Breviario 7 – La pazzia

di Mauro Antonio Miglieruolo

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È bello essere pazzi. Specialmente se non si è furiosi.

Pazzi tranquilli, discreti. Che si limitano a vedere, non altro che vedere. Le visioni di un pazzo. Cioè di un savio. Il riuscire a vedere ciò che gli altri non vedono o non vogliono vedere. Coloro che vivono la vita seduti di fronte al mare e faticano ad ammettere il mare.

Sdraiati su un dondolo, in prossimità della spiaggia, è facile riconoscere il mare. Ammetterne la bellezza. Oppure le montagne innevate. E cascate, laghi, fiumi, belle donne, uomini che effettivamente sono tali.

Nello stesso tempo appare difficile veder il sudario di rabbia, dolore, stordimento che copre il deserto dell’anima.

Bisognerebbe alzarsi in piedi per farlo, guardare di lato oltre che di fronte. Sollevare gli occhi e abbassarli. Trovare tutti gli espedienti per arrivare alla multidimensionalità delle cose, al loro essere-non-essere nella moltitudine di corpi nel cui caos tendiamo a scomparire. Stelle come granelli di sabbia. Bisognerebbe anche scrutare dentro, pur continuando a guardare fuori. Apparirebbe allora quel che nemmeno si sospetta possa essere. Ma che, nonostante ogni cecità, è discretamente visibile.

Il surplus di realtà che rende quest’ultima tale, reale, concreta, netta, evidente.

Il pazzo è come il cacciatore che nel bosco nota particolari invisibili agli occhi di coloro che per la prima o seconda volta vi si attentano. Fiori, frutti, bacche, insidie, cacciagione. E il cittadino ignaro si accorge solo di cespugli, tronchi, augelli e stormir di foglie.

Tutto questo lavorio di occhi smaliziati gettati sulla realtà, ai pazzi allenati alla pazzia, nati nella pazzia, non occorre. Loro hanno integrata la capacità di scoprire i lati insospettati nelle cose. Le vedono in vertiginose prospettive che neppure i grandi pittori riescono a captare. Quando un pittore accede alla medesima dimensione ottica del pazzo diventa sublime.

2

È singolare che il medesimo non sia per gli scrittori; i quali, se inquinati da briciole di pazzia, faticano ad assumere la dimensione di grandi scrittori. Al massimo diventano scrittori falliti. Nessuno accetterà di leggerli, di lasciarsi trascinare dentro le loro follie, l’assurdo, l’imponderabile, quello che non c’è e forse ci sarà. Non hanno vita lunga, dopo la morte, tali scrittori; a volte non l’hanno – in quanto autori – neanche in vita. Li si leggerà e si concluderà non valga la pena. La ragione, gli occhi, i libri già stampati, suggeriscono tutt’altro che le follie donchisciottesche del davvero folle. Si volta pagina, allora, un sorriso e si passa ad altro.

3

Non ho pietà di loro, dei pazzi. Ho pietà di chi non li legge. Chi non accetta di impazzire per, all’interno del percorso della follia, approdare in un mondo diverso. Il mondo delle parole vere, della parola data, delle parole nuove.

Che follia quella dei pazzi, che fingono d’essere savi, per essere ascoltati. Per trovare riposo dal tormento delle loro visioni. Guardano il mondo e vedono il più che altera i lineamenti del mondo. Vedono ingiustizia e sopraffazione, vedono l’ipocrisia e la violenza dei violenti che accusano chi si difende di essere violento. Vedono quello che non c’è, ma è più significativo di quello che c’è. Le città del Sole, Atlantide, l’Unità tra Alto e Basso, il Comunismo, Tommaso Moro, Erewhon, Grosvenor il Connettivista… vedono la pietà e piangono perché capiscono che è morta.

Questa follia è possibile curarla con ulteriori dosi di follia. Volgendosi a sé stessi, per vedersi nello stesso modo con cui i pazzi osservano il mondo. Si guardano e si trovano ridicoli. Folli, appunto. Si guardano e si scoprono piccoli. Uomini appunto. Pazzi…

4

I pazzi ridono di sé stessi per l’irragionevole che praticano, e quante volte questo irragionevole diventa ragione! E ridono per i continui ritorni alla piattezza della norma, quando – capita anche questo – che ci ritornino. Si stancano di Sancio Panza, Mulini a vento e Dulcinee del Toboso; siedono davanti a uno schermo ultrapiatto e la rigida normalità del programmato assurdo sempre uguale penetra in loro.

Le sinapsi sopportano per quel che possono, poi la grande risata. Abbrancano quel che hanno intorno e sperimentano la verità appena scoperta. Che non posseggono. Sono posseduti. Diavoli dell’inferno, della Terra e del Cielo, spaventosi mutanti di Andromeda, New York e chissà cosa altro ancora che fortunatamente sfumano come nebbia al sole disgregati dalle onde sonore di quella gran risata.

E per fortuna!

Impazzirei, non sapessi già di essere un pazzo tranquillo: diventerei furioso.

 

Miglieruolo
Mauro Antonio Miglieruolo (o anche Migliaruolo), nato a Grotteria (Reggio Calabria) il 10 aprile 1942 (in verità il 6), in un paese morente del tutto simile a un reperto abitativo extraterrestre abbandonato dai suoi abitanti. Scrivo fantascienza anche per ritornarvi. Nostalgia di un mondo che non è più? Forse. Forse tutta la fantascienza nasce dalla sofferenza per tale nostalgia. A meno che non si tratti di timore. Timore di perdere aderenza con un mondo che sembra svanire e che a breve potrebbe non essere più.

3 commenti

  • Mariano Rampini

    L’appuntamento con l’amico Mauro è sempre intrigante. Non fosse altro che per la scelta dei temi che, di volta in volta, affronta. In questo caso, la follia, l’anormalità (?) della mente che induce a vedere ciò che non è o a ritenere reale ciò che non lo è. Già. Credo sia questo il primo bivio che si trova davanti: distinguere il visionario, il lunatico che mischia, nel calderone della sua fantasia, realtà e immaginazione, da chi, al contrario, per un perverso e maligno scherzo della natura, si trova al cospetto di “voci”, “demoni”, “paure” inspiegabili a se stesso e agli altri. Noi , in genere, siamo portati ad attribuire valore a ciò che il visionario ci offre perché, in qualche modo, è una rappresentazione della realtà, una pozione distillata nella quale riusciamo a scorgere elementi della nostra stessa esistenza. Questo rende riconoscibile ciò che il visionario fa e, a volte, si trasforma – anche qui per un’alchimia misteriosa – in arte, in qualcosa che avvicina il nostro comune sentire a quello dello stesso visionario. Dove invece crescono spine dolorose è l’altro mondo. Quello di coloro che non distinguono la realtà dal sogno o, meglio, dall’incubo. Perché quella che chiamiamo pazzia è (può essere?) una rappresentazione del dolore di coloro che, per sfuggire a se stessi o a una condizione inumana, proprio nell’inumano si rifugiano. Si parla, a volte, di “menti spezzate”. E si cerca di tenerle insieme con i rimedi più diversi: da quelli al limite della crudeltà (elettroshock, lobotomia) a quelli più pietosi come i famaci, certamente non meno crudeli nella loro capacità di annullare la persona bloccandone il più elementare diritto, quello di pensare. Parlo in questo caso di un’esperienza personale (per questo l’argomento mi tocca nel vivo) e conosco quali siano gli effetti dei potenti farmaci anti-schizofrenia, ad esempio. E continuo a soffrire per la nostra incapacità di affrontare un male insidioso solo e soltanto eliminando alla radice il problema. Perché la follia fa paura. Anche a chi la cura…

  • Soprattutto a chi la cura. E a chi dispone che invece di essere benvoluti, siano rimproverati , colpevolizzati, strapazzati tramite una cura.
    Pongo accanto a me, uno sulla destra, uno sulla sinistra, il normale (il folle che veste la normalità) e il folle (il normale che cerca scampo diventando folle) e dico loro: amici miei cerchiamo un punto di convergenza comune, finto o vero che sia. Poi raccontiamolo nello stesso modo. È l’unica per non uscirne con le ossa rotte.

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