Brasile: razzismo e pregiudizi contro gli indios

di David Lifodi e Loretta Emiri

Alla fine hanno avuto ragione loro: per le comunità indigene del Brasile, che avevano fortemente contestato la Proposta de Emenda Constitucional 215/2000 (Pec 215), da cui sarebbe scaturito il trasferimento della demarcazione delle loro terre dal potere esecutivo a quello legislativo, si tratta di un pericolo scampato. Lo scorso 17 dicembre il Congresso ha respinto la Pec 215: se fosse stata approvata, il processo di demarcazione delle terre indigene avrebbe finito per paralizzarsi, oltre a prospettare un pericoloso passo indietro anche nel campo dei diritti socio-ambientali.

La votazione, svoltasi al termine di una durissima battaglia sui regolamenti del Congresso e dopo settimane di accesi dibattiti tra la bancada ruralista e le comunità indigene, è stata caratterizzata da un iter assai complesso, ma che alla fine ha segnato la vittoria non solo degli indios, ma di tutti i movimenti sociali uniti nella difesa dei diritti sociali e ambientali. In una lettera aperta rivolta ai brasiliani, l’Articulação do Povos Indigenas do Brasil (Apib) aveva denunciato che, attraverso la Pec 215, bancada ruralista e sostenitori dell’agronegozio intendevano togliere i diritti agli indios. Per l’Apib erano a rischio i diritti sanciti dalla Costituzione Federale del 1988, ma anche l’assetto democratico di un paese dove i ruralistas, noti per le loro simpatie con la dittatura militare ed appoggiati, al giorno d’oggi, da imprenditori, industrie legate al commercio delle armi e dalle corporazioni finanziarie, intendevano mettere in campo tutto il loro potere per assestare un duro colpo alle battaglie in difesa della terra e alla demarcazione dei territori indigeni. La questione dei grandi latifondi improduttivi e di enormi appezzamenti di terreno su cui, senza alcuna consultazione delle comunità indigene, i grandi proprietari terrieri e i partiti della destra invitano le multinazionali per la costruzione di centrali idroelettriche e la costruzione di miniere per l’estrazione a cielo aperto, caratterizzano un processo di progressiva spoliazione ai danni del popolo brasiliano tuttora fin troppo attuale. In questo contesto, la stessa Dilma Rousseff, nonostante la sua Carta aos Povos Indígenas do Brasil in campagna elettorale, ha colpevolmente tralasciato la pericolosa offensiva delle destre nei confronti dei popoli indigeni, pur dichiarando per prima la sua contrarietà alla Pec 215, al pari del Partido dos Trabalhadores (Pt). La sospensione della demarcazione delle terre, che talvolta è stata votata anche con l’avallo del Pt, ha contribuito a rafforzare le convinzioni dell’agrobusiness e dei ruralistas, decisi ad invadere i territori indigeni ed a sfruttare le ricchezze del territorio. E la stessa Dilma, nel corso delle ultime presidenziali, ha commesso un grave errore nel chiedere appoggio alla Confederação Nacional da Agricoltura (Cna) presieduta da Kátia Abreu, potente senatrice del Partido do Movimento Democrático Brasileiro (Pmdb) e conosciuta per il suo odio viscerale verso i Sem terra. Lavorare con Kátia Abreu e aprirle le porte del Planalto significa autorizzare i ruralistas a mettere in pratica un piano di distruzione delle comunità indigene. È per questo che, in un contesto politico comunque non favorevole, l’Apib ha rilanciato la sua battaglia per la demarcazione del 60% delle aree ancora non protette, l’applicazione del progetto di legge legato alla nascita del Conselho Nacional de Política Indigenista, che dovrebbe avere lo scopo di concentrare in un unico organo tutte le politiche legate alla questione indigena, e la reale attuazione del Subsistema de Saúde Indígena tramite il rafforzamento della secretaria Especial de Saúde Indígena(Sesai) dopo che, nei mesi scorsi, si era parlato più volte di un pericoloso progetto volto a privatizzare il sistema sanitario nelle stesse comunità indigene. E ancora, l’Apib si è fatta portavoce di un’istanza che garantisca un’istruzione di qualità nelle terre indigene, la difesa delle culture ancestrali, ma soprattutto ha chiesto che terminasse la criminalizzazione dei movimenti indigeni e sociali e la persecuzione dei loro leader. La battaglia per la Pec 215,  ritenuta incostituzionale, volta a bloccare la demarcazione delle terre e a rendere legale l’invasione e lo sfruttamento delle terre indigene già sottoposte  a demarcazione, è stata condotta soprattutto dai democratas del Pmdb, il cui scopo era quello di mettere in gioco i diritti di popolazioni storicamente discriminate, massacrate e costrette a rimanere ai margini della società, quali sono i popoli originari e le comunità dei quilombos. Sulla Pec 215/2000, presentata da Osmar Serraglio, deputato del Partido do Movimento Democrático Brasileiro, la polizia federale ha svolto un’indagine che ha svelato, tramite delle intercettazioni telefoniche, il tentativo di Sebastião Ferrera Prado, leader di un’associazione legata ai produttori rurali, di corrompere con il pagamento di 30mila reais l’avvocato Rudy Maia Ferraz, già vicino alla Confederação Nacional da Agricoltura, affinché elaborasse un parere favorevole alla discussa Proposta de Emenda Constitucional poco prima della sua presentazione alla Commissione speciale del Congresso. Il tentativo di corruzione fu scoperto lo scorso agosto durante un’indagine condotta nei confronti di un’associazione di stampo criminale che intendeva promuovere l’invasione di alcuni territori indigeni. Non bisogna dimenticare, inoltre, che la bancada ruralista ha comunque la possibilità di far si che la Pec 215 non sia archiviata, in modo tale da riproporla in questa nuova legislatura iniziata da pochi mesi. Al tempo stesso, oltre alle manovre parlamentari per affossare i diritti indigeni, non si può fare a meno di prendere atto del razzismo ancora oggi dilagante in Brasile. Lilian Brandt, antropologa e collaboratrice della Articulação Xingú Araguaia, ha elencato le dieci maggiori bugie volte a screditare gli indigeni. Tra queste, la più sconcertante riguarda la teoria che indios non esisterebbero quasi più e che il paese non è a conoscenza delle loro attività. Si tratta di un’affermazione facilmente smentibile: secondo quanto indica l’Istituto brasiliano di Geografia e Statistica (Ibge), in Brasile sono presenti 305 etnie indigene per un totale di 274 diversi idiomi. I dati dell’Ibge parlano, inoltre, di una crescita costante della popolazione indigena: gli ultimi dati, relativi al 2010, evidenziano che oltre 800mila brasiliani si dichiaravano indigeni. Un’altra bugia sugli indios, venata da un aperto razzismo, intende dimostrare che gli indigeni stanno perdendo la loro cultura poiché utilizzano cellulari, computer, indossano jeans e scarpe: come se gli indios fossero dei selvaggi rimasti all’età della pietra. E ancora: in Brasile non esiste alcuna forma di razzismo perché è un paese meticcio. In questo caso, sottolinea Lilian Brandt, si tenta di dimostrare che le differenze tra indigeni e il resto della società sono esclusivamente di carattere linguistico e culturale, ma, così facendo, emerge proprio il razzismo di coloro che ritengono le tradizioni e gli stili di vita degli indios inferiori rispetto a quelli del resto della società. Un altro stereotipo facilmente confutabile è quello secondo il quale gli indigeni sarebbero proprietari di enormi appezzamenti di terreno. Nel 1978 lo Statuto degli indios ordinò allo stato brasiliano la demarcazione di tutte le terre indigene. Solo nel 1988, con la Costituzione Federale, agli indigeni furono riconosciuti “i diritti originari sulla terra che tradizionalmente occupano, mentre compete allo Stato la demarcazione, la protezione e la tutela di quei territori”, come sancito dall’articolo 231. Inoltre, la Costituzione stabiliva un tempo massimo di cinque anni per la demarcazione di tutte le terre indigene, un impegno tuttora disatteso, con le multinazionali che sfruttano quei territori per la monocoltura della soia transgenica, l’estrazione mineraria ecc… . Tutte le menzogne sugli indios, osserva Lilian Brandt, sono ampliate e messe in circolo dai padroni del potere economico e dai signori che guidano le grandi corporations, interessati a dimostrare che l’opposizione delle comunità indigene ai loro progetti rallenta lo sviluppo del paese. Per capire meglio come e perché le menzogne sugli indios vengano fabbricate, possiamo analizzare un caso specifico, quello degli Yanomami. Essi occupano un’area di foresta tropicale nella regione di frontiera tra Brasile e Venezuela. Nei due paesi, totalizzano una popolazione di circa 32.000 individui. In Brasile, la maggior parte dei villaggi è localizzata a nord del tracciato della strada Perimetral Norte (BR-210), nella regione del Massiccio della Guiana. Costituiscono il maggior gruppo ancora in gran parte isolato dal contatto con la società nazionale. Nel 1974, la strada Perimetral Norte tagliò a sud il territorio yanomami. Le squadre di disboscamento, contrattate senza nessun controllo sanitario, penetrarono massicciamente nella regione portando le prime epidemie di influenza e morbillo, mortali per gli Yanomami. Nella regione del torrente Repartimento e fiumi Ajarani e Pacu, il contatto con gli operai della strada causò la morte di numerosi indigeni, riducendo tredici villaggi a otto piccoli gruppi di famiglie. Nel marzo del 1977, la seconda epidemia di morbillo dall’arrivo della strada ammazzò sessantotto persone, cioè la metà della popolazione dei villaggi Manihipi, Uxiu, Iropi. Nell’agosto del 1987 la Fondazione Nazionale dell’Indio ritirò dall’area medici, infermieri, scienziati, ricercatori e missionari. Il provvedimento governativo incoraggiò cercatori d’oro provenienti da tutto il Brasile a invadere l’area yanomami e isolò completamente gli indios dai loro alleati, impedendo così che si sapesse cosa stava accadendo. Nonostante l’area yanomami sia stata omologata nel 1992, attraverso decreto del Presidente della Repubblica, sistematici e stressanti continuano ad essere i tentativi di invasione da parte dei fronti di espansione della società nazionale, soprattutto dei cercatori d’oro e minerali preziosi, di cui il sottosuolo è purtroppo ricco. Nel caso degli Yanomami, a complicare loro la vita non sono solo gli invasori, ma anche esponenti del mondo accademico. Quando i giornali italiani si degnano di pubblicare qualcosa sugli indios brasiliani, nella maggior parte dei casi si tratta di notizie sensazionalistiche, folcloriche, distorte. Quelle cui la stampa dedica più spazio rimandano alle teorie del feroce antropologo nordamericano Napoleon Chagnon, secondo cui gli  Yanomami sarebbero violenti per natura. Ammantate di scientificità e pubblicate con scalpore, le argomentazioni di Chagnon non fanno che alimentare il preconcetto contro gli indios. Del preconcetto si ha bisogno per giustificare le guerre sante che portano allo sterminio di intere popolazioni, etnie, minoranze, categorie di persone. Perché non si ricordano gli antecedenti storici, i retroscena, l’altra faccia della stessa medaglia, gli interessi economici delle multi-trans-nazionali? Oggi smembrato dagli stati nazionali del Brasile e Venezuela, così strategicamente ben situato a livello di America Latina, il territorio yanomami è sempre stato guardato con cupidigia dagli Stati Uniti: vogliamo parlarne? Quando i “cattivi selvaggi” saranno stati tutti sterminati, non ci saranno più indios che occupano, proteggono e lottano perle proprie terre.

Guarda caso, a fomentare l’odio contro gli Yanomami, descrivendoli come esseri violenti e crudeli, è un nordamericano. Uno che, con i potenti mezzi di cui dispone, influenza scrittori, lettori e stampa internazionale. Tanto è che, nonostante studi concomitanti o successivi smentiscano ampiamente le sue teorie, i mezzi  di comunicazione di tutto il mondo continuano a dare spazio sempre e soltanto alle sue violente parole.

 

David Lifodi
Sono nato a Siena e la mia vera occupazione è presso l'Università di Siena. Nel mio lavoro "ufficioso" collaboro con il sito internet www.peacelink.it, con il blog La Bottega del Barbieri e ogni tanto pubblico articoli su altri siti e riviste riguardo a diritti umani, sindacalismo, politica e storia dell’America latina, questione indigena e agraria, ecologia.

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