Brasile: Volkswagen si scusa per aver sostenuto la dittatura

La casa automobilistica tedesca indennizza, fuori tempo massimo, i suoi ex lavoratori perseguitati dal regime militare (1964-1985) del quale ne aveva condiviso la politica economica e i metodi di persecuzione ai danni degli oppositori politici.

di David Lifodi

                                        Foto: https://contropiano.org/

C’è voluto molto tempo, ma alla fine Volkswagen ha ammesso il suo appoggio alla dittatura brasiliana (1964-1985) ed ha indennizzato i suoi ex lavoratori perseguitati dal regime, con buona pace di Bolsonaro, che ha sempre dichiarato di essere un sostenitore dei militari.

All’inizio di ottobre Volkswagen ha deciso di non tacere più sulla sua complicità nei sequestri e nelle torture del personale per compiacere i militari ed ha sottoscritto un accordo che prevede un indennizzo di 36 milioni di reais. A darne la notizia, sul quotidiano argentino Pagina/12, il giornalista Gustavo Veiga, al quale Tarcisio Tadeu García Pereira, che rappresenta l’associazione dei familiari della dittatura (compresi quelli della stessa Volkswagen), ha dichiarato: “Questo accordo rappresenta una pagina importante nell’attuale tenebroso scenario politico che avvolge il Brasile”.

Gran parte dei lavoratori della Volkswagen arrestati dal regime finivano nei luoghi di tortura del Dops, la polizia politica della dittatura, a partire da Heinrich Plagge, al quale è stata intitolata l’associazione presieduta da Tarcisio Tadeu García Pereira. Fu lo stesso Plagge, rappresentante sindacale all’interno di Volkswagen, ad essere convocato l’8 agosto 1972 dal direttore Ruy Luiz Giometti per essere arrestato e condotto nel carcere di Tiradentes, tristemente noto per essere uno dei peggiori centri di reclusione, come ha raccontato anche Frei Betto nel suo libro Battesimo di sangue.

Volkswagen ha sottolineato che l’indennizzo per i suoi ex lavoratori rappresenta “un passo importante per fare giustizia in Brasile”, soprattutto se pensiamo alla scelta della casa automobilistica tedesca di destinare parte del suo personale al controllo dei suoi lavoratori. Tuttavia, Gustavo Veiga evidenzia che questo (tardivo) ravvedimento di Volkswagen rappresenta comunque un tentativo di lavarsi la coscienza in un momento in cui sta licenziando un gran numero di lavoratori.

Firmato dal Ministério Público Federal di San Paolo, dal Ministério Público dello stato di San Paulo e dalla Procuradoria do Trabalho di São Bernardo do Campo, organo del Ministero del lavoro, l’indennizzo è stato reso possibile anche grazie alla pressante azione di lobby degli azionisti della casa automobilistica tedesca, oltre che da parte dei familiari delle vittime della dittatura.

Lo storico Christopher Kopper, dell’Università di Bielefeld, contattato dalla stessa Volkswagen, disse che all’epoca la casa automobilistica, almeno fino al 1979, aveva appoggiato apertamente la dittatura, condividendone gli obiettivi economici e di politica interna, e non si era limitata solo ad alcune dichiarazioni personali di vicinanza e sostegno ai militari. A confermare tutto ciò anche le dichiarazioni della polizia politica brasiliana che in più di una circostanza aveva ammesso la collaborazione con le strutture di sicurezza create dalla Volkswagen per tenere sotto controllo le attività degli oppositori politici, in particolare dei militanti comunisti, e dei loro organi di informazione.

In un’intervista rilasciata ad Opera Mundi nel 2018, l’ex funzionario Lúcio Bellentani raccontò di esser stato aggredito, fatto prigioniero e torturato all’interno della fabbrica Volkswagen di São Bernardo do Campo in qualità di delegato sindacale e di membro del Partito Comunista. Dopo aver trascorso circa 9 mesi nelle mani del Dops, Bellentani ne uscì vivo, assolto per mancanza di prove al termine di un lungo processo, ma condannato tuttavia a 2 anni di carcere a Brasilia con la surreale accusa di attivismo sindacale e di organizzatore di una cellula del Partito Comunista all’interno di Volkswagen.

Il pentimento di Volkswagen, dovuto più che altro ad un tentativo di ripulire la propria immagine, arriva senza dubbio fuori tempo massimo, ma rappresenta uno smacco per Bolsonaro, il quale ha sempre dichiarato che l’errore della dittatura fu quello di torturare invece che di uccidere.

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Sullo stesso argomento ne ha scritto Teresa Isenburg, per Patria Indipendente: La fabbrica dei ricercati nazisti

David Lifodi
Sono nato a Siena e la mia vera occupazione è presso l'Università di Siena. Nel mio lavoro "ufficioso" collaboro con il sito internet www.peacelink.it, con il blog La Bottega del Barbieri e ogni tanto pubblico articoli su altri siti e riviste riguardo a diritti umani, sindacalismo, politica e storia dell’America latina, questione indigena e agraria, ecologia.

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