Breviario 9 – Ritratto 1… di fumo

di Mauro Antonio Miglieruolo (*)

Pensate a un uomo molto piccolo, magro, nervoso anzi irascibile, una sorta di orco, voce gracchiante e minacciosa di basso profondo. Dovete pensarlo come lo descrivo, adoperandovi a intuirlo, se intendete capire qualcosa di lui; immaginarlo, condensarlo utilizzando l’inventiva. Altrimenti, non c’è scampo, di lui saprete niente. Saprete ciò che dicono le note mie, non quel che effettivamente fosse. Insigne, bravo, ossessionato professore di Calligrafia, consapevole del declino inevitabile a cui la sua professione era condannata. Posso solo aggiungere che era un gigante della minaccia, dell’urlo e dell’impotenza; che diventava travolgente potenza quando in sua presenza qualcuno tentava di aggiungere la parola “bella” alla parola “calligrafia”: erano urla, vere escandescenze, sputazzamenti a go-go. Gli «eh! Sciè!» (cioè scemi) si sprecavano. Alla cui conclusione, quasi diventata benevola, faceva partire sentenze inappellabili tipo: «zappaterra sei, zappaterra resterai».

Se non mi aiutate attivando l’immaginazione questo breve ritratto resterà senza esito. Senza che l’uomo appaia, senza che vediate il professore e i tempi infelici di una scuola che non sapeva di esserlo. Non era a causa – come si disse poi – degli eccessi di nozionismo (era anche quello) ma di civiltà del lavoro, di dignità delle persone, di orientamento ideologico politico: di lavorare a far cittadini, non sudditi timorosi incanagliti dalla follia di un corpo docente ingiusto e vano.

In special modo la necessità di collaborare sorge considerando le caratteristiche dell’uomo in questione: fatto di nebbia, perennemente avvolto nel fumo. Visibile all’incirca nei primi minuti di lezione e poi avvolto perennemente nella nuvola delle molteplici orrende sigarette – le Nazionali senza filtro – che bruciava in continuazione. Accendendo l’ennesima subito, con il mozzicone della precedente: un mezzo centimetro di carta e tabacco che accostava a una nuova appena infilata in bocca e tirando all’impazzata senza smettere di parlare. Sbuffando, emettendo grugniti e aspirando avidamente. Le dita che tremavano leggermente.

Era per questo che pollice e indice della destra apparivano nere carbonizzate e lui un tutt’uno di nicotina, urla belluine, voce rauca e gola bruciacchiata.

Non smetteva mai di fumare. Salvo che in presenza della Vicepreside, anche lei una tappetta micidiale, in grado però di farsi rispettare. Eh sì, le portavamo gran rispetto! A principiare dal professore di calligrafia (l’orco di cui parlo) che spegneva subito il corpo della sua personale maledizione (il fumo!) mentre un sacro silenzio cadeva nella classe. Dissoltasi la vicepreside, la sigaretta veniva di nuova accesa e un micidiale vocio riprendeva a regnare all’interno, fra banchi, fumo e irrequietezza preadolescenziale. Che esplodeva facendo i versi al professore mentre disegnava alla lavagna le sue perfettissime A e B e C, dotate di svolazzi che nemmeno in mille anni di pratica noi avremmo potuto imitare.

Mentre lui disegnava veri e propri capolavori, sperando che li facessimo diventare nostri, noi imitavamo i suoi modi. Con frasi nelle quali solo la parodia raggiungeva la perfezione. «La A si fa così», «La B si fa così» ecc. E a seguire in fretta – avevamo sempre fretta noi – D, E, F, G et alia. Di buono, d’esatto, solo il gutturale della dizione. Tutti quanti diventati orchi.

Allora erano cazzi. Il Prof si voltava ruggendo, puntava verso la classe l’indice e medio stretti insieme dove reggeva l’immancabile mozzicone e (abbaiando) imponeva silenzio. Per quattro/cinque secondi. Non appena si girava verso la lavagna, il rosario riprendeva. Al che – in seguito ad alcuni vani tentativi – l’ululo inevitabile «Uhèèè! Scièèè!». Faceva seguito un altrettanto inevitabile: «Due, quattro, sei fuori!».

Ne espelleva sei per volta, raramente otto. Sperando di imporre con i criteri della rappresaglia il rispetto che non riusciva a suscitare con le altre metodiche. Ma appena si voltava il vocio ricominciava e lui era costretto, credeva d’essere costretto, nuovamente a ululare, all’interno della sua perenne nuvola di sigaretta: «Due, quattro, sei fuori!».

Raramente 8, per lo più 6. Si moderava lui, quel virtuoso dell’incenso nicotinico. Indicando e ritmando con le due dita fumanti, sorta di pistola nuova maniera. Mi sembra di sentirli ancora i tuoni, gli strepiti rochi, l’odore intenso del fumo; le due dita che fungevano da plotone d’esecuzione; ipotetici suoni di cornamuse; visi gonfi a furia di schiaffi. Omero non avrebbe saputo fare di meglio. Io non mi ci azzardo nemmeno, racconto alla buona. Basti dire che decimava la classe, la cui maggioranza veniva trasferita nel corridoio.

Venuto a sapere di queste pratiche, il Preside operò lo sforzo di salire un po’ di rampe di scale per venire a controllare cosa succedeva all’ultimo piano. Scoprì il corridoio affollato e non ci vide più. Ne nacque un alterco al termine del quale La Penninasoprannome meritato, come vedremo poi – fu costretto all’autocritica: lui doveva segnalare al Preside, non sottrarsi al dovere di sorveglianza degli alunni.

L’umiliazione sua fu un po’ anche nostra. Ci costò un predicozzo che impegnò tutto il resto dell’ora. E si concluse con l’esortazione al rispetto del Prof, l’indicazione delle buone maniere che ci conveniva adottare, il culo che ci avrebbe fatto se l’avessimo costretto nuovamente ad affaticarsi su per le scale.

Per quel giorno e per la lezione seguente tenemmo un comportamento acconcio. Ma imperversando La Pennina con i suoi metodi, la guerriglia riprese corpo e impeto.

«Uhé scié» ululava, aggiungendo a più riprese: «vi faccio una faccia come un pallone!». Non ce le faceva. Però amava dirlo. Come amava invitare ad andare a pascolare le pecore. Oppure, frase prediletta: «Andate a suonare le cornamuse!».

Nessuno di noi credo abbia ottemperato. Per quanto, personalmente, imparare a suonare la zampogna è un pensiero immodesto che sempre mi ha tormentato.

Lui, La Pennina, non si contentava di questi inviti. Intensificava le minacce con: «Lacero il quaderno!». Ma bisognava dirlo come lui: laaacero il quaderno! E già con il tono lo lacerava. Non ammetteva si facessero correzioni o inzeppare in un’unica facciata le indicazioni di più lezioni. Bisognava sempre andare a nuova pagina. Non correggere sopra il già scritto, ma apporre un trattino riscrivendo accanto nella giusta e buona e santa maniera. Non ammetteva quasi niente, lui. Esigeva. Oltre al silenzio e a quaderni immacolati, pennina, pezzuola, inchiostro Pelikan ed esercizio. Molto esercizio.

Capitò a un poveretto di vederselo lacerare quel benedetto quaderno per aver scritto male una serie di lettere e invitato a correggere aveva corretto peggio. Sgorbi, non Calligrafia (stavo per scrivere Bella Calligrafia ma dall’aldilà un urlo orchino mi ha arrestato).

Quel che lo aveva reso effettivamente famoso era l’elenco della «dotazione» che pretendeva dimostrassimo di avere a inizio anno. Naturalmente la pennina (come chiamava lui lo strumento principe di lavoro, da cui il suo soprannome); e tutto il resto che già sapete o avete immaginato: il supporto della pennina; pezzuola (neppure i rivenditori sapevano casa effettivamente fosse; a volte equivocavano sghignazzando con battute oscene); inchiostro Pelikan blu; carta assorbente; maxi quaderno a righe, alcuni ricambi.

La mancanza di uno solo di questi elementi o la presenza di una penna biro sul banco (vigeva persino il divieto di parlarne); oppure una qualunque grave infrazione alla disciplina (era tutto grave per lui) ne provocava le ire. Nonché la condanna definitiva, inappellabile, mortale: «UNO TI METTO E UNO TI LASCIO!».

Lo stesso che tuonerò contro di voi se al termine di questa lettura non mi farete dono di un sorriso.

(*) Avete presente quel vecchio film «Cinque pezzi facili»? Ecco, il nostro Mauro Antonio ci ha regalato… 10 pezzi facili. Evviva. Uno ogni sabato. E se poi saranno di più chi si lamenterà potrebbe ricevere a casa l’Opera Omnia di Veltroni, così si impara.

 

Miglieruolo
Mauro Antonio Miglieruolo (o anche Migliaruolo), nato a Grotteria (Reggio Calabria) il 10 aprile 1942 (in verità il 6), in un paese morente del tutto simile a un reperto abitativo extraterrestre abbandonato dai suoi abitanti. Scrivo fantascienza anche per ritornarvi. Nostalgia di un mondo che non è più? Forse. Forse tutta la fantascienza nasce dalla sofferenza per tale nostalgia. A meno che non si tratti di timore. Timore di perdere aderenza con un mondo che sembra svanire e che a breve potrebbe non essere più.

2 commenti

  • Mariano Rampini

    Piglio uno, prendo uno, schiaffo uno! Oppure una sfraganata di mazzate… carissimo Mauro il tuo oggi amato professore di Calligrafia mi ha riportato alla mente i giovanili lazzi di Alto Gradimento e, in particolare, quelli del professor Aristogitone (appannaggio di Marenco). Che aveva molto in comune con il tuo professore. Non fosse che per i “Quarant’anni di insegnamento! Quarant’anni di delusioni!”. Un abbraccio ridanciano!!!

    • Grazie Mariano. Rispondo in fretta. Non sono stato bene e ancora arranco dietro qualunque cosa.
      Sono contento di quanto mi dici. Credevo che il pazzo prof di Calligrafia (ma non pazzo quanto la professora di matematica, della quale leggerai fra un paio di settimane) fosse tale da essere impossibile raccontarlo. Ma poiché mi diletto a scrivere di fantascienza ho ritenuto comunque di potermi azzardare.
      Beh, ora so che l’inraccontabile era già, almeno in parte, stato raccontato.

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