Breviario 19 – sentieri che s’incontrano?

un racconto di Mauro Antonio Miglieruolo (*)

A

1

C’era una volta un piccolo uomo, piccolo e brutto; e una donna bellissima. Che era rimasta tale, bella, nel corso dei molti anni durante i quali aveva accettato di condividere la vita con colui che aveva accettato anche di sposare (mal gliene incolse). Ma più che bella, era una sorta di incanto (fedele e inavvicinabile) che tutti gli invidiavano.

Non solo era stata bella: si era sentita bella; ed effettivamente era stata. Finché il ragnetto con il quale condivideva la vita, nel corso di un attacco di follia testosteronica, aveva presunto di potersi mettere con una che valeva sì e no un decimo della moglie, ma aveva vent’anni di meno (il che, arrivati a una certa età, sembra contare). La moglie ricevuta la notizia a mezzo di un semplice “me ne vado” buttato in faccia quasi con indifferenza, si era tenuta sul medesimo piano. Il distacco. Non aveva detto nulla, fatto nulla, neppure una lacrima, appena il soffio di un “eheee” che lui non seppe interpretare e che noi sì, sappiamo. Gli aprì la porta per facilitarne l’uscita e lo diffidò dal farsi rivedere da quelle parti.

Avrebbe fatto meglio a riempirgli la faccia di schiaffi. Riempì la propria, invece. Non appena lui uscì e nel seguito di tutta la notte. Si strappò i capelli e strappò i bei vestiti ai quali aveva tenuto, riempì la strada delle sue scarpe. E ululò alla luna, la prima notte di luna piena.

Andò peggiorando di giorno in giorno, il dolore che cresceva, il rispetto di sé stessa che s’approssimava allo zero. Quella sua bellezza, rara e delicata, utilizzò mille espedienti per distruggere. Non si trattò di un’assenza di cura della persona, quello sarebbe stato un minimo. Praticò un accanimento contro la sua stessa vita che in breve la ridusse a uno sbraitante animale portato al macello: il macello al quale si conduceva.

Poiché non poteva morire, era troppo giovane, rifiutò di vivere.

2

Quei suoi begli occhi che mai aveva usato per produrre diavoli nel corpo degli uomini, li piantò in quelli della sorella Signora Nostra dell’Amen e così sia, madre e fonte di tutto. Sfidandola. Ammazzami, quasi dicendole. Signora nostra dell’Amen, anche lei nulla, sorridendo. Non rispondeva a appuntamenti non suoi, non li prendeva in considerazione. Quei tentativi di occhi negli occhi, la morte rintuzzava evocando il ricordo delle volte (tante) che in essi, da vera poetessa, aveva scritto fatati poemi d’amore al marito. E che vuoi tu ora da me? Sciagurata… Ah, che sapeva amare la bellezza rara e delicata del nostro racconto! Sempre nel fuggevole dei palpiti del cuore, in quell’attimo magico tanto potente che riesce a dare un alt al tempo stesso. Attimi in cui nulla d’altro sembra possa essere. L’universo immobile. Guardando con un effetto di profondità che bisognava vederlo! Bisognava vedere come fosse in grado di aprire varchi verso l’Impossibile; provocare fratture dentro le quali, inserendosi, si può ascendere a dimensioni che ancora nessun poeta ha esplorato. Neanche si sono azzardati i poeti a guardare in tale aspetti.

Gli occhi, dunque. Occhi grandi, luminosi, l’iride blu viola color del mare al tramonto, verde e cinereo (e chissà cos’altro ancora) in attesa delle mille albe che rappresenteranno scene di trionfi. E i grazie a Dio per l’avvento del giorno, grazie all’Uomo che ha prodotto il Paradiso che giace lì accanto: grazie a sé stesso per averlo saputo riconoscere e rispettare. La nostra eroina che respira lenta nel leggero del sonno mattutino, sognando carezze sui capelli, che in effetti riceveva insieme a toccanti dichiarazioni d’amore.

Non è compito mio dire del resto mattutino (o notturno) nel quale si impegnavano; resto che per altro nessuno conosce. Non aveva confidenti la nuova Venere. Neppure il marito che, sopraffatto dalla fortuna che gli era toccata, della quale non si rendeva conto, non ritenne di doverla condividere, ripetendola nei racconti e anzi, ampliandola. Ah! Che donna! dicendo. Prudente. Muto. Per lungo tempo sedotto (poi non più) del modo silenzioso e passivo con il quale diventava tenera, arrendevole, bisognosa d’affetto più che di piacere! E il delizioso incarnato delle guance, sul quale lei stessa poi esercitò il peggio della distruzione… Come della bocca, alla quale dava forse troppo di frequente la parola; una bocca che non aveva bisogno di sottolineature per evocare desideri.

Per quanto bella, impossibile nasconderlo, altrettanto brutto il carattere. Polemica, litigiosa, dura, ostinata: ostinata persino (o specialmente) nell’errore. Non senza qualche ragione il marito se n’era andato proprio quando la ninfa era arrivata alle soglie dei quaranta, nel fulgore di una grazia che prometteva eternità, ma si ignorava se avesse potuto mantenerla; in favore di una che valeva esclusivamente perché poneva con prepotenza sullo sfondo la vecchiaia che l’uomo sentiva incombere.

3

In breve tempo si era ridotta nello stato in cui molti ancora la ricordano (quello pregresso scomparso nel nulla). Scarmigliata, le guance incavate, il colorito da malato terminale, la voce rauca, molti denti spezzati nelle cadute, d’una bruttezza rivoltante: ridotta a mendicare, girovagando per città e paesi. Con un odore che arrivava lontano. Restava alcuni giorni assente mendicando in giro, per poi tornare a casa, ubriaca fradicia, barcollando sulla strada in salita, una ultima bottiglia di vino in mano. La mano sinistra appoggiata al muro le dava l’appoggio e la spinta necessaria per salire. Le gambe a volte cedevano, la mano mai la presa sulla bottiglia. Tenuta alta in modo che non urtasse sul selciato e finisse in mille pezzi.

Impiegava non si sa quanto per percorrere quei pochi metri che la separavano dall’antro che era diventata l’abitazione. Casa povera, ma un tempo ordinata, pulita. Ora un nero di fuliggine, rifugio per scarafaggi, immondi animali che ogni notte invadevano le abitazioni vicine.

Quando però cadeva, la bottiglia salva, la sua dignità andava definitivamente in pezzi. Le bestemmie, i lamenti, le maledizioni e le urla. Cotta dal vino, finiva la cottura sotto l’imperio del sole, semisvenuta, ansimando, mentre i ragazzini di passaggio ne approfittavano per sollevarle la veste sulla pancia per poi correre via ridendo.

Non portava niente sotto.

4

Era questo il motivo per cui le pie donne del vicinato avevano iniziato (e poi continuato) ad accudirla? Forse. Forse temevano il suo mostrarsi senza vergogna, le parole infamanti che fiorivano facilmente sulle sue labbra, e infamavano lei anzitutto. Terribile vederla passare barcollando per la via, bestemmiando, maledicendo sé stessa e il mondo. Era uno specchio quello nel quale non amavano specchiarsi. Chi avrebbe potuto fornire a sé stesso garanzia che non si sarebbe mai lasciato precipitato in una uguale follia?

Intanto la donna, la ex donna, giorno dopo giorno continuava a salire i gradini del calvario della sua ideale crocefissione. Che ripeteva, che ampliava, cercando di coinvolgere tutto il vicinato. Una cerchia che si spingeva lontano. Molto più lontano di quanto già non potesse la sua voce di avvinazzata. Le parole, pronunciate a squarciagola, dall’alto del terrazzino – strappandosi i capelli, battendosi le guance, guance che nessun uomo aveva mai osato colpire e ora lei batteva come la pelle d’un tamburo. Quelle parole, ripetute nei sussurri e nel compiacimento del pettegolezzo e della calunnia, edificavano anche coloro che, lontani, quelle parole non potevano udire.

Conosceva i segreti di tutti, i più vergognosi e li spiattellava senza tema di contraddizione. Ma chi mai avrebbe osato? Chi avrebbe potuto? Superare la sua voce straziata, l’urlo che le nasceva dal petto, la rabbia permanente che la rodeva e faceva sì che la riversasse sul mondo, affinché il mondo intero ne fosse consumato?

Credo fossi l’unico, perché piccolo e innocente, ancora privo di veri segreti, a non temerla. Per questa unica ragione: l’essere suo svergognato e l’incuranza con la quale trattava la sensibilità comune mi sembrava non fosse destinata alla comunità. Fosse destinata a sé stessa. La temevo invece per quel fondo di furore impotente, di rivolta contro il tradimento, di paura e di dolore che condividevo e che avrebbero potuto portare anche me alla perdizione.

Anche voi.

5

Ne avevano tutti fin sopra i capelli, la pietà non era sufficiente a sopportarla. La nutrivano, scendevano in strada a mettere a posto la gonna per far cessare il peggio dello scandalo, nonostante sbraitasse e si rivoltasse. La tiravano su e la portavano di peso fino a casa. Poi, prima che si riprendesse e cominciasse a minacciare, si dileguavano nella frescura degli usci che serravano con cautela alle loro spalle. Tutte quante ansiose in attesa del fatale momento in cui sarebbe salita sul terrazzino, dove restava sotto il sole per ore borbottando, esplodendo poi imprevedibilmente in quelle sue interminabili geremiadi nelle quali i fatti erano veicolo della pena, il dolore, lo scandalo e l’invettiva per l’invettiva. Predicatrice formidabile si ergeva contro il creato annientando con le grida tutto ciò che aveva già annientato nel cuore.

Nel segreto delle stanze ognuna e ognuno si chiedeva: a chi toccherà questa volta?

6

Finì imprevedibilmente, dopo anni di subbuglio.

Un giorno, tornando a casa, barcollante e sputazzando odio, trovò sulla sua strada un ragazzino (dodici, tredici anni? Undici?) che riuscì a fermarla. Semplicemente facendo ALT con il palmo della mano messo in avanti. Parve un vigile. Ai vigili di solito rispondeva male, s’era fatta più di una notte in prigione per quei suoi modi spicci. Modi che la gente sopportava ma gli uomini di legge, alcuni uomini di legge, giudicavano inadeguati. Al ragazzino rispose impietrendo l’espressione.

La bottiglia, dalla a me, potrebbe rompersi.”

Che erano quelle confidenze? L’ubriacona non le accettava. Le usava, non sopportava fossero dirette contro di lei. Tuttavia non reagì. Nonostante il ragazzino avesse pronunciato una solenne scemenza. Come, rompersi? Non aveva mai rotto una bottiglia di vino, lei. Era celebre anche per questa sua facoltà che nessuno riusciva a spiegarsi. Facoltà in più di quella di essere pienamente al corrente delle segrete vergogne di tutti. Cadeva, si faceva male, sveniva, ma la bottiglia riusciva sempre a portarla a casa. Per rifinire lo stato di ebbrezza profonda nel quale si era infelicemente introdotta.

B

1

Gli dicevano, tanto per sfottere, diventerai qualcuno. Per subito dopo aggiungere, se sopravvivi a tua madre!

Era sempre pieno di lividi, striature sulla pelle prodotte dai flessibili ramoscelli d’ulivo, il periodo suo peggiore essendo proprio la Pasqua, abbondavano in quel periodo i verdi ramoscelli di pace.

Lividi e ferite varie gli dolevano, il vero dolore però era dentro. Dolore per sentirsi gettare in faccia quella che forse era verità. Verità vera di fede.

Puttaniere!” l’interpellava spesso la madre. “Diventerai un puttaniere come tua padre. Gli somigli. Proprio uguale a lui: un disgraziato traditore.”

Al mattino un pezzo di pane duro rubato alla dispensa e via di corsa, da vero traditore, a esplorare il deserto di felicità che caratterizzava le montagne. L’odore intenso delle erbe selvatiche, l’ombra degli alberi di fichi, i fichi stessi e i rovi che gli graffiavano le gambe… non se ne curava, restando immobile a guardare i precipizi che si aprivano qua e là, alla disperata, nella vertigine dei sassi bianchi del fiume asciutto di un torrente che tentava, in basso.

Aveva finito con l’accettare la sfida.

2

Dopo aver girovagato a lungo, in genere sotto il sole cocente del primo pomeriggio, raggiungeva il basso con salti di capriolo, balzando da un albero all’altro, afferrandosi ai cespugli; e quando non poteva altro lasciandosi scivolare lungo le pendici protetto appena da un riparo di cartone messo sotto le terga. Stava lentamente aprendo una strada per i futuri ebrei erranti di quei luoghi.

Giù, molto in basso, il greto del torrente. Piccoli grilli colorati balzavano da un sasso all’altro, migliaia di grilli. Le lucertole. Si affacciavano un attimo sui massi e scomparivano. Insieme al ronzio delle mosche attorno e sopra le feci d’uomini e animali. Quel che attraeva di più l’attenzione era un casale in rovina, distrutto da una qualche piena più impetuosa delle altre. Sopra la quale, al sicuro dalla piena, una grotta d’arenaria aveva ospitato e salvato gli abitanti della casetta. Era lì, in quell’angusto rifugio, allargato da generazioni di viandanti, che si concedeva di piangere. Si sdraiava di lungo e lasciava che lacrime scorressero. Senza singhiozzare, senza disperazione. Era il sollievo che cercava, non d’esacerbarsi ulteriormente.

A volte s’addormentava. Momenti fortunati che arrivavano senza che li cercasse. Fortunati in quanto in essi il tempo trascorreva senza che cercasse i modi di perderlo; trascorreva senza ricordi, abbandonato a sé stesso, ai ritmi del corpo. Si svegliava che era notte, obbligato a percorrere a ritroso il cammino del ritorno, a volte in un buio che gli procurava angoscia. La notte così sempre, porta angoscia. Anche quando rischiarata dalla misericordia perenne d’un pieno di Luna. In fondo, che gli importava a lui? Vedere non vedere, attento dove metteva i piedi… Importava forse a sua madre che l’attendeva a braccia conserte, il petto pieno di rimproveri.

3

Nel declinare dell’estate, come era successo altre volte, il bel tempo si ruppe e a metà del percorso fu costretto a cercare riparo.

Tempo una manciata di secondi e arrivava la piena. Impressionante vedere l’acqua allargarsi e avanzare inesorabile, occupando l’intera superfice del greto. Pochi minuti di indugio e sarebbe diventata inaffrontabile. L’acqua che scendeva tumultuando, portando con sé tronchi, fango, pietre, animali sorpresi nel corso dell’attraversamento.

Il ragazzo per fortuna aveva la grotta a portata di mano e vi si arrampicò vivace come una lucertola. Non penetrò nel più largo interno. Resto a un passo dall’entrata a fissare la furia della pioggia e quella ancora più temibile del fiume in piena. Immaginò un fuoco e sé stesso vecchio che allungava le mani per scaldarle, come aveva visto fare; mentre un canto gli usciva dal petto, un canto da sirena, che orientò nel furore degli elementi chi ne aveva bisogno.

Si trattò nuovamente di una manciata di secondi. Una figura temibile si affacciò, piegata in avanti per poter entrare, terribile nell’espressione, le unghie lunghe, l’espressione stravolta. La figura lo guardò e lui guardò la donna. Forse si riconobbero. O forse caddero ambedue nella coincidenza di un momento di pace interiore.

La donna comunque, arrogante come soleva, articolò: “Chi sei? Che vuoi? Vattene…”

Nello stesso tempo che sollevava la bottiglia, la sempiterna bottiglia, per tenerla al riparo dall’imprevisto. Il ragazzo equivocò. Pur nell’inattualità del momento, pronunciò la verità fondamentale della vita sua. Quella più profonda e segreta. Che lo feriva.

Non mi picchiare…”

In tono piano, in un soffio di richiesta che non era richiesta, non preghiera, era forse un affidarsi. Una sorta di istruzioni per l’uso.

La nuova venuta si immobilizzò nell’atto, divenne statua, da lupa ferina e talpa e serpente che era. Avrebbe dato un passo indietro non fosse l’intensificarsi della pioggia, che la sospinse invece avanti.

Scansati,” ordinò, come ostentando di non avere udito. C’era posto per tutti e due all’interno. Sedette e guardò fuori, il diluvio che stava scendendo, in uno scroscio ancestrale dato per lavare tutti i peccati del mondo.

Il fiume che già tuonava. Il rivoltarsi e lo schiumeggiare dell’acqua. Massi che rotolavano. Tronchi che vi sbattevano contro e l’un contro l’altro armati. Il finimondo.

Stettero ambedue seduti, ognuno chiuso nei propri affanni. Considerando. Il cielo quando decide di spaventare, non scherza.

La donna attenta alla bottiglia, il ragazzo alle striature che gli decoravano le cosce. Una ultima lacrima attraversò la soglia del dolore e ripeté in un soffio “non mi picchiare”. Non s’era mai permesso di chiederlo, per orgoglio o perché non appropriato. Un suo desiderio. Lo confessò due volte alla sconosciuta. Che attinse tranquilla alla bottiglia e con voce rauca avvinazzata sussurrò:

Eheee!”

Un “ehee!” piano che quasi non si udì. E che per esserne sicura d’essere stata intesa ripetè. “Eheee! Eheee! E ancora: “Eheee!” con tono e intenti sempre diversi

Pronunciò tutti gli “eheee” dicibili in quelle quattro volte. Poi tacque, in attesa “che gli eventi diventassero cosa”.

4

Fu in quello e per quello che fecero conoscenza e subito dopo amicizia. In funzione della quale poterono stare fianco a fianco, seduti a guardare la pioggia che scendeva, il torrente che ingrossava, la donna che continuava a sorseggiare dalla bottiglia e il ragazzo che sorrideva al niente e al nessuno di un periodo breve che, al contrario di tutti gli altri, effettivamente seppe essere eterno.

5

Provate a stare per ore a guardare, insieme alla persona che amate, gli elementi che infuriano. Neve, pioggia, grandine, stelle cadenti, il mare in tempesta… Qualcosa succederà in voi.

A e B

1

Il ragazzo prese la bottiglia, si fece circondare il collo da un braccio e portò su agevolmente la vecchia (ormai era tale, rinsecchita e brutta: credo non pesasse più di 40 chili)) fin dentro casa.

La porta restò aperta. Il che suscitò apprezzamento, dopo la meraviglia per l’assenza del rosario di insulti con le quali accoglieva ogni buona azione. Se ne parlò molto di quella porta aperta e della pace che invase il quartiere. Quel giorno seguente e il giorno dopo ancora.

Si parlò della porta aperta, del sonno in cui la donna era caduta, della circostanza più inaudita di tutte: quella di non affacciarsi al terrazzino per rovesciare sul vicinato il tormento dei mille diavoli che pestavano dentro e le producevano l’iperbole del dolore.

2

L’elemosina il giorno seguente la chiese alle vicine, mendicando un po’ di pane con il quale sfamarsi. Pane e acqua, non chiedeva altro. Gliene diedero. E tornò al gradino della porta di casa, sulla quale sedette e sgranocchiò quando ricevuto. Ma piano. Con cautela. Aspettando un poco, per verificare l’effetto che il cibo produceva nel suo corpo ormai abituato a non riceverne.

A una vicina che si avvicinò per porgerle un pezzo di frittata appena cotta, ancora calda calda, rispose con un garbo e un grazie tanto piena di dolcezza che la donna se ne fuggì, sconvolta, peggio che se fosse stata inseguita da un milione di male parole.

3

Trascorsero tre giorni prima che il ragazzino tornasse. Tornò con tre o quattro buste della spesa, bastanti per una settimana di pasti completi.

Questo è per la colazione. Latte e caffè solubile. Non è bene che cominci con il vino. Non fa bene…”

Dalla donna promanava un odore di alcool, insieme a quella della sporcizia, che prendeva alla gola.

Tu non tornavi,” si scusò lei. “E io…”

Lui le fece una carezza sui capelli, un tempo bellissimi, ora peggio di quelli di una strega. Sedette al suo fianco e restò a guardare il panorama del vecchio muro di fronte. Anche la donna. Guardando il muro. Il tempo per la visione lunga di un film, che elaborarono nelle loro teste, probabilmente; al termine del quale la donna si alzò e scomparì all’interno.

Poco dopo lo scroscio dell’acqua. Erano mesi (anni?) che non lo si udiva. Uscì che esibiva i suoi cinquanta anni, non i settanta di un’ora prima. Si era tagliata i capelli e li andava pettinando. Ne aveva lasciato appena un palmo…

Corti è più facile pettinarli,” spiegò. “Lunghi com’erano non sarei mai riuscita.”

Dietro le ante delle persiane accostate sguardi furtivi e coscienze sbalordite, direi quasi spaventate, osservavano. Mute, per l’assenza di parole con il quale commentare.

4

Restò per la notte, la porta sempre aperta. Ognuno poté constatare che dormivano per terra, lontani l’uno dall’altra.

Per fortuna era estate…

5

Il mattino seguente il ragazzo si avviò. La donna affacciata al balcone chiese:

Quando torni?”

Appena posso… li sai i miei obblighi di scolaro…”

Va bene, va bene, appena puoi. Non mi far aspettare troppo, però.”

Sarebbe stato meglio fosse stata lasciata aspettare. Mesi eventualmente, crogiolata nella sua nuova condizione. Perché dopo altri tre giorni, quando il ragazzo bussò alla porta e lei aprì, una voce di donna, rosa dalla gelosia, riecheggiò nella via.

Ah! È con questa puttana che perdi il tuo tempo, invece di studiare!”

E fu tutto un accorruomo (o fuggiuomo?) di persiane che si chiudevano e volti ansiosi che preventivavano guai.

6

Mamma, lascia perdere…”

Ma io ti ammazzo, sai. Io ti ammazzo!”

E giù botte. Date col palmo della mano. Poi con i pugni. Infine con un bastone reperito per strada, nella quale era scesa per cercarlo (forse lo aveva occhiato salendo). Il ragazzo sopportò. Senza neppure lamentarsi. Ma quando lei smise e iniziò a prendersela con la donna ch’era venuto a trovare, si erse in tutta la sua inerme figura di preadolescente, mutò in gigante, parimente dotato di voce possente e autorità.

Bada! Bada a quello che fai! O non mi vedrai mai più!”

Alla madre, neanche per l’anticamera del cervello. Alzò il bastone contro la figura inerme, la quale da tigre che era si era trasformata in agnellina; e che osservava l’inaspettato dalla soglia della casa. L’alzò con la severa intenzione di farlo calare sulla sua testa. Puttana! Gridando. E poi moltiplicando. Puttana! Puttana!

Non incontrò la testa della poveretta, ma la mano ferma del figlio. Che s’era dotato di una forza gigantesca. Le strappò il bastone di mano e la spinse, sbattendola contro il muro.

La madre lo fissò con occhi grandi, spaventata e inebetita nello stesso tempo. Non poteva crederci. Mai si era in precedenza ribellato contro le sue angherie. Mai.

Il ragazzo gettò lontano il bastone e si avviò lungo la discesa.

Dall’alto la voce preoccupata di quella che era stata una mendicante. E che tornò a mendicare.

Tornerai?” chiedendo.

Certo che torno. Stai sicura che torno.”

Ma questo non era nelle sue possibilità garantirlo.

C

1

Li vide arrivare dall’angolo della piazza in cui era la scuola. Dove lo erano andati a cercare. Quel giorno, in un estremo tardivo ripensamento, forse, la madre aveva voluto non ci andasse.

Adesso ci penseranno loro a te…” udì alle sue spalle.

Si seppe dopo della denuncia. Cosa che solo interiormente suscitò condanna e scandalo. Esteriormente no. Dopotutto aveva alzato le mani sulla madre, no? No, non le aveva alzate. L’aveva solo spinta, per impedirle di alzarle sulla sua nuova madre. O amica. O amante. Chi lo può sapere?

Il ragazzo invece dell’esistenza della denuncia seppe solo in quel momento. Non stette su a pensarci molto. Scappò dal retro della casa e poi di corsa attraverso un vicolo, che lo portò direttamente alla montagna. Sentì chiamare, l’offerta di perdono, il suo nome invocato inutilmente. Tardi. Troppo tardi per qualsiasi possibilità di indirizzare diversamente gli eventi.

Arrivò affannato in cima alla discesa del suo rifugio. Anche lì, all’inizio di quel ripido che aveva percorso tante volte, si sentì chiamare. Forse non era più tanto al sicuro e nel segreto, come era stato.

Non gliene importò. Procedeva senza pensieri, senza considerare, quasi senza vera meta. Procedeva per procedere, perché a quello era abituato e non aveva tempo per cambiare. Con una urgenza che derivava dal pericolo, l’avrebbero rinchiuso, il riformatorio, non più carezze sulla testa della sua nuova amica…

Affrontò a precipizio la discesa. Saltando da un albero all’altro, da un cespuglio all’altro… Mentre voci sempre più preoccupate e concitate chiamavano. Raccomandavano. Distraendo…

Imploravano (la voce di sua madre tra di esse?). Le udì senza udirle. L’unica a cui dar retta era l’ansia sua di fuggire, accentuando la sua fretta, l’appuntamento con il destino…

Mancò una presa, cominciò a cadere. Cadde quella prima volta e fu per sempre.

Il suo corpo in basso, su un masso, lo sguardo spalancato, senza più luce negli occhi.

Contemporaneamente il grido. Alle dieci, alle undici del mattino? Uscì dalla casa della vecchia, nell’ora stessa della caduta. Come se la morte avesse pugnalato lei, non il ragazzo in fondo alla scarpata. Il quartiere fu scosso da quel grido. Un grido straziato, straziò tutti.

Non c’era altro ormai per la donna. Non ubriacarsi, battersi il petto, strapparsi i capelli, dare scandalo, bestemmiare. Nessuna diversa possibilità che urlare e inoltrarsi negli oscuri territori dalla follia.

Fu solo il primo. Dopo, per molto tempo ancora, prima che arrivassero a portarla via, nella stessa ora lo stesso urlo. La disperazione.

Sia pace all’anima nostra.

(*) Avete presente il vecchio film «Cinque pezzi facili»? Il nostro Mauro Antonio ci ha regalato 10 pezzi facili. Evviva. Anzi 15. Evviva bis. I “breviari” sembravano finiti ma ora ne sono arrivati altri 4 – questo è il secondo – e poi… chissà. Qui in “bottega” ci siamo talmente emozionati (in buon italiano: incasinati) con la numerazione che dal 14 siamo saltati al 16 ma ormai è tardi per rimediare. O forse siamo pigri e dadaisti.

Miglieruolo
Mauro Antonio Miglieruolo (o anche Migliaruolo), nato a Grotteria (Reggio Calabria) il 10 aprile 1942 (in verità il 6), in un paese morente del tutto simile a un reperto abitativo extraterrestre abbandonato dai suoi abitanti. Scrivo fantascienza anche per ritornarvi. Nostalgia di un mondo che non è più? Forse. Forse tutta la fantascienza nasce dalla sofferenza per tale nostalgia. A meno che non si tratti di timore. Timore di perdere aderenza con un mondo che sembra svanire e che a breve potrebbe non essere più.

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