Brizio, Caserini, Fracassi, Galgut, Tabucchi: 5 recensioni di …

di Valerio Calzolaio ma anche la presentazione del suo nuovo libro «Isole carcere»

Damon Galgut

«La promessa»

traduzione (dall’inglese) di Tiziana Lo Porto

Edizioni e/o

282 pagine, 18 euro

Pretoria. 1986-2017. Nella primavera 1986 siamo in pieno apartheid. In una fattoria isolata dell’Alto Veld, muore l’orgogliosa socievole 40enne Rachel Cohn Swart, da oltre sei mesi ammalatasi di tumore; il funerale è colmo di tensione, lei era tornata da poco alla sua vecchia religione ebraica anglofona, il marito Herman Albertus Swart e la relativa famiglia, della Chiesa riformata olandese, culturalmente rigidamente afrikaner, non lo avevano proprio accettato. I figli sono da tempo in vario modo turbati: il 19enne Anton è sotto le armi, ha forse appena ucciso una donna che stava per tirare un sasso alla manifestazione di protesta e vuole disertare; la bionda procace 17enne Astrid ha appena fatto la prima volta l’amore con l’aitante sincero aiutante alle stalle Dean de Wet e vuole continuare; la piccola bruttina strana 13enne Amor è relegata in un odiato pensionato (il padre non è nemmeno convinto sia la sua, anche se era stato lui a tradire spesso la moglie) e sta per avere la prima mestruazione. Proprio Amor quindici giorni prima aveva ascoltato di soppiatto le ultime volontà della morente: Ma chiedeva a Pa di lasciare alla coetanea domestica nera Salome, che l’aveva servita e accudita per venti anni, molto durante la terribile malattia, una misera casetta storta non distante dalla loro, detta casa Lombard, dove viveva con il figlio Lukas. E se lo fa promettere. Amor lo ricorda a tutti nel disinteresse generale e lo ripeterà sempre. Ritroviamo i figli tutti distanti oltre nove anni dopo, nel giugno 1995, quando è appena morto il padre, morso da un serpente al suo parco dei rettili, ma non vi è traccia dell’impegno sulla casupola nel suo testamento; poi, ancora altre due volte nei momenti topici di vite e morti in famiglia, fino al febbraio 2017.

Splendido vincitore del Booker Prize 2021 il nuovo romanzo del grande scrittore sudafricano afrikaans Damon Galgut (Pretoria, 1963), un originale spaccato di istantanee sull’epopea familiare e sulla storia sociale. I pochi giorni posteriori a 4 eventi culminanti servono a ricostruire le esistenze dei 3 fratelli bianchi all’ombra dell’antica promessa materna-paterna (da cui il titolo) e di altre promesse mancate, all’interno di un Paese che passa dall’oppressione alla prevalenza della maggioranza nera. Loro non cambiano per questo, piuttosto per propri autonomi divergenti caratteri e percorsi individuali che suggeriscono anche specifici adattamenti: Anton vorrebbe scrivere un romanzo di rivolta, Astrid si fa amante di un potente politico nero, Amor diventa infermiera e omosessuale (ed è lei l’iniziale e maggior protagonista, colpita a 6 anni da un fulmine). La narrazione è varia, c’è una voce narrante che spesso si intervalla alla terza persona varia; lo sguardo comunque terzo ed esterno trasfigura talora nella prima o nella seconda seguendo pensieri e azioni del personaggio, anche in altre città; fra i personaggi cruciali non vi sono solo genitori e figli, con contorsioni varie pensano e agiscono gli zii, i ministri dei culti, più o meno occasionali compagne e compagni di esperienze o di vita; il passaggio dall’uno/a all’altro/a non è scandito e passa dentro le connessioni emotive o contingenti, sempre con grande maestria e poesia; la lettura talora sembra inciampare, mantenendo però il magico fluire di menti e corpi vicini che si guardano reciprocamente da lontano, come se il narratore avesse una cinepresa mai spenta su cambi di scena e prospettiva con lunghissimi piani sequenza (Birdman, ma non siamo a teatro; La la land, ma non è musical). In esergo una domanda a Fellini: «ma perché nel suo film non c’è neanche una persona normale?». Peraltro, «il denaro fa emergere gli aspetti più brutti della natura umana» e sia per gli ebrei che per gli afrikaner «il sangue è la colla più densa di tutte» (e forse anche per altri). Sullo sfondo, Mandela vecchio al lavoro e Mbeki assurdo sull’Aids. Musiche dissonanti. Molto buon vino rosso

 

Stefano Caserini

«Sex and the Climate. Quello che nessuno vi ha ancora spiegato sui cambiamenti climatici»

People edizioni

174 pagine, 14 euro

Pianeta. Ovunque si fa sesso. Il clima sulla Terra cambia da sempre all’interno e fra i vari ecosistemi e nell’ecosistema globale, influendo sulle relazioni fisiche ed emotive. “Sex and the Climate” dell’ottimo ingegnere ambientale e dottore di ricerca Stefano Caserini (Lodi, 1965) esamina con acume e curiosità le connessioni con sentimenti o desiderio di congiunzione fra gli esseri umani. L’autore lavora sulle strategie di riduzione delle emissioni e segue la produzione culturale sui cambiamenti climatici antropici globali; passa in rassegna gli indizi su “eros e clima” disseminati nelle riviste scientifiche e le tracce ulteriori in giornali, social, libri, canzoni. Sono 12 bei divertenti colti capitoli. Per capirci, quello “Evoluzioni” è così sottotitolato: «Dove viaggiando nello spazio e nel tempo per capire come gli umani si sono amati nel passato non arriviamo a capire come potrebbe andare in futuro ma scopriamo alcune cose buffe sul perché siamo come siamo».

 

Claudio Fracassi

«La marcia su Roma. 1922. Mussolini, il bluff, il mito»

Mursia

414 pagine, 19 euro

Italia. Prima e durante il 1922, un secolo fa. Il 31 ottobre 1922 il re Vittorio Emanuele III chiamò a presiedere il governo Benito Mussolini, giovane e apparentemente energico parlamentare di Milano, che guidava un piccolo partito di 35 deputati (su 535 della Camera). Pochi giorni prima si era svolto un raduno nella capitale italiana di molte migliaia di militanti fascisti (alcuni armati), definito solennemente dai suoi promotori “Marcia su Roma”. Stava iniziando il ventennio della dittatura fascista. Nel corso del tempo menzogne e inesattezze storiche hanno fatto sedimentare un diffuso senso comune su quel raduno precario e dilettantesco che ha preso il posto della realtà. Vale allora la pena esplorare a fondo cosa successe in quei giorni attraverso i drammi, le violenze, gli intrighi e gli innegabili aspetti farseschi. Trentanove milioni di italiani vissero da lontano e probabilmente con curiosità quell’ennesima crisi di governo e la sua conclusione mussoliniana, constatando un’ampia e soddisfatta approvazione di Sua Maestà da parte di pressoché tutta la classe dirigente economica e culturale e della stampa più influente. Parte di loro assistettero, in alcune località del centro-nord, al passaggio o alla partenza di gruppi di squadristi armati, che improvvisavano comizi o cercavano addirittura, non sempre con successo, di occupare temporaneamente le sedi istituzionali locali. Pochi ebbero davvero motivo per rendersi che non si trattava soltanto dell’imprevisto ma rassicurante lieto fine di un’ulteriore turbolenza politica. La vicenda costituzionale italiana stava per subire una cesura, nasceva un regime violento e oppressivo. Teniamo precisamente e sommamente a monito le premesse e gli eventi, evitiamo le trasfigurazioni della menzogna in mito e della politica in spettacolo.

Il giornalista e scrittore italiano Claudio Fracassi (Milano, 1940), già direttore del quotidiano “Paese Sera” e del settimanale “Avvenimenti”, ripercorre con meticolosa documentata attenzione un passaggio cruciale della storia italiana, ciò che accadde e ciò che non accadde, mettendo in esergo proprio una chiarificatrice frase di Oscar Wilde: «fornire una descrizione accurata di ciò che non è mai accaduto non è soltanto il compito che spetta allo storico ma il privilegio inalienabile di ogni uomo di cultura». La narrazione prende avvio dal 1919, articolandosi in ventidue capitoli prima del (triste) epilogo, con un procedere cronologico: tante informazioni sul contesto economico-sociale; comunicati e note ufficiali; citazioni di diari, discorsi, giornali, telefonate intercettate; ricostruzioni e testimonianze dell’epoca; retroscena e ulteriori riferimenti di testi storici. Vi sono poi due ricchissime appendici di documenti e di note. Pochi compresero davvero cosa stava accadendo. O fecero finta (per interesse) di non intenderlo. In tutta la classe dirigente europea (e innanzitutto italiana) si stentò a lungo a esaminare e a capire la prassi e l’ideologia fasciste: l’uso della violenza teorizzato e sistematico da una parte, il legame organico (non solo propagandistico) con la borghesia del denaro e degli affari dall’altra. Anche la sinistra politica italiana (con poche eccezioni) visse la “Marcia” come una bega rumorosa e deplorevole del mondo padronale, limitandosi alla sgradevole impressione dell’ intrigo e dell’impotenza. Si videro solo poi le dimensioni epocali dell’incarico a Mussolini, prologo alla dittatura e, più tardi, alla guerra. Bene: facciamoci mente locale, sono trascorsi appena cento anni.

 

Antonio Tabucchi

«Di viaggi e di sogni. Donna di Porto Pim. Notturno indiano.» (due romanzi: prime edizioni nel 1983 e 1984)

Sellerio

244 pagine, 10 euro

Isole Azzorre, estate 1982. Né racconto di viaggio, né pura finzione. Piuttosto paesaggi impressioni testimonianze storicamente vissuti in terza persona e usati per «una metaforica circumnavigazione attorno a me stesso», a partire dalla precarietà colta dell’insularità che necessariamente sviluppa un’arte della sopravvivenza. India, decenni fa. Il narratore in prima persona cerca il vecchio amico Xavier in uno squallido bordello, in un ospedale sovraffollato, altrove, senza eccessivo impegno, conversando spesso acutamente con poetica paura. “Di viaggi e di sogni” raccoglie due testi famosi a loro tempo, eppure dovrebbe esserci sempre voglia e modo per rileggere il grandissimo Antonio Tabucchi (Pisa 1943-Lisbona 2012). Qui gli scritti sono introdotti da famosi autori, giornalisti (soprattutto) e colleghi, il primo (tradotto da Vincenzo Barca) dal portoghese António Mega Ferreira (1949), il secondo dall’inglese Tim Parks (1954), naturalizzato italiano. Tutto molto serio e allegro.

 

Giorgio Brizio

«Non siamo tutti sulla stessa barca. Le sfide del nostro tempo agli occhi di un ragazzo»

prefazione di Luigi Ciotti

Slow Food Editore

378 pagine per 16,50 euro

Pianeta Terra. Qui e adesso. Giorgio Brizio è ora un ventenne che frequenta un corso di laurea in Scienze Internazionali dello sviluppo e della cooperazione. Negli ultimi anni a Torino ha fatto parte da protagonista di quel vasto movimento studentesco, colto e sovranazionale, impegnato a scuotere maturi e potenti sugli effetti spesso e diffusamente drammatici dei cambiamenti climatici antropici globali, insieme alla bella onda di Greta Thunberg e di Fridays4Future. Quasi un anno fa ha raccolto documentazione, proposte e riflessioni nel bel saggio “Non siamo tutti sulla stessa barca”. Si tratta di sette freschi accurati capitoli di dati e testimonianze: Il mare si alza, The wave, Il confine più letale del mondo (il Mediterraneo, sia per le migrazioni forzate sia per quelle un poco più libere), Non annegare, Ultime spiagge, Una barca che ci salvi tutti (presto, da cui il titolo). I diritti d’autore saranno devoluti a Mediterranea e ResQ, che salvano vite lungo rotte impervie.

E’ appena uscito di Valerio Calzolaio «Isole carcere. Geografia e storia», Edizioni Gruppo Abele). E’ un libro su storia, funzione sociale e peculiari caratteristiche della detenzione penitenziaria sulle isole. Quale significato ha assunto nei secoli, e ha tutt’ora, la reclusione su territori lontani dalla terraferma? Ne riparleremo presto. Ecco intanto il «preambolo».

Un’isola non è, per natura, una prigione. Sopravvivere e riprodursi in un ecosistema circondato da acqua o in un ecosistema sulla terraferma è diverso per ogni animale, ma gli adattamenti biologici e le migrazioni hanno reso il pianeta ricco di biodiversità, coevoluto attraverso il contributo di innumerevoli forme di vita e specie. Le isole, in particolare, hanno determinato originali selezioni di specie e, tuttavia, nel lungo corso dell’evoluzione umana, non hanno costituito ecosistemi a sé stanti né per il genere Homo né per la specie Homo sapiens.

Le culture umane hanno manifestato la capacità di imitare il contesto ambientale, di “usare” la specifica barriera intorno a ogni isola anche per isolarsi o per isolare propri simili, facendo diventare nel secondo caso l’isola un luogo di detenzione per altri, una prigione, un carcere. Questo uso rompe la discontinuità propria dell’isolamento geografico e, per altri versi, la raddoppia, la determina per chi ci va o vi viene lasciato. Ecco i fenomeni dell’isolazionismo e dell’uso penale della condizione d’isolamento su isole: il doppio isolamento. Ogni umano è diventato doppiamente isolabile dagli altri! L’isola è un ecosistema di isolamento genetico ed evoluzionistico divenuto, per umana attività, anche isolamento detentivo, civile e sociale.

Isolare o isolarsi e muoversi per staccare o staccarsi dal contesto precedente. Una certa capacità di movimento, più o meno consapevole, di camminare, nuotare, navigare, volare, e poi sopravvivere in un ecosistema diverso, di trasportare o essere

trasportati, di fuggire o deportare caratterizza differenti gradi della capacità di migrare, anche nelle e dalle isole. Tale capacità è poi dipendente dalla geografia e dalla storia della presenza di Homo sapiens sul pianeta, premessa indispensabile alle scelte di isolamento detentivo insulare, soprattutto se consideriamo il ruolo cruciale delle coste e del mare nell’evoluzione.

Per l’umanità attuale il mare resta barriera, spartiacque, trans-frontiera, orizzonte e confine a 360 gradi. Molto contano, quindi, l’ampiezza del tratto di mare fra confinanti e confinati, la distanza fisica fra potere sociale che sceglie di deportare (che ne ha forza e capacità) e individuo-individui isolati, anche oggi che vi è ampissima capacita della specie umana di cambiare residenza (sebbene non per tutti i suoi singoli individui) ma che viene violato il diritto di restare e non adeguatamente garantita la libertà di migrare.

La metafora dell’isola come prigione ha, pertanto, una sua lunga vicenda culturale e innumerevoli fonti letterarie. C’è una millenaria storia umana di isolamento su isole di sapiens da parte di altri sapiens (e talora sulle isole non siamo vissuti solo noi sapiens, visto che a Nasso transitarono certamente anche i Neandertal, grazie all’abbassamento del livello marino durante le ere glaciali), almeno da quando facciamo gruppo, da quando navighiamo, da quando siamo stanziali, da quando siamo conflittuali con altri gruppi umani sapienti. Le vere e proprie carceri, anche sulle isole, vengono dopo, solo qualche secolo fa. Prima le pene e le detenzioni erano tutt’altra cosa e, del resto, su un’isola non c’era nemmeno strettamente bisogno di muri e celle per evitare fughe.

Qualche carcere su piccole isole c’è ancora, anche se molto meno che in passato e, certo, alla prova della storia e della geografia, la parola d’ordine per il presente e per il futuro dovrebbe essere: mai più detenzione in una piccola isola! Visto che sono concentrati di biodiversità, di specie endemiche e di specificità delle culture umane (più separate che altrove, ma non meno stratificate e meticce) suggeriamo piuttosto di organizzare nei prossimi decenni altri parchi e musei nelle piccole isole, ove magari si trasmettano le memorie di quando avevano funzione pure di isolamento detentivo.

Riflettiamo intanto ora, in modo sperimentale, meditato e comparato, sulla geografia e sulla storia delle isole carcere. Proporremo poi, nella parte seconda, alcuni esempi dettagliati e, nella terza, una prima accurata e motivata selezione delle isole carcere esistite al mondo.

Chiunque desideri partecipare al completamento della ricerca con osservazioni e integrazioni può farlo attraverso la pagina online https://shortest.link/1Yqy, oppure contattando l’autore all’indirizzo calzolaiov@gmail.com.

 

Redazione
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