Boves 1943: una storia di partigiani

Dunchi, Vian, la guerra, la morte, il domani: palpiti di ruvida consapevolezza

di Mauro Sonzini (*).  Per ricordare Ignazio Vian, impiccato per rappresaglia sabato 22 luglio 1944, e gli altri partigiani che combatterono per la nostra libertà.

 

Della Resistenza – scontato ma è bene tenerlo presente – autentici protagonisti sono stati i partigiani. Improbabile accozzaglia di figure diversissime, quasi sempre inadeguate al compito. Che nessuno loro affida ma di propria sponte si issano sulle spalle e nel migliore dei modi cercano di condurre a buon fine. Quale sia il migliore dei modi l’ignorano ma nel proprio intimo sono fermamente determinati a capirlo e farvi fronte. Per se stessi, per i propri compagni, per i propri cari. Per i propri connazionali. Per ciò che vien loro dal passato. E per ciò che di loro s’inoltrerà nel futuro. Il proprio. E quello di tutti.

È generazione di cui tanto s’è detto, durata al massimo venti mesi, poi, col venir meno della mission, assottigliatasi man mano ed esauritasi. La cui impronta però tuttora rimane vivida, intensa, profonda. Tanto che, appena davvero le si lascia voce, ancora la s’intende vibrare in ogni riverbero.

Così emerge nelle testimonianze scritte o filmate, così avviene nelle pagine di memoria che ci hanno lasciato, sovente poco considerate per dimensione localistica, eppur fervidi crogioli di riflessioni e sentimenti d’altissima e universale portata civile. Non è letteratura, è storia. Di più: è vita.

Così è per il frammento che desidero introdurvi. Ignoro se la legge sul copyright lo consenta ma, dato che vuol esser invito alla lettura e all’apprezzamento dell’autore e dei grandi uomini che vi sono narrati, auspico mi sia concesso. D’altronde, com’è giusto che sia, a me nulla ne viene. Un “Bravo!”, forse. Assai invece ne viene alla conoscenza e alla consapevolezza degli uomini. Ciò per cui gli stessi partigiani hanno deciso di mettersi in gioco.

Boves, provincia di Cuneo. Paese celebre per la prima, clamorosa e terribile rappresaglia su civili italiani ad opera di reparti nazifascisti. Era domenica 19 settembre 1943. Solo una decina di giorni ci separava dall’armistizio dell’8 settembre: sino allora eravamo alleati. Ma nemici ancora non eravamo: al momento avevamo solo scelto di cessar di combattere gli angloamericani. 18 uccisi. Fra loro vengono arse due emblematiche figure della comunità, il parroco don Giuseppe Bernardi e l’imprenditore Antonio Vassallo che pure s’erano con successo spesi a mediare a favore dei nazisti. 350 case bruciate con centinaia d’animali.

Sabato 11 dicembre 1943, S. Giacomo di Boves. Dal giorno dell’olocausto sono trascorsi due mesi: tutto pare diverso. Gran parte dei ribelli se ne sono andati, chi a casa, chi altrove, chi chissadove, qualcuno, per comodità, o forse per costrizione, persino fra le fila fasciste. Altri, molti meno, sono invece rimasti. Ma si sono resi evanescenti: fanno qua e là qualche azione, qualche colpo. Tutti sanno che ci sono ma nessuno sa o vuol sapere dove.

Anche i nazisti non sono più comparsi. Se ne stanno a Cuneo a presidiar le statali su cui sovente corrono su e giù. Vanno e vengono invece i neofascisti che però ben si guardano da azzardar movimenti o imbarazzanti domande. Torneranno ancora, insieme ai nazisti, ancora uccideranno, ancora bruceranno, a inizio 1944 e, ancora, alla vigilia della Liberazione.

In tale veduta uno sguardo quasi piovuto a caso. S’intravvedono personaggi. Alcuni lontani, lontanissimi, vere e proprie ombre. Altri invece vicini, vicinissimi, tanto l’esile lume della vita e della storia a dismisura li ingigantisce sulle pareti che s’alzano attorno. I lontani, più irrimediabilmente lontani di quel che a prima vista pare, sono il ventenne insegnante bovesano Erio Baudino, il ventenne artigiano cuneese Giovanni Fiandrino, il ventiduenne avellinese di Lacedonia Michele Balestrieri, il venticinquenne sergente inglese Benjamin Mitchell: partigiani feriti e catturati pochi giorni prima nella battaglia per la libera città di Vinadio, sono ricoverati in ospedale e operati in laparotomia. Li s’immagina perciò in quieta degenza, tanto che già si comincia a preventivare l’azione per sottrarli all’ospedale e dar loro serena convalescenza pur in clandestina libertà. Discosto, ancor più in penombra, il ventottenne manovale cuneese d’origine goriziana Edoardo Cumar, pugile di passione, cui i repubblichini affidano sevizie sui ribelli catturati cui fracassa i polmoni. C’è pure, addirittura fuori quadro – s’ode o s’immagina la voce – il sottotenente partigiano Vincenzo Uccio Spina: pensoso, sussurra “Stormy weather”.

Avanti si fa invece il sottotenente Renato Testori, nato il 21 marzo 1915 a Cannero Riviera sul lago Maggiore e spostatosi a Cuneo dove, fra incessanti rischi, brucia le sue giornate in ininterrotti movimenti essendosi assunto incarico di mantener stretti contatti fra le bande e i loro referenti politici, i Comitati di Liberazione Nazionale. E, insieme a lui, pur se quasi mai li vede assieme, in bicicletta si profila la fidanzata Lucia Boetto, nata il 15 dicembre 1920 a Castelletto Stura in provincia di Cuneo. Entrambi mica recano solo messaggi: in tempi ridottissimi e qualsiasi condizione fisica o ambientale, muovono lettere, documenti, vestiario, non di rado armi, persino, talora, esplosivi. E perenni, sul volto, sorriso, empatia e speranza. Perché anche di questo c’è urgenza.

Protagonista per eccellenza è l’autore, il ventinovenne carrarese Nardo Dunchi, tenente del Genio, spirito temerario e vivace quanto indipendente e insofferente, anarchico persin più d’indole che di modi e di pensiero. Di lui Enrico Martini Mauri dice: “Dunchi ha della guerra partigiana un’idea tutta sua: vorrebbe squadre di prima linea, mobili, inafferrabili, con compiti più che altro terroristici, e uomini solo a far la guardia e nascondere il materiale”. Lo capiranno tutti, poi. Qualcuno lo farà pure. Ma a novembre 1943 Nardo pare un alieno. Per fortuna la sua intrepidezza gli conquista fiducia e credibilità. Diverrà affermato scultore.

Ancor più maestoso si profila Ignazio Vian. Recepite le tante debite differenze, in sé ha un che di tragico che lo ravvicina a Giovanna d’Arco. Prima della guerra era quieto maestro, non militare di professione, neppur studente in Accademia o Scuola di Guerra. In guerra è tenente nella Guardia alla Frontiera, corpo non certo votato al combattimento, né risulta aver preso parte a chissà quali combattimenti. Vien da chiedersi: “Chissà che gli è preso?”. La risposta è semplice: dinanzi alla generale dissoluzione, dinanzi alla collettiva diserzione dalle responsabilità, egli in sé assorbe ogni inderogabile impegno, costi quel che costi, oneroso che sia. Scatta fuori dai ranghi e, con coraggio, fermezza e intensità, fa ciò che riesce. Così però si fa roccia cui altri s’appigliano. Col tempo molti se ne staccheranno, alcuni, pochi, gli rimarranno devoti. Stretto nel suo personaggio, Ignazio, l’eroe di Boves, diverrà ingombrante, anche quando cercherà di rientrar nei ranghi, di farsi piccolo, da parte. Finirà catturato. In carcere alle Nuove di Torino, temendo di non saper resistere alle torture trascinando nel baratro con sé i compagni, arriverà a tagliarsi le vene, estremo gesto per un credente come lui. Lui pure verrà salvato e, ciononostante, condotto al patibolo. È medaglia d’oro della Resistenza.

Al sipario di tale sorta di libretto di sala, il testo:

NARDO DUNCHI

«MEMORIE PARTIGIANE»

La Nuova Italia, Firenze, 1957

pp. 101-104

(riedito da L’Arciere, Cuneo, nel 1982, poi dal Comune di Carrara nel 2005)

Verso sera, a San Giacomo, cominciò a sentirsi odore di pioggia nell’aria. Difatti prese a scender rada, a grosse gocce verticali. Si smorzava sul terreno coperto di neve. Poi cominciò a soffiare il vento. Lo sentivo investire, fischiando, i nudi rami degli alberi. Mi ricordava giornate di rifugio, in alta montagna, passate a guardar dalla finestra folate di nebbia salire, portate dal vento che fischia sugli angoli del rifugio, su pei versanti. Spina avrebbe di nuovo ripreso a cantare, forse stava già cantando, “Stormy Weather”.

Quand’era quasi buio, col vento e la pioggia, arrivò Testori. Cercava Vian. Andammo insieme a trovarlo. Veniva per incarico del Comitato: avevan saputo che al mattino sarebbero stati fucilati i nostri compagni. Spiegò che avevano fatto il processo mentre i medici li stavano operando, che eran stati appunto i medici ad avvertirli. I fascisti avevano accerchiato di mitragliatrici l’ospedale, una ogni angolo, un tenente e una squadra ogni arma. Pareva avessero paura matta di noi. Il Comitato ci chiedeva se potevamo fare qualcosa.

Vian guardò l’orologio al polso. Era già l’ora del coprifuoco. Fissava i travi del soffitto della camera, pensieroso. Alla fine disse che la difficoltà stava nelle mitragliatrici e in quell’ora tarda. Non se la sentiva di sacrificare altri uomini per non cavar poi un ragno dal buco. Bisognava saperlo prima: allora ci saremmo vestiti in borghese, saremmo scesi in città prima del coprifuoco, giusto come semplici cittadini, quattro o cinque a ogni mitraglia per spazzarla con le bombe a mano, mentre un gruppo sarebbe entrato dentro l’ospedale a prelevare i feriti, e un altro, a una data ora, ad attaccare il posto di blocco sul ponte a Borgo Gesso. Quella sera non c’era più tempo e possibilità. Poi sperava che la notizia non fosse vera, che fosse infondata. Pareva impossibile che degli uomini potessero fucilare tre ragazzi operati di laparotomia il giorno avanti. Perché dunque farli operare? Tanto sarebbero morti da loro, senza l’operazione. Certo, doveva esser notizia infondata.

Testori ripartì sotto la pioggia, in bicicletta, col vento che gli faceva far le ali all’impermeabile. Sarebbe venuta Lucia ad avvisarci, al mattino, caso mai fosse come noi pensavamo. Avremmo allora organizzato il colpo per la sera dopo.

Rientrai nell’osteria di Castellar. Ero solo. Non sentivo sonno e mi sedetti presso la stufa, a fumare. Il vento, fuori, continuava a fischiare sui nudi rami degli alberi. Sembrava urlo di lupo, lugubre, in una landa coperta di ghiaccio. Ogni tanto m’allungavo sul tavolino, finché mi facevano male le ossa. Allora m’alzavo e andavo alla finestra e l’aprivo. Entrava aria fresca, non fredda. Guardavo la pioggia scender illuminata dalla luce. Era sempre pioggia di grosse gocce, rada, triste, uggiosa. Ripensavo a quel film della mia infanzia. Rivedevo gli aviatori partire, il vento delle Ande investir le strutture dell’apparecchio e l’apparecchio precipitare nelle gole dei monti. Rivedevo le donne piangere e gli altri aviatori, al campo, sedersi al pianoforte e cantare. Avrei dunque dovuto comportarmi così anch’io? Domani all’alba mettermi a cantare? Capivo che gli aviatori avevano ragione, che facevano bene a cantare, perché lavoravano per il progresso di tutti e per questo morivano. Li avevo visti morire nel film, morire da posta, ma certamente erano morti sul serio, gli altri, i veri aviatori che avevano tentato per primi di sorvolare le Ande.

Ma noi, noi come potevamo cantare? Sì, è vero, combattevamo per il bene di tutti, di quegli stessi che ci uccidevano. Ma il mondo, intorno, era così buio, così disperato, che anche la perdita di un solo compagno ci appariva irreparabile: una luce che si spegneva in un mondo sommerso dalle tenebre. E poi, come non sentir la mostruosità di quelle uccisioni? Come non ribellarsi all’idea che degli uomini potessero uccidere freddamente altri uomini, già feriti, forse già moribondi? Che orrore era questo?

Verso l’alba entrò Vian, portando con sé un forte odore di pioggia. Chiese se ero andato a dormire. Feci cenno di no colla testa.

Non si deve pensare ai nostri compagni in quel modo” disse.

Non risposi.

Tu tremi”.

Non ho dormito”.

Hai fatto male. Se tu avessi dormito, avresti ora il sistema nervoso calmo. Quando si è calmi, si vede tutto sotto una luce più chiara”.

Quanto a chiaro ci vedo anche troppo – replicai – Il fatto è che non posso concepire tutte queste barbarie”.

Ci sono e bisogna cercare d’eliminarle – disse lui sempre con calma – E non c’è altro modo, oggi, che ricambiare piombo con piombo”.

Piombo con piombo?” – dissi, incerto, sorpreso, come dubitassi d’aver ben capito.

Piombo con piombo” era frase famosa di una famosa canzone che avevo spesso sentito cantare al mio paese. Ma non credo che Vian la conoscesse. Perciò ritrovare sulle labbra di lui – cattolico e monarchico di pura fede – le stesse parole degli anarchici, mi sembrò significativo, addirittura illuminante: c’era evidentemente qualcosa di comune e di molto profondo che ci stringeva tutti – cattolici ed anarchici, liberali e comunisti, repubblicani e monarchici – in quella disperata battaglia contro il fascismo.

Piombo con piombo?” ripetei, guardandolo ora con ammirazione.

Sì – rispose – Non si sfugge”.

Tacque un momento. Poi s’alzò e, avvicinatosi alla finestra aperta, guardò fuori, nell’alba piovosa. La sua figura, i suoi movimenti esprimevano grande forza di volontà, un’irriducibile energia morale. Ma quando si girò di nuovo, per riaccostarsi al tavolo, vidi nei suoi occhi tondi una fissità dolorosa.

Ricordi Cumar, il pugilatore?” chiese.

Me n’avevano parlato a Vinadio, la sera prima dell’attacco all’aeroporto di Levaldigi. Sapevo che era stato ucciso e che i fascisti imputavano quel “colpo” a me.

Era un pezzo di giovane – continuò Vian – Eppure abbiamo dovuto eliminarlo. E così sarà per altri. Si capisce che qualche volta tocca anche a qualcuno di noi. Ma noi sappiamo di lottare per una causa giusta. Perciò non dobbiamo tremare. Cumar, invece, ha tremato. Trema sempre chi è dalla parte dell’oppressore”.

Ma a me succede perché non ho dormito”.

Va bene, purché sia così”.

Accesi una sigaretta, mentre Vian passeggiava lungo la stanza, in silenzio. Ogni tanto si fermava alla finestra a guardare, verso il fondo valle, il pezzo di pianura che s’intravvedeva nel grigiore dell’alba. Guardava la pioggia cadere di là dai vetri della finestra, sempre a grosse gocce, sempre rada. Il vento continuava a fischiare sui rami degli alberi.

Si aprì di nuovo la porta. Stavolta rimase aperta senza nessuno nel rettangolo. La pioggia picchiettava nelle pozzanghere, sulla piazza spalata dalla neve.

Poi sull’uscio apparve Lucia, con dietro un ribelle che s’era fatto di lato per cederle il passo. Lucia indossava un impermeabile di cellophan celestino, col cappuccio. L’impermeabile era imperlato di pioggia e Lucia aveva il volto bagnato. Restò sull’uscio, senz’entrare, a guardarci.

Poi si nascose il volto tra le braccia umide di pioggia e ruppe in un singhiozzo. Li avevano ammazzati al Tirassegno, dopo averli portati a braccia e seduti sopra le seggiole. Avevano gridato “Viva l’Italia libera!”.

Uscii sul piazzale, nella pioggia di quel tardo autunno.

Il frammento si chiude così.

Rimaniamo sospesi. In attesa di qualcosa. Che so, un’esplosione di dolore, un uragano di collera, un irrinunciabile proposito di vendetta.

Nulla.

Non serve.

Già tutto era a monte. Come se i partigiani avessero affondato la mano nel cuore dell’essere umano e, per primi, avessero raggiunto e arpionato quel cancro di cupa e cieca violenza che ci divora da quando siamo venuti al mondo, e abbiano con forza cominciato a tirare, per cavarlo fuori, estirparlo, eliminarlo.

Sulla strada della Liberazione occorre proseguire. Oggi come allora.

Verso il domani.

NOTA A MARGINE

Ignazio Vian – qui sotto una sua foto – muore a ventisette anni impiccato per rappresaglia sabato 22 luglio 1944 in corso Vinzaglio a Torino. Insieme a lui nello stesso modo vengono uccisi il trentenne contadino Battista Bena e il quarantaquattrenne commerciante Felice Briccarello, entrambi di S. Giusto Canavese e legati alla 18a brigata Garibaldi, e il diciottenne meccanico torinese Francesco Valentino, esponente dei Gap di Torino. A dicembre 1943, insieme all’amico e compagno Dante Di Nanni, Francesco era però salito a Boves a combattere da partigiano proprio al comando di Ignazio Vian. Anche a loro la nostra riconoscenza.

(*) Mauro Sonzini è studioso di Resistenza e Democrazia. Abbiamo ospitato altri suoi scritti in “bottega”

MA COSA SONO LE «SCOR-DATE»? NOTA PER CHI CAPITASSE QUI SOLTANTO ADESSO.

Per «scor-data» qui in “bottega” si intende il rimando a una persona o a un evento che il pensiero dominante e l’ignoranza che l’accompagna deformano, rammentano “a rovescio” o cancellano; a volte i temi possono essere più leggeri ché ogni tanto sorridere non fa male, anzi. Ovviamente assai diversi gli stili e le scelte per raccontare; a volte post brevi e magari solo un titolo, una citazione, una foto, un disegno. Comunque un gran lavoro. E si può fare meglio, specie se il nostro “collettivo di lavoro” si allargherà. Vi sentite chiamate/i “in causa”? Proprio così, questo è un bando di arruolamento nel nostro disarmato esercituccio. Grazie in anticipo a chi collaborerà, commenterà, linkerà, correggerà i nostri errori sempre possibili, segnalerà qualcun/qualcosa … o anche solo ci leggerà.

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