria del presidente di estrema destra in occasione del ballottaggio dello scorso 28 ottobre.

 

Elezioni Brasile: Bolsonaro, Guedes e i tentacoli del neoliberismo potrebbero soffocare i diritti civili e distruggere l’ambiente

a cura di Mariapaola Boselli (Centro internazionale Crocevia)

Come facilmente prevedibile dopo il primo turno elettorale, il popolo brasiliano ha per la prima volta eletto liberamente un presidente appartenente all’estrema destra e, dallo scorso 28 ottobre, Jair Bolsonaro è il nuovo presidente del Brasile. Già ribattezzato “Tropical Trump”, il nuovo presidente del quinto paese più grande del mondo per territorio e popolazione da tempo preoccupa il mondo intero con le sue dichiarazioni controverse.

Utilizzando sempre lo stesso slogan, ormai ritornello degli estremismi di tutto il mondo, Bolsonaro vuole “fazer esse Brasil grande”, con le solite fallimentari ricette neoliberali accompagnate da un ostentato spirito dittatoriale che a molti ricorda quello del generale Pinochet.

Durante la campagna elettorale il neo presidente Bolsonaro ha rilasciato in diverse occasioni dichiarazioni profondamente razziste, omofobe, sessiste e violente ed ha espressamente dichiarato di voler adottare provvedimenti discriminatori e repressivi nei confronti di oppositori, come il Movimento dos Trabalhadores Rurais Sem Terra (MST) e il Movimento dos Trabalhadores Sem Teto (MTST), e minoranze, come le popolazioni indigene.

I piani di Jair Bolsonaro in tema ambientale ed agricolo confluiscono quindi all’interno di un grande progetto volto a privilegiare in ogni modo il capitale e chi lo possiede.

Le premesse erano chiare: inizialmente (potrebbero esserci cambiamenti) si ventilava l’ipotesi di eliminare il ministero dell’ambiente facendolo confluire in quello dell’agricoltura. In un paese come il Brasile, considerato come “megadiverso” per l’inestimabile patrimonio di biodiversità animale e vegetale, l’ambiente dovrebbe godere di tutele e garanzie tali da permetterne la piena conservazione.

Secondo Fabio de Castro, antropologo specializzato in materia ambientale e professore all’Università di Parigi, la fusione dei due ministeri è parte di una narrazione semplicistica che punta allo smantellamento istituzionale della questione ambientale e dei movimenti sociali.[1]

Un provvedimento del genere non può in nessun caso portare conseguenze positive partendo dal probabile taglio a bilancio delle politiche ambientali. Inoltre, per stessa dichiarazione dell’-allora- candidato, il futuro ministro dell’agricoltura apparterà al settore produttivo e, di certo, difficilmente anteporrà gli interessi ambientali e il rispetto dei diritti umani agli interessi economici. Verranno promossi gli interessi dei grandi latifondisti posseditori di grandi terreni e aziende a discapito dei diritti di contadini e popolazioni indigene. Un provvedimento del genere è un esplicito regalo alle grandi aziende dell’agribusiness che amplieranno i loro possedimenti terrieri invadendo terre indigene e distruggendo interi ecosistemi.

Verranno promosse le grandi monocolture intensive causando ulteriori perdite di biodiversità, impoverendo i terreni favorendone l’erosione e aumentando considerevolmente l’inquinamento prodotto dall’agricoltura uscendo così dagli obiettivi posti dall’Accordo di Parigi.

Anche se Bolsonaro si è espresso con toni molto duri verso il grande mercato globale –in linea con il suo spirito nazionalista- se non vi sarà più un vero ministero dell’ambiente e se il ministero dell’agricoltura verrà dato in mano ad un imprenditore è molto probabile che le multinazionali si trovino ad avere carta bianca con tutto ciò che ne consegue sul piano ambientale, sociale ed economico. È inoltre certo che il grande internazionale godrà del pieno supporto del nuovo ministro da Fazenda (ministero dell’economia), l’ultraliberale purista Paolo Guedes, professore di economia formatosi a Chicago, con una lunga carriera accademica e professionale nel mondo dell’economia e molto apprezzato dalla finanza internazionale.

Guedes, nonostante vi siano evidenti differenze di pensiero con il presidente neo eletto, ha già ben delineato le caratteristiche principali delle azioni che in futuro verranno intraprese a livello economico: via libera ai grandi investimenti esteri, cessione dei beni pubblici e privatizzazioni. Non è necessario conoscere le pieghe recondite dell’economia e della società brasiliana per capire che misure di questo genere possono solo portare ad un aumento incontrollato della povertà e della criminalità che da sempre l’accompagna. In un paese in cui, nonostante la vastità dei territori, migliaia di persone non sono in grado di produrre cibo autonomamente e vivono in condizioni di profonda indigenza a causa della concentrazione delle terre nelle mani di pochi grandi proprietari è evidente che cessione in massa di beni pubblici e privatizzazioni andranno a riempire le tasche già colme dei grandi latifondisti e delle multinazionali

Paulo Guedes ha anche proposto di riformare l’attuale sistema pensionistico pubblico per trasformarlo in un regime di capitalizzazione o a singole quotazioni in cui lo stato non ha nessun ruolo e i lavoratori versano autonomamente i propri risparmi a fondi pensionistici privati. Un modello simile a quello del Cile, dove Guedes svolse il ruolo di professore universitario negli anni ’80, durante la dittatura di Augusto Pinochet (1973-1989). Pare opportuno sottolineare che la riforma pensionistica cilena che instaurò tale modello pensionistico avvenne durante gli anni della feroce dittatura di Pinochet, noto per essere estimatore delle politiche neoliberali targate USA che costarono però al Cile gravi conseguenze, sia sul piano economico che sociale.

Come se ciò non bastasse, è intenzione di Bolsonaro eliminare la Lei 6001/73 – Estatuto do Índio, Decreto n.º1775/96, la legge che oggi tutela i territori indigeni e i suoi abitanti. Certo ha dei limiti costituzionali da rispettare, è però indubbio che la sua volontà sia quella di togliere qualsiasi status che comporti particolari tutele a minoranze e che per questo pongano limitazioni all’economia. Il presidente in Amazzonia vede grandi centrali idroelettriche sui fiumi sacri agli indigeni, vede una grande autostrada che taglia a metà la più ricca foresta al mondo e pascoli e terreni coltivati ai suoi lati; di fatto gli indigeni per Bolsonaro e l’agribusiness rappresentano un problema.

Migliaia di persone subiranno violazioni dei diritti umani fondamentali. Eliminando le aree protette che di diritto sono proprietà degli indigeni questi si vedranno togliere le terre nella complicità dello stato. Vi sarà il serio rischio che gli indigeni, i contadini e le popolazioni locali originariamente stanziati in quei territori si trovino a dover subire forti repressioni in caso di ribellione o condizioni di lavoro assimilabili alla schiavitù in caso si accetti che permangano nei territori a loro sottratti.

Anche se pare una lista senza fine, è doveroso aggiungere che Jair Bolsonaro ha affermato che, se eletto, catalogherà come “organizzazioni terroristiche il Movimento dei lavoratori rurali senza terra (MST) e il Movimento dei lavoratori senza tetto (MTST) . Il MST e l’MTST sono movimenti emersi rispettivamente nel 1984 e nel 1997 per promuovere la riforma agraria e la riforma urbana per risolvere il grande problema della concentrazione delle terre in mano di pochi grandi latifondisti e liberare terre coltivabili che potrebbero dare lavoro a migliaia di persone. Questi movimenti sociali da anni lottano per ottenere questa riforma, promessa da Lula nel 2003 e mai realizzata. Oggi Bolsonaro vuole criminalizzare questi movimenti rendendoli illegali e punibili con pene gravi e limitative della libertà personale.

Se si considera inoltre che secondo la Commissione pastorale agraria nel 2017 in Brasile il numero di morti nei conflitti agrari è cresciuto del 15% rispetto all’anno precedente (ci sono stati 70 omicidi, il numero più alto dal 2003[2]) e che nel 2017 gli attivisti per l’ambiente e i diritti umani uccisi sono stati 57 (numero più alto alto a livello mondiale)[3] il criminalizzare i movimenti sociali porterà ad un escalation di violenze sia da parte dello stato che da parte del “mercato” che si sentirà legittimato a sedare con la forza eventuali residui di resistenza civile.

Pare arrivino tempi duri in Brasile ora che ha deciso di seguire la scia occidentale delle derive nazionaliste di estrema destra. Ci auguriamo che la comunità internazionale, nell’interesse dell’umanità intera, ponga i necessari limiti se e quando si renderà necessario. Bolsonaro ha più volte in questi mesi richiamato il principio della sovranità dello stato per legittimare le sue varie intenzioni politiche; è doveroso però ricordare che anche la sovranità statale conosce limiti e sono quelli –seppur incerti- del diritto internazionale, posti allo scopo di garantire la coesistenza tra stati e il rispetto dei diritti umani.

[1] http://amazonia.org.br/2018/10/as-ameacas-de-bolsonaro-ao-papel-central-do-brasil-no-meio-ambiente/

[2] https://oglobo.globo.com/brasil/assassinatos-em-conflitos-de-terra-subiram-15-em-2017-diz-relatorio-22709376

[3] Report ¿A qué precio? Dell’Ong Global Witness

 

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Razza di vipere (articolo tratto da Pressenza)

di Paolo D’Aprile

 

Attenzione. A tutti gli studenti. Lunedì 29 ottobre è il giorno in cui molti professori si presenteranno col dente avvelenato. Molti di essi non riusciranno a trattenere la loro ira e trasformeranno la classe in una platea per le loro lamentele politiche in virtù della vittoria elettorale di Jair Bolsonaro. Filmate, registrate ogni discorso o manifestazione politica e ideologica dei vostri professori. DENUNCIATE. Inviate il video e le informazioni necessarie al numero (….) specificando il nome del professore, il nome della scuola e della città. Garantiremo al denunciante il totale anonimato.

Usando mezzi leciti e no – per i quali riceverà un richiamo dalla Suprema Corte, solamente un semplice richiamo e niente più – il giudice M, un popolarissimo magistrato, fa arrestare L, candidato naturale alla Presidenza della Repubblica. Il giudice M nonostante l’uso di mezzi illeciti – un uso stigmatizzato da tutto il sistema giuridico internazionale, ma ampiamente sostenuto in ambito locale come metodo efficace per combattere la corruzione – condanna il candidato L, rendendo così effettiva l’impossibilità di presentarsi alle elezioni e vincerle. Perfino l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani richiama all’ordine sia il magistrato M che il paese: secondo il trattato firmato dal Brasile le decisioni prese dai comitato Onu hanno forza di legge. Niente da fare, il Brasile ignora l’Onu e non riconosce al candidato L, già condannato, il diritto di concorrere alle elezioni.

Comincia la campagna elettorale. Con il candidato L fuori dal gioco, il candidato B riscuote i più grandi successi attraverso l’uso massiccio (e illegale) di notizie false divulgate nelle rete sociali e via WhatsApp finanziate con versamenti non dichiarati di 156 imprese. Il suo discorso di violenza esplicita in cui le stesse frasi pronunciate, di per sé, sarebbero già un crimine – razzismo, istigazione alla violenza, al linciaggio, tortura, fucilazione sommaria, incitamento al golpe di stato – arriva dappertutto e a tutti. Le istituzioni ignorano le parole e gli insulti; anzi, vengono considerate come  bravate, frasi di effetto ma prive di ogni consistenza. Il Male è così trasformato in qualcosa di completamente appetibile e presentabile. E si sa che quando il Male è accettato sia dalle istituzioni che dalla gente, è perché esso, il Male, occupa già quello spazio da molto tempo, stava solo aspettando il momento per uscire ed attivarsi.

Il discorso di odio del candidato B è molto chiaro, non ci sono dubbi: come simbolo di campagna ha scelto le dita tese ad imitazione di una pistola,  non un’immagine generica, ma una pistola puntata, una pistola che prende la mira.

A una settimana dalle elezioni, il giudice M consegna alla stampa le dichiarazioni di un ex collaboratore di L, oggi pentito. Sono dichiarazioni non omologate, senza alcun valore giuridico, dichiarazioni di chi accusa tutti per salvarsi la pelle. Senza alcun riscontro, senza prove. L’impatto è enorme. Mancano sette giorni alla elezioni, la gente, ubriaca di odio contro L, trasforma queste dichiarazioni divulgate illegalmente dal giudice M nell’ultima maledizione da lanciare contro tutto e contro tutti. La strada per la vittoria del candidato B è ormai spianata.

Il candidato B vince davvero. L’indomani annuncia che il giudice M sarà ministro: Ministro della Giustizia e Ministro degli Interni, un superministro. Il giudice M vola a Brasilia e accetta l’invito.

Ricapitoliamo: M arresta e imprigiona L. Il mondo giuridico internazionale nota innumerevoli irregolarità. A L viene impedito di concorrere alle elezioni. Interviene a suo favore l’Onu, che però viene ignorata sia dalla Suprema Corte che dallo Stato. Il rivale di L, il candidato B, ha via libera per vincere le elezioni. Durante la campagna elettorale, il giudice M consegna alla stampa dichiarazioni nulle che accusano L, in galera da sei mesi. Il candidato B vince il primo turno. Il candidato B vince il ballottaggio. Offre al giudice M la carica di super Ministro della Giustizia e degli Interni. Il giudice M accetta. Oggi, attraverso la stampa e gli stessi interessati, sappiamo che i contatti tra il neo presidente B e il giudice M erano in corso fin da prima della campagna elettorale.

Pochissime le voci contrarie. Le istituzioni applaudono la scelta del neo presidente. La stampa si inchina al grande inquisitore: il giudice M per molti è un eroe. I giornali stranieri invece dicono che tutto questo è uno scandalo senza uguali: la prova che il giudice M ha sempre lavorato per distruggere politicamente L e il suo partito. Il contatto previo col candidato B, l’aver accettato l’invito al ministero confermano i reali motivi che fin dall’inizio hanno mosso il giudice M.

Nei prossimi giorni, il Parlamento voterà la proposta di legge che prevede la punizione dei professori e dei maestri che “trasformano la loro lezione in un palco di diffusione di idee politiche vicine alle idee marxiste con lo scopo di indottrinare gli alunni”. Vale per tutte le scuole, dalla materna all’università. Hanno già creato un numero verde per le denunce anonime. La chiamano “Scuola Senza Partito”. Il nuovo presidente ha già detto che toglierà definitivamente gli insegnamenti di Paulo Freire dai curricoli del magistero.

Le dichiarazioni di ripudio dei sindacati dei professori, le assemblee in tutte le università, gli interventi di uomini di cultura, scrittori, filosofi a poco servono contro l’odio che il neo presidente B ha scatenato, un odio totale, per proteggere la famiglia tradizionale, la morale, il buon costume, i confini e la patria. Lo ha detto nel suo primo discorso alla nazione. Anzi, le prime parole non sono state le sue, ma quelle di Magno Malta, leader evangelico e mentore ideologico: in semicerchio, capo chino, occhi chiusi, mano nella mano il nuovo governo comincia con l’invocazione al loro dio di orrore. Cinque minuti di delirio con la Bibbia in evidenza, io governerò seguendo questi precetti, dice l’esecrabile presidente brandendo il libro come un martello. E alla fine del ripugnante rituale, il loro grido di battaglia: Brasil acima de tudo, Deus acima de todos (Brasile sopra ogni cosa, Dio sopra ogni uomo). In pochi miserabili minuti, lo Stato laico viene umiliato e offeso. Gli scribi, i farisei ipocriti, la razza di vipere sono usciti dalle fogne: comincia oggi il governo di un fanatico nazista, un integralista religioso ciarlatano e un giudice infame.

Per saperne di più sul processo e la condanna di L, è interessante ascoltare l’opinione del giurista italiano Luigi Ferrajoli: https://ilmanifesto.it/unaggressione-giudiziaria-alla-democrazia-brasiliana/

https://www.youtube.com/watch?v=4OpBbk2XwKA

Prime parole del nuovo presidente: https://www.youtube.com/watch?v=CTsotRSF9H8

 

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Promemoria brasiliano su Bolsonaro, il giudice Moro e il lawfare contro Lula (articolo tratto da gennarocarotenuto.it)

di Gennaro Carotenuto

La cooptazione del giudice Sergio Moro nel governo di Jair Bolsonaro in Brasile era decisa da tempo e getta nuove ombre sulla condanna di Lula. Facciamo luce sull’arte del lawfare in America latina.

1) Oggi i media mondiali raccontano come un successo di Jair Bolsonaro l’accettazione da parte del giudice Sergio Moro (rappresentato come un eroe senza macchia e senza paura, che condannò Lula nell’ambito dell’inchiesta Lava Jato), di diventare ministro della giustizia nel nuovo governo. Superministro dicono, accorpando giustizia e sicurezza, un potere immenso. Giova ricordare che Sergio Moro condannò Lula essendo lui stesso candidato in pectore alla presidenza della Repubblica, partecipando sistematicamente a manifestazioni politiche contro il governo. Oggi sappiamo da una fonte al di sopra di ogni sospetto, niente meno che il vicepresidente di Bolsonaro eletto in Brasile, il generale Hamilton Mourão, apertamente nostalgico del regime civico-militare, che lo dichiara senza pudori o politicismi al quotidiano “Valor Económico”, che l’accordo Moro/Bolsonaro (che evidentemente comportava la desistenza del primo in cambio di un ministero) fosse ben anteriore. Dobbiamo credere alla terzietà di Moro al momento di condannare Lula?

2) Facendo un passo indietro, giova ricordare che l’impeachment a Dilma Rousseff fu generato non da accuse di alcunché contro la presidente, che non è mai stata accusata di nulla, né prima né dopo, ma da un voto del tutto politico, nel quale Bolsonaro votò l’impeachement “in onore dei torturatori che avevano torturato Dilma Rousseff”. Nino Strano, il parlamentare di AN che mangiò la mortadella a Montecitorio alla caduta di Romano Prodi, fu un gentleman in confronto. Ove sia stato dimenticato Dilma (rieletta con largo consenso presidente appena due anni prima) non cadde per sue responsabilità politiche o per accuse penali, ma perché perse la maggioranza in parlamento. Ciò fu prodromico all’avanzare del processo e della condanna di Lula.

3) La condanna per corruzione a Lula da Silva, condanna tutt’oggi non ancora definitiva (quindi in uno stato di diritto Lula sarebbe ancora innocente), ma sufficiente a escluderlo da elezioni nelle quali era in testa nei sondaggi, avvenne quindi solo dopo l’impeachment a Dilma Rousseff. Quando Moro condannava Lula governava dunque – in maniera solo formalmente legittima ma in realtà con un golpe bianco – il conservatore Michel Temer. Questo, parallelamente, fu compensato salvandosi da un processo per corruzione per una tangente da 190 milioni di Euro nell’ambito dello stesso Lava Jato, solo per mancanza di autorizzazione a procedere, quindi con un voto politico di segno identico (ma risultato opposto) a quello che aveva estromesso Dilma.

4) Dilma fuori, Temer salvo, Lula a processo, ma sono tutti passaggi politici, non giudiziari. Fu un momento torbido nel quale autorizzazioni a procedere, condanne e assoluzioni passarono da rapporti di forza politici. In quel momento la forza delle élite tradizionali e dei media monopolisti che non hanno mai smesso di fare a questi riferimento, prevalse anche nel costruire una narrazione totalmente immaginaria per la quale il Partito dei lavoratori, la sinistra socialdemocratica che aveva osato farsi governo, avesse inventato la corruzione in un fino allora immacolato Brasile. Ma in quel momento il Brasile di Temer era ancora una democrazia funzionante? Parlare di equo processo per il giudizio col quale Moro condannò Lula o di separazione dei poteri è perlomeno dubbio.

5) A Bolsonaro eletto, con Moro suo ministro e Lula seppellito in carcere, non possiamo non vedere l’impeachment contro Dilma Rousseff e la conseguente condanna di Lula come il più impressionante caso di scuola di lawfare (guerra o golpe giudiziario, utilizzando notizie false o non confermate sulla presunta corruzione per delegittimare un politico) della storia. Ciò avveniva non già in una democrazia, pur imperfetta, ma in un contesto dove la separazione dei poteri non era affatto garantita e con giudici che tentavano la scalata al potere politico giudicando e condannando i loro possibili avversari elettorali. Nonostante in Brasile e in America latina la corruzione sia un problema severissimo, che ha indubbiamente riguardato anche i governi progressisti, il finanziamento della politica attraverso tangenti private o pescando da conglomerati pubblici come Petrobrás, è sicuramente anteriore a Lula e anche a Cardoso e rimonta a quella corrottissima dittatura militare alla quale aspira a tornare Bolsonaro. La memoria dell’opinione pubblica però è maledettamente corta e ogni tempo passato è stato migliore del presente.

6) È possibile che da Lula a Dilma, da Cristina Fernández a Rafael Correa, da Hugo Chávez a Manuel Zelaya non vi sia un solo governo progressista che non sia stato assalito da sistematiche accuse di corruzione come forma principale di delegittimazione? Anche se non tutti i governanti di sinistra sono immacolati e tutti quelli di destra sono corrotti, e che determinati processi redistributivi comportino per loro natura sprechi e ruberie, e che anche la sinistra tenda a considerare i propri avversari politici come tutti corrotti, c’è un fattore che ha sparigliato i conti a favore delle destre. Durante gli anni del ciclo progressista in nessun paese, neanche in Venezuela, è stato rotto il pieno controllo mediatico da parte delle élite conservatrici. Al massimo vi sono stati affiancati media pubblici, a volte molto dignitosi, ma che mai hanno conteso a quelli tradizionali la costruzione di senso che attribuisce sempre al nero la devianza, al povero l’oziosità e al politico progressista la corruzione.

7) La calunnia è un venticello e i monopoli mediatici, come la giustizia di una parte della magistratura, non hanno bisogno di essere politicizzati per sapere dove spira il vento, col lawfare contro i governi progressisti con l’America latina restituita al suo destino subalterno. Solo le cronache di ieri raccontano di leader e militanti popolari e sociali uccisi in Perù, in Colombia, in Venezuela (eh sì…) e in Messico, mentre la “Carovana migrante” dall’Honduras verso gli Stati Uniti, sta rimarcando il segno delle vene aperte del continente. Che nessuno mette più in discussione.

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Brasile: contro il fascista Bolsonaro, a fianco della sinistra sociale e politica

di Marco Consolo (articolo tratto da rifondazione.it)

L’onda lunga conservatrice, populista e xenofoba, quando non apertamente fascista, ha travolto anche il Brasile. Nel continente latino-americano ieri si è consumato l’ultimo atto della contro-offensiva degli Stati Uniti e delle oligarchie locali contro i governi di sinistra o progressisti.

Al secondo turno, ha vinto l’ex-militare Jair Bolsonaro, riuscendo in pochissimi mesi a passare da un misero 13% dei sondaggi al 55% di ieri, grazie ad una spregiudicata campagna elettorale fatta con strumenti moderni, l’uso e abuso delle reti sociali con le “fake news” contro gli avversari, il rifiuto del confronto diretto, e l’appoggio delle chiese evangeliche, dei latifondisti, della Confindustria locale e di importanti settori delle FF.AA.

Il voto “anti-politica” del Brasile ha chiesto più “sicurezza” ed ha voluto punire tutto ciò che era percepito come riconducibile a scandali di corruzione, a partire dal presidente golpista uscente Temer. Oggi la stessa democrazia è in serio pericolo, minacciata da un neo-Presidente fascista, che promette di liquidare i “rossi” e farli “marcire in galera” e che accusa i movimenti di “terrorismo”.

Bolsonaro sarà un fedele alleato di Trump, della destra oltranzista latino-americana e di quanti fanno dell’anti-comunismo e del populismo una dottrina, a cominciare da Salvini, corso a complimentarsi.

Solo Lula avrebbe potuto vincere, ma ben sapendolo i poteri forti hanno lavorato per toglierlo di mezzo in tutti i modi, fino all’ingiusta condanna e reclusione. In una situazione difficilissima, il 45% della formula Fernando Haddad-Manuela d’Avila è un risultato importante da cui ripartire.

Adesso, per essere credibile,  la sinistra deve difendere la democrazia e ripartire dal basso. Dal movimento delle donne che si è dimostrato forte ed instancabile, dai movimenti di massa come i Sem  Terra e i Senza Tetto, dalle lotte sindacali, che devono unificarsi contro il governo che agirà secondo le ricette avvelenate neoliberiste,  con le privatizzazioni delle immense risorse, la concentrazione della ricchezza nelle mani dell’oligarchia, con la cancellazione dei diritti, la repressione dell’opposizione, oltre che la pressione contro i BRICS, l’integrazione latino-americana, i governi popolari e di sinistra, a cominciare dal Venezuela e dalla Bolivia.

Rifondazione Comunista riafferma la propria solidarietà con la sinistra e i movimenti sociali del popolo brasiliano, contro il fascismo, per la democrazia, per la riaffermazione dei diritti e contro le discriminazioni.

Marco Consolo è responsabile Area Esteri, Partito della Rifondazione Comunista- Sinistra Europea

Redazione
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