Brasile: il golpe parlamentare ha avuto inizio

Dalla Camera dei Deputati arriva l’ok all’impeachment contro Dilma Rousseff. Si tratta di un duro colpo alla democrazia brasiliana, al pari di quello del 1964
di David Lifodi (*)

Una bara nera con sopra scritto a caratteri cubitali il nome di Dilma Rousseff: così l’opposizione antipetista ha sancito il colpo di stato in atto in Brasile. L’approvazione della Camera dei Deputati brasiliana del procedimento di impeachment nei confronti della presidenta dovrà ora passare dal Senato, ma è chiaro che i numeri sono del tutto sfavorevoli a Dilma e, nonostante Rousseff abbia comunque 180 giorni di tempo per difendersi di fronte alla Corte costituzionale, i golpisti guadagneranno ulteriormente terreno.

Una delle chiavi del colpo di stato potrebbe risalire al 2011, quando Dilma Rousseff iniziò la sua opera di pulizia degli organismi pubblici in chiave anti-corruzione. A farne le spese fu Eduardo Cunha, presidente della Camera dei Deputati attorno al quale ruota tutta l’operazione Lava-Jato. Mettendo fine al controllo di Cunha sull’impresa Furnas, Rousseff cominciò a farsi nemico uno tra i personaggi politici più corrotti del paese. Il duello proseguì il 17 luglio 2015, quando lo stesso Cunha fu accusato di corruzione dal Procuratore generale della Repubblica Rodrigo Janot. Di fronte al propagarsi dello scandalo corruzione, Dilma non ha mai cercato di bloccare l’operazione Lava-Jato, nonostante le evidenti arbitrarietà del giudice Sergio Moro, noto per il suo schieramento con l’opposizione e fortemente ostile a Rousseff. Peraltro, non si può far a meno di evidenziare lo scarso rilievo dato dalla stampa agli episodi di corruzione in cui è coinvolto il vicepresidente Michel Temer, quello che vorrebbe prendere il posto di Dilma con l’aiuto dello stesso Cunha. Se è vero che la corruzione rappresenta un motivo più che giustificato per la messa in stato d’accusa del presidente (come avvenne nel 1992 con la destituzione di Fernando Collor de Mello), è altrettanto evidente come non ci sia alcuna prova reale del coinvolgimento della presidenta in episodi di corruzione, aldilà del generico “non poteva non sapere” ripetuto continuamente anche dalla stampa italiana, Nonostante buona parte degli esponenti del Congresso siano accusati di corruzione, e sebbene la stessa Dilma Rousseff avesse capito che la trappola era stata tesa per lei, non si è mai opposta alle investigazioni della magistratura. Chi pensa che, a seguito del primo passo in direzione impeachment, una presidenza Temer sia migliore di quella di Rousseff si sbaglia di grosso, in primo luogo perché la crisi politica e sociale brasiliana si prolungherebbe. In secondo luogo, la presidenza Temer sarebbe al Planalto solo per favorire gli interessi delle elites e si scontrerebbe, ogni giorno, con l’opposizione dei movimenti sociali, della società civile e dei partiti di sinistra, anch’essi scesi in piazza nonostante i mezzi di comunicazione mostrino solo le immagini dei manifestanti di opposizione, contribuendo a dare l’idea falsata di un paese che cerca di scacciare un tiranno corrotto.

Nessuno ricorda che tra i principali alleati di Michel Temer c’è proprio Eduardo Cunha: fu lui che, il 2 dicembre 2015, accolse il processo di impeachment contro Rousseff. E ancora, che si tratti di una macchinazione per incentivare il caos nel paese e farlo virare a destra, si capisce dal fatto che Michel Temer, Aécio Neves (sconfitto per un soffio da Dilma in occasione delle ultime presidenziali) e lo stesso Cunha siano più volte citati nell’operazione Lava-Lato a proposito delle prebende legate alla multinazionale dell’edilizia Odebrecht. Su questa vicenda, però, il magistrato Sergio Moro non sembra avere intenzione di accelerare le indagini e appare evidente che il primo obiettivo dei politici che hanno sollevato il polverone contro Dilma Rousseff sia quello di far cadere il silenzio su questa indagine. Eppure, il destino politico della presidenta resta appeso a un filo, mentre un bandito politico come Cunha può permettersi di fare il bello e il cattivo tempo. La grande stampa è schierata all’unanimità contro Rousseff, nonostante che su 38 deputati che hanno votato a favore dell’impeachment in commissione, almeno 36 debbano fare i conti, a loro volta, con l’accusa di corruzione che pende come una spada di Damocle sulle loro teste. Tra gli esponenti del Partito del movimento democratico brasiliano (partito di centrodestra che ha sempre finito per determinare la politica brasiliana finendo sul carro del vincitore) figurano, ad esempio, Jorge Celada, indagato nell’ambito dello scandalo Petrobras e uomo vicino a Temer, Renán Caleiros e Eduardo Acuña, anch’essi sotto inchiesta per le stesse accuse. Come non utilizzare il termine golpe per definire tutto questo? Certo, per ora non ci sono i carri armati per le strade come nel 1964, quando fu deposto João “Jango” Goulart, ma una stretta alleanza tra il potere giudiziario e la Procura generale della Repubblica. Al tempo stesso, la destituzione di Dilma ad opera di una banda di corrotti capeggiata da Cunha, rappresenterebbe un pericoloso precedente poiché farebbe passare l’idea che un presidente democraticamente e limpidamente eletto possa essere rovesciato. In ogni caso, se anche Rousseff riuscisse a scongiurare l’impeachment, governare in una situazione del genere sarebbe un vero e proprio percorso di guerra. Già negli anni precedenti, Dilma, ma anche Lula, sono andati a braccetto con le multinazionali e raramente hanno dato vita a delle politiche realmente popolari, ma nonostante tutto vengono indicati, alternativamente, come corrotti oppure come comunisti sovversivi. In realtà, nel caso in cui Dilma passi indenne la tempesta, i movimenti sociali chiedono un radicale cambio di rotta, a partire dall’economia, la cui crisi è servita come detonatore per portare in piazza milioni di scontenti su cui ha avuto forte presa la strumentalizzazione della destra. Le piazze che festeggiano nel vedere la fine politica di Dilma sempre più vicina sono costituite non solo da cittadini scontenti o da conservatori liberali, ma anche da ampi settori neofascisti che hanno sempre guardato con simpatia alla dittatura militare. È per questi motivi che movimenti e sociali e sinistre, pur avendo fatto opposizione al Partido dos Trabalhadores e a Rousseff per la loro vicinanza con multinazionali e partiti centristi o di centrodestra (che infatti, alla prima occasione, hanno approfittato delle difficoltà della presidenta e l’hanno abbandonata), sono coscienti che, quello in corso, è un colpo di stato parlamentare messo in atto dalla destra brasiliana.

Secondo Raúl Zibechi, analista politico di Brecha e grande conoscitore dei movimenti sociali latinoamericani, sulla crisi brasiliana pesa, in primo luogo, la crisi economica, ma anche una crisi del lulismo e, più in generale, del Pt, su cui però non riesce ad imporsi alcuna forza alternativa poiché anche in Brasile, come del resto in Venezuela, l’opposizione ha come tratto unitario soltanto l’odio nei confronti del presidente, ma non ha un progetto politico chiaro per il paese. Se Lula aveva trionfato sfruttando la crisi di governabilità della socialdemocrazia di Fernando Henrique Cardoso e giocando sul popolare, quanto ambiguo, slogan Paz y amor, adesso il Pt è di fronte ad un bivio: o il partito torna davvero ad un’etica di sinistra e taglia i ponti con tutto quel sottobosco politico che ne ha decretato la sua crisi, oppure è forte la probabilità che dal caos si torni a quel neoliberismo che già da alcuni mesi prospera anche in Argentina.

In ogni caso, per ora, una cosa è certa: in Brasile è in corso un colpo di stato che, se andrà in porto, ridisegnerà definitivamente la geografia politica e sociale di un intero continente.

(*) tratto da www.peacelink.it del 18 aprile
David Lifodi
Sono nato a Siena e la mia vera occupazione è presso l'Università di Siena. Nel mio lavoro "ufficioso" collaboro con il sito internet www.peacelink.it, con il blog La Bottega del Barbieri e ogni tanto pubblico articoli su altri siti e riviste riguardo a diritti umani, sindacalismo, politica e storia dell’America latina, questione indigena e agraria, ecologia.

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